La tappa continentale latinoamericana del Sinodo 2021-2024 è considerata particolarmente innovativa in questa intervista a Luis Marín de San Martín, vescovo spagnolo, dal 6 febbraio 2021 sottosegretario presso la Segreteria Generale del Sinodo, il quale ha partecipato all’incontro dei segretari generali e dei presidenti delle conferenze episcopali organizzato dal Consiglio Episcopale Latinoamericano e dei Caraibi (CELAM) a Bogotá, dal 21 al 23 marzo. La Tappa Continentale del Sinodo si è sviluppata in sette grandi regioni: ognuna di queste Tappe Continentali ha prodotto un documento. A partire da questi documenti si sta preparando l’Instrumentum laboris per l’Assemblea del Sinodo dei vescovi del prossimo mese di ottobre.
La Tappa Continentale latinoamericana è stata un esempio di interculturalità, perché «le diverse realtà culturali ci hanno fatto vedere che ci sono vari modi per seguire Cristo». Il metodo, molto apprezzato, è stato il colloquio o la conversazione spirituale e il discernimento comunitario, elementi propri di una Chiesa che è comunità. L’obiettivo era quello di evitare idee preconcette e di volerle imporre. Un atteggiamento che dev’essere assunto da tutti nella Chiesa. L’impegno è costruire «una Chiesa che sia veramente comunione», cioè non «frantumata in gruppi contrapposti». Una Chiesa con un protagonismo comune, che eviti l’autoreferenzialità e la chiusura nelle proprie sicurezze. Si tratta di dare una testimonianza cristiana, che «se è autentica, è sempre entusiasta», cercando di realizzare «l’esperienza del Cristo vivo, che prende forma nella vita quotidiana e si trasmette, possiamo dire, per contagio». Ciò premesso, «troviamo la risposta nell’autenticità, nella coerenza come cristiani».
- Mons. Luis Marín de San Martín, a pochi giorni dalla chiusura della fase continentale del Sinodo – una novità nella storia della Chiesa e dei sinodi – quali sono le sue prime impressioni?
La fase continentale è particolarmente innovativa. Non si era agito così in altri Sinodi. È anche una tappa fondamentale del cammino che stiamo percorrendo, perché ci apre alla pluralità nella Chiesa. Certamente a partire dall’unità: una sola fede, un solo Signore, un solo battesimo. Ma questa unità fondante e fondamentale si vive e si sviluppa nella pluralità delle diverse realtà culturali. L’uniformità, oltre a impoverire, non è cristiana. Dobbiamo fare in modo che la varietà culturale arricchisca l’intera Chiesa. Le realtà continentali sono ovviamente diverse: modalità diverse di vivere la fede, di testimoniare il messaggio cristiano.
Anche le sfide per l’evangelizzazione sono diverse. Lo sviluppo di questa tappa ci consentirà, da un lato, di essere molto più concreti, più incisivi e, allo stesso tempo, di promuovere una maggiore partecipazione e un maggior coinvolgimento del popolo di Dio trattandosi di un ambito conosciuto e sentito come proprio.
Sono stati stabiliti sette continenti, in senso ampio: Nord America, America Latina e Caraibi, Europa, Africa e Madagascar, Asia, Oceania, Chiese del Medio Oriente. In ciascuno si è lavorato sul Documento per la Tappa Continentale e si è tenuta un’assemblea con la partecipazione delle diverse vocazioni del popolo di Dio. Ogni assemblea ha prodotto un documento, con il quale verrà redatto lo strumento di lavoro per l’Assemblea del Sinodo dei vescovi di ottobre. Il bilancio della Tappa Continentale è sicuramente molto positivo.
- Le diverse assemblee in tutti i continenti o regioni in cui è stata suddivisa questa tappa ci mostrano culture diverse. Possiamo dire che l’interculturalità è qualcosa che arricchisce il cammino della sinodalità?
Mi sembra indiscutibile. Troviamo purtroppo anche nella Chiesa chi confonde l’essenziale con l’accessorio e tende all’uniformità, a sopprimere ogni tipo di differenza rispetto a un modello consolidato. A volte sembra che, per costoro, sia persino difficile ammettere il pluralismo, le differenze. Ciò significa povertà spirituale. Ma la fede cristiana non è un processo di impoverimento, anzi. Abbiamo la stessa fede, ma non lo stesso modo di viverla. La «politica della fotocopia» non vale, perché le realtà culturali sono diverse, così come sono diverse le persone e diverse le vocazioni. La Chiesa è plurale, così com’è plurale la famiglia. Forse ci aiuta la bella immagine della Chiesa come famiglia di Dio: comunione nell’amore, ma diversità di ruoli, di personalità, di opzioni, di manifestazioni, di vocazioni; cercando tutti il bene della famiglia, della Chiesa. Così, le diverse realtà culturali ci mostrano che esiste una varietà di modi di seguire Cristo.
L’attuale modello occidentale non è affatto l’unico, né bisogna pretendere di imporlo a tutte le latitudini. Ad esempio, in Asia troviamo altri modelli culturali che vanno rispettati e promossi, e lo stesso in Africa, nel Medio Oriente… Il Vangelo è vissuto, concretizzato e testimoniato in modi diversi, tenendo conto delle diverse realtà culturali. La Chiesa non è mai esclusiva, ma inclusiva. Questo è ciò che sta alla base dell’interculturalità ecclesiale.
- Tra le proposte per sviluppare la Tappa Continentale c’erano il colloquio, o conversazione spirituale, e il discernimento comunitario. Come si può arricchire la Chiesa e superare le paure che questo provoca in alcuni?
Le paure sono generalmente dovute a ciò che non si conosce. Io invito a imparare dall’esperienza per trarre delle conclusioni. Il discernimento comunitario è sempre stato praticato nel cristianesimo perché la Chiesa è una comunità.
Ma come realizzare questo discernimento? Uno dei metodi è la conversazione spirituale, che viene dai tempi antichi ed è di radice ignaziana. Come agostiniano, io vivo un’altra spiritualità, non mi era familiare, ma l’ho utilizzata, l’ho vista usata, e i risultati sono molto buoni perché aiuta molto il discernimento. Così mi sono arricchito di un metodo e di una spiritualità diversa dalla mia. Questo è molto bello.
A grandi linee, si tratta di mettersi in un atteggiamento di ascolto profondo dell’altro, cercando di capire cosa egli voglia dirci, senza giudicarlo. Per poi cercare i punti comuni e discernere ciò che Dio vuole concretamente da noi. Tutto questo, a partire dalla preghiera. Nella conversazione spirituale non ci sono né vincitori né vinti. Non è una lotta ideologica, dove ognuno cerca di imporre i propri criteri e le proprie idee, quanto piuttosto una ricerca comune del consenso attraverso un processo di dialogo, mettendosi tutti sullo stesso livello e nel rispetto delle differenze.
Questo metodo è stato molto apprezzato, perché i risultati sono stati chiaramente positivi. È consigliabile, infatti, utilizzare il metodo del colloquio spirituale o altro simile in tutte le nostre assemblee e riunioni sinodali. Vogliamo che sia un dialogo fraterno, non un meeting politico, uno scontro o un’imposizione di ideologie. Non siamo in un parlamento, ma in una famiglia. L’ascolto, il dialogo, il discernimento, tutte queste realtà del processo sinodale sono presenti in questo metodo.
- Nel metodo della conversazione spirituale, è necessario imparare a lasciarsi sorprendere da Dio, che spesso ci parla attraverso coloro che meno ci aspettiamo?
A volte agiamo in base a idee preconcette. E ci affanniamo di trovare un modo per imporle e farle trionfare. Ma ciò che dobbiamo fare è cercare la volontà di Dio, ascoltando lo Spirito Santo. Il papa insiste molto su questo. Il processo sinodale è un evento dello Spirito, che ci sorprende, se siamo disposti a lasciarci sorprendere.
Se la nostra mente è bloccata e il cuore è chiuso, se ci prende l’orgoglio e convertiamo la fede cristiana, che è essenzialmente un’esperienza di amore, in un’ideologia, allora è impossibile ascoltare lo Spirito. Se pretendiamo di vincere e di imporre le nostre idee, non siamo sulla strada del discernimento cristiano, che è invece un cammino di ascolto, di apertura allo Spirito, il quale parla attraverso i fratelli, nella comunità, attraverso i piccoli. Allora lo Spirito può sorprenderci e riempire i nostri cuori di speranza e di gioia.
- Ci sono difficoltà, soprattutto nella gerarchia, ad essere disposti ad imparare dagli altri?
Le difficoltà non riguardano solo la gerarchia, ma tutti i cristiani. Spesso vogliamo camminare da soli e siamo tentati di allontanarci dalla via. Ma non dimentichiamo che la via è Cristo e non c’è Cristo senza la Chiesa. Nessuno nega che un parroco o un vescovo prenda le decisioni che toccano a lui e non ad altri. Ma può farlo in due modi. Il primo, senza consultare nessuno o solo gli amici che la pensano allo stesso modo e che non creano problemi; il secondo, in ascolto del popolo di Dio, di cui si è parte, per discernere la volontà del Signore. Il primo è sbagliato, perché in esso non c’è un vero discernimento. Il secondo indica la via più giusta e, anche, la più sicura.
Un’altra tentazione molto comune è credere di sapere tutto e di non aver bisogno di imparare da nessuno. Quanto è difficile per noi ammettere di sbagliarci, di aver bisogno e di poter imparare dagli altri! È difficile per noi lasciarci aiutare. Ma il pastore cammina con il popolo: non si pone al di fuori, come il sacerdozio levitico, ma si identifica con Cristo, Buon Pastore. Ciò è strettamente legato al significato più profondo del ministero che, come indica il nome, è servizio e non potere. Forse dovremmo avere un atteggiamento più umile.
E poi c’è la tentazione delle false sicurezze. È ciò che sta dietro al «si è sempre fatto così»: la ricerca della pace e della tranquillità ad ogni costo. Ma aprirci allo Spirito significa perdere le sicurezze e ciò sconvolge gli elementi su cui poggia la nostra esistenza. Ci apre al rischio, ma ci rende vivi. Il processo sinodale non è altro che un cammino di coerenza, di autenticità di ciò che siamo.
- Dopo aver concluso questa tappa continentale, quali sono le sfide che attendono il cammino sinodale, almeno fino all’Assemblea sinodale del prossimo ottobre?
Prima di tutto, qualcosa che è stato presente fin dall’inizio, la sfida di una Chiesa che sia veramente comunione. Uno dei problemi che abbiamo è quello che trasforma il Vangelo in un’ideologia. Questo ci porta a una Chiesa frantumata in gruppi contrapposti. E ad essere una contro testimonianza, uno scandalo. In Cristo Gesù siamo fratelli e sorelle. Recuperiamo questa realtà.
In secondo luogo, siamo invitati ad essere tutti protagonisti nella Chiesa. Il papa insiste molto in questo «tutti», per cui, fin dall’inizio, nessuno sia escluso.
Corresponsabilità non significa clericalizzazione dei laici, né si tratta di una lotta per il potere, ma è riconoscere la dignità dei battezzati dell’intero Popolo di Dio, ciascuno secondo la propria vocazione. La Chiesa non si identifica solo con il clero, con i laici o con i religiosi. Siamo tutti parte della Chiesa. Da qui la partecipazione intesa come corresponsabilità, che non dev’essere tarata sul minimo ma sul massimo.
In terzo luogo, abbiamo la sfida del dinamismo nella Chiesa, dello slancio evangelizzatore per portare la Buona Novella nel mondo di oggi. Bisogna evitare una Chiesa autoreferenziale, chiusa in sé stessa, che parla di sé stessa, che si chiude nelle sue sicurezze, con i suoi linguaggi e i suoi problemi fuori del tempo. Se non entusiasmiamo ma suscitiamo solo indifferenza, dobbiamo chiederci perché. La Chiesa di Cristo testimonia l’amore e la gioia che riceve da Lui e che vive in Lui.
Poco alla volta, ci rendiamo conto che è possibile superare queste sfide solo se lo facciamo insieme, come Chiesa, come comunità di battezzati, come popolo di Dio. Le difficoltà sono tante, ma, con l’aiuto di Dio, le superiamo e continuiamo su questo cammino di rinnovamento e di speranza. Bisogna avere molta pazienza e grande fiducia. È un processo a lungo termine. Ma sono certo che produrrà frutti abbondanti perché lo Spirito guida la Chiesa. Dobbiamo fidarci di Lui.
- Possiamo affermare che la Chiesa è sempre più contagiata dalla prassi della sinodalità?
La testimonianza cristiana, se è autentica, è sempre entusiasta. Ho già sottolineato che chi fa entrare Cristo nella sua vita è sempre entusiasta. La fede cristiana non si basa in primo luogo su principi, norme o idee, ma sull’esperienza del Signore risorto. Questo è ciò che tutti noi dobbiamo raggiungere, personalmente e comunitariamente: l’esperienza del Cristo vivo, che prende forma nella vita quotidiana e si trasmette, possiamo dire, per “contagio”.
Pensiamo ai cristiani delle prime comunità. Erano pochi, fragili e pieni di difficoltà. Ma riuscirono, in breve tempo, a mutare le strutture ecclesiastiche e religiose del potentissimo Impero Romano. Un’impresa impensabile e improbabile. Perché sono riusciti a farlo? Perché avevano vita, perché trasmettevano Cristo.
A volte – ha affermato mons. Pérez de Arce contemplando la realtà del tempo presente – sentiamo la tentazione del pessimismo e dell’amarezza. La Chiesa sembra avere molti nemici esterni e interni che la aggrediscono e la lacerano. Troviamo la risposta nell’autenticità, nella coerenza come cristiani. Questo è ciò che desidero sinceramente e ciò a cui dedico il mio tempo, il mio lavoro e le mie energie.
Il processo sinodale si comprende solo a partire dall’amore di Cristo e della Chiesa, è vissuto come evento di comunione ed è orientato alla riforma che scaturisce dallo Spirito. Senza dubbio, ne vale la pena.
- Dal portale del Consiglio Episcopale Latinoamericano e dei Caraibi (CELAM), 23 marzo 2023