Tra le critiche che papa Francesco muove alla società contemporanea spicca quella della «cultura dello scarto», che egli definisce e descrive come parte di quella che, a sua volta, chiama l’«economia di esclusione».
Questa cultura è contraddistinta dalla pratica di scartare beni e relazioni come espressione di opulenza e come conseguenza dell’inestinguibile sete del nuovo. Essa pervade varie dimensioni della vita umana, come l’alimentazione, l’abbigliamento, la tecnologia e le relazioni. La cultura dello scarto è una mentalità e una visione del mondo che porta, e persino incoraggia, a disfarsi di cose, valori, persone e legami comuni una volta che paiano aver esaurito la loro utilità.
Lo scarto di cose e di cibo
Viviamo in un’epoca, e in una parte di mondo, in cui è quasi fatto divieto formulare desideri diversi dall’acquisto e dall’accumulo ossessivo di beni. La cultura del consumo, alimentata da un’«economia ipertiroidea», esalta l’acquisto compulsivo come meccanismo per mantenere in funzione i macchinari industriali.
La tesi della «cultura dello scarto» ha guadagnato sostenitori nel corso dei decenni. Tuttavia, non sono mancate voci critiche sostenendo che il concetto è troppo superficiale e generico. Le persone non gettano affatto via con noncuranza gli oggetti domestici o quelli personali.
Ci sono tre ragioni che spingono le persone a disfarsi delle cose: identità, mobilità e relazioni.
La gente si impegna costantemente a negoziare nuove identità rispondenti ai cambiamenti contestuali o della percezione che ha di sé. Poiché la cultura materiale è una componente importante dell’identità individuale, talvolta le persone non hanno altra scelta se non quella di buttare via oggetti personali: è un modo per disfarsi delle loro vecchie identità.
Anche i traslochi costringono ad abbandonare determinati oggetti.
Allo stesso modo, chi inizia una nuova relazione è indotto a liberarsi di ciò che gli ricorda quelle precedenti. Il «processo dello scarto» implica una decisione importante, forse anche dolorosa, perché le persone guardano alle conseguenze economiche, ambientali ed emotive che derivano dal disfarsi di qualcosa.
Perdita di cibo e spreco di cibo
La cultura dello scarto mette immediatamente davanti agli occhi le cose che si gettano, ma c’è anche lo «spreco di cibo». Esso si riferisce allo scarto di prodotti alimentari che avviene nelle famiglie o nei locali per la ristorazione. Si stima che vada perso o sprecato un terzo del cibo prodotto per il consumo umano, pari ogni anno a 1,3 miliardi di tonnellate. La perdita e lo spreco di cibo rappresentano, insieme, un ammanco di reddito annuale superiore a 1.000 miliardi di dollari.[1]
Comprensibilmente, António Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, ha definito la perdita e lo spreco di cibo «un oltraggio etico», soprattutto se si considera il numero crescente di persone affamate nelle comunità povere. Le stime dicono, ad esempio, che nel 2020, patissero la fame 690 milioni di persone al mondo. Il Covid-19 ha ridotto alla fame altri 132 milioni di persone.
Per questo problema sono state proposte numerose soluzioni tecniche. Si va dallo sfruttamento della tecnologia moderna per aumentare la durata di conservazione dei prodotti alimentari, attraverso la refrigerazione e la trasformazione agroalimentare, all’accorciamento delle catene di approvvigionamento, producendo cibo più vicino al consumatore.
Tuttavia, le soluzioni tecniche non possono, da sole, generare il cambiamento auspicabile nell’atteggiamento degli esseri umani verso il cibo. Al vertice delle motivazioni c’è il cambio di mentalità o di paradigma.
La conservazione dell’alimentazione delle masse
La cultura dello scarto può essere corretta in modo più efficace promuovendo narrazioni che forniscano presupposti paradigmatici contrari alla filosofia dello spreco. La mentalità di conservazione delineata nei racconti evangelici in cui Gesù sfama la folla rientra in simili paradigmi correttivi. Nei Vangeli, ci sono cinque racconti dell’episodio in cui Gesù sfama la folla: Mc 6,30-44; Mt 14,13-21; Mt 15,32-39; Lc 9,10-17; Gv 6,1-14.
Si deve notare che tutti i racconti, tranne Mt 15, fanno riferimento all’atto di «comprare» (Mc 6,36-37; Mt 14,15; Lc 9,13; Gv 6,5). Nei Vangeli sinottici, il suggerimento di acquistare il cibo proviene dai discepoli, mentre in Giovanni è Gesù stesso a proporre l’idea ai discepoli, per metterli alla prova.
In primo luogo, l’acquisto evoca la logica dell’economia di mercato, quel regno dello scambio di valore che avviene nell’agorà.
In secondo luogo, esso crea una distinzione tra «coloro che hanno» e «coloro che non hanno». Ciò che si acquista è in grande misura condizionato dalle proprie disponibilità piuttosto che dai bisogni personali. Si può comprare finché se ne hanno i mezzi e, d’altra parte, chi è povero deve astenersene perché non ha i soldi per farlo.
In terzo luogo, l’idea di acquisto istituisce una relazione di diritto su ciò che viene acquistato: si possiede il diritto di fare ciò che si vuole con quanto si acquista; si può decidere di buttare via quel che si è comprato senza incorrere in alcuna sanzione legale.
Nel regime della compravendita c’è poco spazio per la gratitudine. Nei Vangeli sinottici i discepoli chiedono a Gesù di attivare la logica dell’economia di mercato, con tutti i suoi crismi: lo esortano a mandare la folla nei villaggi vicini per comprarsi il cibo. Gesù, invece, introduce la «logica del dono»,[2] dicendo ai discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37).
Finché Gesù non ha rivolto loro quell’invito, i discepoli presumevano di non avere nulla da dare alla folla. Ma, a quel punto, si scopre che c’è qualcosa da condividere: cinque pani e due pesci. Così la logica dell’economia di mercato può essere sospesa, o addirittura soppiantata, dalla logica del dono.
Ulteriore elemento significativo del racconto di Gesù che sfama la folla è la raccolta degli avanzi. Sebbene tutti i racconti evangelici si riferiscano a questo dettaglio, solo Giovanni specifica il motivo per cui vanno raccolti gli avanzi: «Perché nulla vada perduto» (Gv 6,12). Questo elemento narrativo è il fulcro del paradigma anti-spreco. Come sottolinea papa Francesco, «Gesù chiede ai discepoli che nulla vada perduto: niente scarti!».[3]
Raccogliere ciò che avanza è anche un’espressione di gratitudine per colui che ha fornito il cibo. È un atto di umiltà, indica il sentirsi in debito e la disponibilità ad assumere cibo non più “fresco”, perché il culto della “freschezza” è uno dei fattori che contribuiscono alla crescita della cultura dello scarto.
Come praticare oggi la differenza cristiana
Come Chiesa, dobbiamo essere attenti a non replicare le stesse dinamiche che sono proprie del capitalismo e del denaro, cioè ragionare sempre con l’idea dei numeri, della visibilità, delle opere di carità sempre più grandi e difficili da mantenere, moltiplicare gli eventi, avere dei preti che spesso sono costretti a fare i manager. Cristo è il povero, è colui che oggi ti chiede di praticare la marginalità, l’inefficienza. Sono tutte cose che un sistema capitalista non può prevedere perché portano al fallimento.
Serve una conversione continua per riuscire a praticare la marginalità vera, quella di chi opta per un’idea di spreco evangelico, quella del profumo sprecato e non investito.
Lo scarto delle persone
Viviamo nel contesto di una società pronta a puntare il dito e a scagliarsi contro chi è più fragile. La povertà è in aumento, e contro chi vi scivola si stanno diffondendo pericolosi sentimenti di astio e quasi di ripulsa.
L’Italia è piena di vie sfavillanti in cui i manichini riposano al caldo con indosso abiti da migliaia di euro mentre dei disperati giacciono a terra con addosso qualche abito vecchio, pochi cartoni e una coperta per ripararsi dal freddo.
Le file alle mense dei poveri si stanno allungando, i bambini e le bambine in difficoltà sono troppi, al punto che alcuni di essi trovano a scuola l’unico pasto completo della giornata, e la perdita del lavoro per molti costituisce la perdita di ogni certezza e di ogni punto di riferimento. In un mondo sempre più competitivo e feroce non tutti possono farcela da soli. E la fragilità non può e non deve mai essere considerata una colpa. Il Rapporto Caritas 2022[4] presenta dati e numeri impietosi:
- 5,6 milioni di poveri assoluti in Italia, di cui 1,4 milioni bambini (Istat).
- Per i nati in famiglie poste in fondo alla scala sociale diminuiscono le chanches di risalire.
- In Italia occorrono 5 generazioni per una persona che nasce in una famiglia povera per raggiungere un livello di reddito medio.
- Il 54,5% dell’utenza Caritas manifesta due o più ambiti di vulnerabilità: tra problemi economici, occupazionali, abitativi, familiari, di salute, legati all’immigrazione…
Queste vicende ci ricordano quanti valori si sono persi, quanti princìpi si sono calpestati e quanta indecenza si è ormai disposti a tollerare. Stanno lì come coscienza critica di chi non vuole arrendersi. Stanno lì col loro garbo e la gentilezza di poveri, di sconfitti, di esseri marginali che chiedono in cambio unicamente un sorriso e, per questo, nel loro essere controcorrente, sono già giganteschi.
Relazioni da ricostruire
Un tasto delicato è quello delle relazioni che, nella prospettiva individualista e autoreferenziale, sono diventate un puro strumento, oppure un ostacolo per la libertà personale.
La libertà non è qualcosa che l’altro mi toglie, ma qualcosa che l’altro mi regala, la mia libertà ha bisogno degli altri, perché noi ci possiamo liberare solo insieme, e a vicenda, come testimonia questo dialogo tra una dottoressa amica, e un suo paziente che si sentiva uno scarto.
Io sono incappato nei briganti, Lui finì per me tra i malfattori
«Non perda tempo con me, non ne vale la pena, sono un delinquente… non ricordo più neanche quanti anni avevo quando ho iniziato a rubare… piccoli furti… poi altri… ci riuscivo, diventavo sempre più bravo, fino a quando non iniziarono a prendermi… un anno di galera, poi due… dieci… Chi erano i briganti… gli sbirri o chi mi aveva messo in una trappola da cui non potevo uscire?
Intanto nei brevi tempi di libertà, quando ancora mia moglie mi aspettava veniva fuori anche un figlio e poi un altro… ma poi lei si stancò di me e, in un mio ritorno, la casa c’era, anche lei c’era, ma non potevo entrare, la chiave non girava più nella serratura.
Le dissi “sei una brigante…” e lei mi rispose “brigante è chi ti ha ridotto così”.
Ma perché le racconto queste cose… non perda tempo, ha tante cose da fare… io sono un delinquente! Però se proprio ha voglia, volevo dirle che poi la mia compagna fu la droga… mi sembrava di aver raggiunto il paradiso… ma quando l’effetto straordinario finiva, raggiungevo l’inferno! Allora i furti si moltiplicavano e si moltiplicava il carcere… Maledetti sbirri, siete proprio dei briganti… mi trovavano sempre, mi prendevano e mi sbattevano in celle sempre più buie e fredde… Che ne dice: sarà quella la causa del cancro? Ma forse no, ho vissuto per le strade e mangiato avanzi… forse è per questo!
“Siete usciti con spade e bastoni come contro un delinquente, eppure ogni giorno io stavo con voi nel tempio e non mi avete arrestato. Ma questa è l’ora vostra e la potenza delle tenebre” (Lc 22,52-53).
Ma ora sono qui in questo letto, come un crocifisso, il cancro mi sta divorando, gli “amici” che poi sono stati i veri briganti, mi hanno abbandonato e la madre dei miei figli e i miei figli e tutti… non perdere tempo con me, lasciami morire sono un delinquente!
“Quando giunsero sul posto detto luogo del Cranio, crocifissero Lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”
Sono venuti i figli, mi hanno abbracciato… come sono cresciuti, come sono belli… uno persino mi rassomiglia… Coraggio, sbrigati, fammi la chemio… non voglio morire… Signore, abbi pietà di me.
“Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.
[1] A. Craigen – K. Davis, «How cities can fight food loss and waste», in United Nations Development Programme Blog (www.undp.org/blogs/how-cities-can-fight-food-loss-and-waste), 4 novembre 2020.
[2] Cf. Benedetto XVI, Enciclica Caritas in veritate (2009), n. 36.
[3] Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013.
[4] https://www.caritas.it/presentazione-del-rapporto-2022-su-poverta-ed-esclusione-sociale-in-italia/