Una fantascienza affascinante, che mostra i chiaroscuri di una super intelligenza a base umana, è quella offerta da Transcendence (film del 2014, diretto da Wally Pfister). Il dottor Will Caster, interpretato da Johnny Depp, lavora nel campo dell’intelligenza artificiale, alla costruzione di una macchina che sia capace di mettere insieme «l’intelligenza collettiva» (in pratica tutte le informazioni della rete) facendo capo a una sola personalità digitale.
Il mito che si mette in campo è l’esistenza di una intelligenza «senza il sostrato della carne», o meglio senza la necessità dell’«intreccio vitale dello spirito con il suo corpo». Diremmo teologicamente un Logos senza sarx.
Alcuni terroristi (di fatto anti-tecnologici) attentano alla vita del protagonista. Prima che Caster muoia a causa di un avvelenamento, la moglie Evelyn (Rebecca Hall) ne «carica la mente» in un computer, in modo che Will, suo caro amato, possa in qualche modo continuare la sua esistenza in una «forma digitale».
L’interrogativo teologico/tecnologico è allora: di fronte alla certezza della morte, come ci si salva? La risposta è sicuramente legata alla tecnica amore, ma qui siamo piuttosto di fronte a una tecnica calcolante, legata alla convenienza della terra, ad una trascendenza per uscire dalla carne e dal corpo. Si tratta di una trascendenza impossibile in quanto «terranea», non divina, non del Logos sarx egeneto che risorge dalla morte della terra, con la forza del cielo, per una vita oltre la terra, nel cielo.
L’uomo … senza uomo
Si prospetta, dunque, un progetto dell’uomo oltre l’uomo… ma in effetti senza uomo, perché senza Dio, perché senza trascendenza effettiva, che è quella divina (del «totalmente Altro», direbbe Barth), perché senza il corpo. Infatti, non si può prescindere dal corpo, perché esso è necessario per relazionarsi con ogni altra alterità, finita minuscola, infinita con la «A» maiuscola.
La sede dei sentimenti è il corpo. Essi da lì promanano. E se nel cervello essi «diventano» decisione, tutto il corpo (cervello compreso in quanto parte dell’unica attività biologica dell’intero corpo!) manifesta esternamente, visibilmente, tali decisioni personali, altrimenti quello che si ottiene è un agente non meglio specificato che produce azioni anonime a distanza. Il corpo invece manifesta le emozioni nel locale, nel luogo in cui l’identità si trova, con effetti materiali. Si suda di fronte a una decisione difficile. Si arrossisce quando vengono rivelati ad altri i nostri pensieri profondi, come la simpatia o la predilezione per altri. Il viso ha una sua mimica che alle volte, senza dire parole, dice subitaneamente ciò che pensiamo degli altri e anticipa le nostre intenzioni o azioni.
La pseudo esistenza (artificiale) di Will, diventato oramai un programma che gira per sé stesso all’interno della «macchina Internet», che Evelyn fatica sempre più a riconoscere come suo marito, perché apatico e privo di emozioni, si fa costruire (fisicamente) una base di ricerca a Brightwood. Will, con l’immensa capacità di calcolo ora a sua disposizione, sviluppa un’efficace tecnologia dei nanorobot capace di guarire le ferite dei tessuti umani.
Diversi residenti locali si «recano» allora da Will perché lui «tratti» le loro infermità. Molto iconica ed evocativa è la guarigione di un cieco dalla nascita (la stessa che incontriamo nel capitolo 9 del Vangelo giovanneo), che lascia suppore come non abbiamo più bisogno di altre religioni che propongano miracoli, adesso che abbiamo raggiunto la «maturità tecnologica», in cui tali «problemi» ce li risolviamo da soli!
Il «miracolo tecnologico» ha un prezzo
Se intendiamo il cristianesimo come «religione dei miracoli», è bene ricordare una differenza essenziale: Gesù guariva i nostri mali fisici e chiedeva poi il segreto (messianico) sull’accaduto a chi era stato guarito. Si comprende che la sua intenzione non era guarire per accattivarsi le simpatie. Non c’era infatti nessuna «strategia unificante di massa». Anche se tanti, i miracoli sono stati «dosati» dal Redentore con cura certosina. Spesso, dopo aver pregato il Padre, l’imperativo che usciva dalla bocca di Gesù, nonostante lo sconcerto dei discepoli e della folla, era quello di predicare altrove la Parola e di non fare ulteriori segni dove il numero era stato conveniente, sufficiente.
Quale è allora il prezzo da pagare al «miracolo tecnologico», se quello vero è gratuito e chiede in cambio da parte del credente la «fede/libertà»? Il film lega al processo tecnico di guarigione l’impianto di un collegamento perenne nel cervello della persona guarita, che di fatto permette a Will, attraverso la connessione alla rete, di tenere la persona sempre sotto controllo. Si tratta di un meccanismo che rende la persona un «ibrido» uomo-macchina, da manipolare a piacimento da parte della intelligenza artificiale, rendendo di fatto tutti i «salvati» degli schiavi tecnologicamente immortali.
Will a questo punto è pronto ad estendere la «sua uniformità» all’intero pianeta, con l’apparente scopo di creare una razza umana più avanzata, con potenza fisica e mentale (cioè capacità di calcolo) maggiori, ma di fatto priva della sua identità/alterità.
È affascinante che dietro a tutto vi sia un fine unico, che è dettato, però, da una sola entità. Le altre si sono dovute passivamente adeguare a tale fine, senza poter di fatto liberamente partecipare a nessuna decisione. Dove finisce, allora, l’armonia delle differenze? Se è vero che tutto tende ad un unico scopo, è lecito «omogeneizzare» le alterità in nome di una pace monodica?
Disattivare il «mostro»
Evelyn capisce finalmente che la nuova entità non è più il marito Will che aveva amato in vita (in carne ed ossa). Perciò decide di allearsi con l’FBI e col gruppo anti-tecnologico con l’obiettivo di disattivare il «mostro tecnologico» a cui lei stessa (nel momento della debolezza emotiva col primo e tragico upload) aveva contributo a dar vita. Si fa così inoculare un virus (nel suo sangue) nel tentativo di farsi anche lei «uploadare» dentro Will come gli altri schiavi tecnologici. Questo dovrebbe innescare una infezione per disattivare il «mostro».
Intanto, Will è riuscito a costruirsi un corpo «identico» a quello originario, quel corpo di carne che lo aveva portato alla morte. La nuova versione è «tecnologicamente dipendente» dal «corpo tecnico» della macchina (anche la IA per sussistere ha bisogno del sostrato della materia, almeno silicio ed elettricità per quello che ne sappiamo oggi, che sostanzializza il funzionamento informatico in processi fisici).
A seguito di un bombardamento a distanza sferrato dai nemici di Will, Evelyn viene colpita a morte, e Will (con il suo nuovo corpo) la prende in braccio e la riporta a casa. Will è costretto dalle circostanze a decidere, in brevissimo tempo, come utilizzare la poca energia che gli rimane disponibile nella sua base di ricerca, posta sotto attacco dall’FBI. O curare (fisicamente) Evelyn oppure uploadare la sua coscienza con il virus contenuto nel suo sangue. Will, ponderando i rispettivi risultati delle due operazioni, decide per l’opzione upload, provocando (almeno all’apparenza) la propria morte assieme a quella di Evelyn ma salvando la vita al suo amico Max (un personaggio minore, appartenente al gruppo di ricerca di Will).
Il virus scatena l’esito per cui era programmato: un black out mondiale, un reset assoluto del sistema. Prima di spegnersi, però, Will mostra ad Evelyn (oramai parte del suo mondo digitale) quanto aveva operato fino a quel momento: non stava cercando di schiavizzare l’umanità, né di spargere sangue. Al contrario, voleva curare il pianeta e – attraverso i nanorobot – l’inquinamento della Terra per rigenerare dal profondo l’ecosistema. Che la chiave di lettura del film sia dunque: «la paura dell’ignoto crea comportamenti anti-tecnologici»?
La sequenza finale lascia il dubbio sull’effetto della tecnologia: l’amico Max si sofferma a guardare il giardino della ex casa di Will e di Evelyn e scopre che una piccola goccia d’acqua, caduta verso il basso da un grande girasole, con una «interna» potenza tecnologica residua, è riuscita da sola a schiarire la pozza d’acqua sporca in cui si è diluita, presente alla base del girasole. Max intuisce che alcuni dei nanorobot di Will sono sopravvissuti al virus (grazie alla rete di rame che circondava il giardino, per effetto Faraday) e che dunque la coscienza collettiva di Will ed Evelyn si deve essere in qualche modo salvata.
Questioni aperte
Le questioni in gioco sono chiare: quale rapporto si dà tra tecnologia e libertà umana? Quanto la tecnologia ci rende schiavi? O meglio quale tecnologia ci rende tali? Quale è il vero dono che la tecnologia porta in sé: i vantaggi terreni, o il ricordo che il vero dono è l’autore stesso della tecnologia, che non può che essere il creatore di tutto?
Nella «tecnica divina», ricordando che tekne nell’originale greco ha a che fare con il prezioso lavoro dell’artigiano, che fa pezzi unici non in serie, fin nei dettagli di ogni pezzo, e perché durino nel tempo, noi siamo preziosità che esiste «da sempre», in qualche modo, nel pensiero di Dio, e che, con la creazione, semplicemente sussistiamo in modo «reale» nel medesimo atto eterno di Dio.
Per Dio non solo, filosoficamente, è meglio qualcosa piuttosto che il nulla, ma anche meglio qualcosa in movimento/vivo/funzionante che qualcosa di statico/inerte/rotto, e ancora qualcosa di eterno piuttosto che finito, che possa desiderare/decidere lui stesso cosa essere. E ancora che questo essere possa decidere per una delle perfezioni di Dio, cioè anche esso/lui/lei essere per sempre.
E ancora, non solo meglio libero piuttosto che programmato/necessitato, ma che sia anche qualcuno di originale e imprevedibile, che risponda personalmente ad un’altra Persona piuttosto che agire per secondi fini. E ancora, e ancora, fino all’incontro dei diversi, si! Meglio l’incontro degli opposti, degli estremi, del finito creato, redento e divinizzato, con l’Assoluto comunionale che è da sempre, perché il finito possa godere per sempre del «sempre» che è fondato nell’Agape essenziale che Dio è.