Decapitazioni

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guerra

Delle vittime delle decapitazioni dell’Isis si è discusso, giustamente, moltissimo. Delle decapitazioni dei soldati ucraini – in un caso di uno ancora vivo – molto meno.  Perché tanta differenza, da parte occidentale?

Per rispondere alla domanda, alla quale voglio offrire la mia risposta, occorre partire dai fatti, certi. E quelli che conosciamo al riguardo sono costituiti da filmati.

Le immagini

Il primo video che mostra corpi decapitati è comparso l’8 aprile – quattro giorni prima che le autorità ucraine iniziassero a parlarne – su un social media sostenitore dell’esercito russo, che possiamo genericamente definire filorusso.

Si osservano decapitazioni avvenute in diversi tempi e contesti: i più recenti, secondo gli esperti, si rifarebbero all’oggi di Bakhmut, teatro della feroce battaglia in corso; altri sono certamente precedenti – e non di poco – posto che, sul terreno, si notano moltissime foglie, eloquente segno dell’autunno se non della tarda estate.

La presenza a Bakhmut dei mercenari della “Wagner” – la milizia privata del noto sodale del presidente russo (oggi suo antagonista politico?) Evgeneij Prigozhin – consentirebbe di attribuire ai mercenari le decapitazioni. I protagonisti in ogni caso parlano russo – come risulta dall’audio – ma non è dato di capire di quale etnia o appartenenza religiosa, ammesso che ciò sia rilevante o meno. Probabilmente, no.

Secondo gli esperti, dunque, molti elementi indicherebbero che le esecuzioni siano state filmate dagli stessi componenti della milizia “Wagner”.

Autenticità

Il secondo video, di minore nitidezza, è anch’esso comparso, nello stesso periodo, su social media filorussi e mostra decapitazioni avvenute in un ambiente stagionale estivo. Come nel caso precedente, si sentono voci che parlano in russo. Ma qui una voce consente di precisare che una delle vittime è ancora in vita nel momento della decapitazione.

Per l’ISW – Istituto di Studio delle Guerre – citato dalla CNN, le decapitazioni sono proseguite, come si evincerebbe dalla successiva pubblicazione – sempre su social media filorussi – dell’immagine di una testa tagliata e issata su una lancia.

L’ultimo elemento certo, temporale, utile per la nostra valutazione è il seguente: il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov ha definito i fatti «orribili», ma, posto il clima di fake news, ha aggiunto che ne va appurata l’autenticità.

Se lo avesse detto nel corso di una libera conferenza stampa, sarebbe stato possibile chiedergli perché le indagini russe non siano state fatte nei quattro giorni in cui i video sono andati in circolazione in Ucraina, quando il mondo intero ancora non sapeva: il Cremlino «non poteva non sapere», visto che sono stati postati su social media pro-Russia.

Prendiamo comunque atto della «presa di distanza» dalle immagini dell’orrore: queste devono aver avuto evidentemente qualche effetto in Russia, sebbene, al momento, non risultino altre conseguenze o siano ancora state annunciate soluzioni delle indagini.

L’Isis e il Viet Nam

A questo punto possiamo tornare, con la nostra memoria, alle decapitazioni effettuate e diffuse dall’Isis di al-Baghdadi: quelle degli ostaggi americani James Foley e Steven Joel Sotloff. Quelle decapitazioni – mostrate o non mostrate per scelte diverse delle televisioni e dei giornali occidentali – hanno segnato la nostra storia, la nostra percezione del mondo e dell’islam.

Probabilmente gli autori intendevano raggiungere un loro scopo: «esiste uno scontro di civiltà tra voi e noi decapitatori, ve lo vogliamo dire e mostrare». Le confessioni delle colpe occidentali recitate dalle vittime prima dell’esecuzione delle sentenze avrebbero siglato l’atto d’accusa.

Nel caso russo-ucraino non abbiamo avuto esecuzioni decise e poi eseguite, bensì vilipendi di cadaveri, nella maggior parte dei casi, da esibire, per intimidire.

Torna pure alla mente il caso più noto e doloroso della guerra del Viet Nam: la fotografia della bambina Kim Phúc. Riproponendola recentemente, la rivista Internazionale ha scritto: «L’immagine di una bambina spaventata che corre nuda per la strada con intorno altri bambini e sullo sfondo dei soldati e una nuvola di fumo, è diventata uno dei simboli della guerra nel Vietnam. È stata scattata da Nick Ut, un fotoreporter sudvietnamita dell’Associated Press, l’8 giugno 1972, in un villaggio a una cinquantina di chilometri da Saigon. La bambina era stata appena ustionata da un bombardamento al napalm dell’aviazione del Vietnam del Sud». Quella fotografia per molti ha segnato l’inizio della fine della guerra del Viet Nam.

Il clamore dell’orsa Jj4

Ebbene, nelle ore immediatamente successive alla diffusione dei video apparsi sui social filorussi, ho notato come, su alcuni importanti portali informativi, la notizia delle decapitazioni in Ucraina fosse in terza o quarta posizione, anziché in prima come mi sarei aspettato.  In un caso mi è parso molto significativo che arrivasse dopo la questione dell’orsa Jj4, che ha fatto più clamore.

Il diverso destino di queste immagini, dunque, non sta tanto, secondo me, nelle diverse intenzioni di chi le ha diffuse, jihadisti, russi e vietnamiti: i primi volevano dichiarare la guerra di civiltà per ottenere altrettanto e quindi costringere la loro popolazione a scegliere la parte in cui stare; i secondi hanno, molto probabilmente, voluto terrorizzare la popolazione ucraina (più che il mondo intero); il terzo – il fotografo vietnamita – voleva coraggiosamente documentare l’orrore commesso “dai suoi”.

Sono messaggi diversi? Il senso dei fatti modifica il contenuto delle atrocità?

I baratri che ci circondano

Il contenuto che tutto assimila è purtroppo lo scontro di civiltà, ovvero lo scontro in cui non c’è più niente di civile. Nel cuore della cultura religiosa trasformata in ideologia c’è solo il desiderio dello scontro sino allo sprofondo della civiltà, al buco della umanità. L’ideologia del russkij mir è uno di quei baratri che vuole, propugna, agogna lo scontro di civiltà, se ancora così si può dire.

Altrettanto può dirsi del “suprematismo bianco” che abbiamo conosciuto in questi anni in tanti episodi di violenza americana e non solo. Nelle follie della supremazia c’è sempre di mezzo, poi, l’antisemitismo: l’archetipo o quasi di tutte quante le supremazie.

Le dichiarazioni dell’archimandrita Gavriel – capo del complesso caucasico della Santissima Trinità del monastero di Valaam – lo confermano, con mio sgomento. Citato, nei giorni scorsi, dal portale italiano Globalist, il fedele interprete della guerra putiniana, ha aggiunto proprio che l’antisemitismo, oltre alla omofobia, è tra le ideologie ispiratrici della “giusta” guerra di Mosca: «Le stesse persone che servono il diavolo si sono trasferite a Londra e Londra è ancora la capitale, mentre l’America è subordinata ai britannici. Tutte le guerre che la Russia ha subito sono state iniziate e finanziate da Londra».

La religione malata

Mi è capitato ripetutamente di riflettere su tutto questo. Ora sostengo che i pensieri religiosi possono ammalarsi: siano essi di derivazione islamica o cristiana. Identificare le patologie religiose con le religioni asseconda le stesse, mentre queste sono ben altro: perché l’Islam non coincide certamente con l’Isis e il cristianesimo non è il russkij mir di Cirillo.

Una esemplificazione straordinaria ci viene – proprio in questi giorni – da un contesto molto diverso. Il genocidio ruandese è giunto al suo 29° anniversario. Ricordo che c’è stato un genocidio: quello subito dai tutsi da parte degli hutu che controllavano lo Stato e la Chiesa in Rwanda.

Un testimone – parziale vittima di quel genocidio – padre Marcel Uwineza, aveva allora scritto su La Civiltà Cattolica: «il fallimento della Chiesa e dei teologi nel condannare la discriminazione etnica che ha portato al genocidio conduce tutti noi, secondo il monito di Mario Aguilar, al compito urgente di costruire una teologia della liberazione che permetta alle vittime e ai teologi di parlare. I teologi che lavorano al fianco dei popoli indigeni di tutto il mondo affrontano questioni simili quando si confrontano con la memoria degli stermini di massa di milioni di bambini, donne e uomini […]

I teologi operanti nel popolo armeno devono tuttora affrontare tali questioni di memoria del genocidio perpetrato contro quel popolo nell’Impero ottomano e nella Repubblica di Turchia. I teologi tedeschi, europei e americani devono continuare a confrontarsi con questioni simili, non solo rispetto alla memoria della Shoah, ma anche all’incremento odierno dell’antisemitismo in Germania, in Europa e negli Stati Uniti. I teologi – in particolare i teologi bianchi – non solo devono ascoltare le voci dei popoli diseredati, ma avviare un esame purificatore […]».

Io credo che abbia proprio ragione. Rileggendolo, non ho potuto che ricordare quella uscita di papa Francesco, quando fu duramente criticato per aver ricevuto gli uomini indios – definiti “pennuti” – ai tempi del sinodo sull’Amazzonia: fece bene a chiedere Francesco che differenza ci sia tra chi indossa un copricapo di piume e chi indossa un tricorno!

Trovo quindi grave sorvolare sulle teste tagliate in Ucraina. Dovremmo piuttosto domandarci quale differenza ci sia tra gli orrori che ho qui ricordato. In tutti spicca la pretesa della superiorità – di un solo Stato o impero, con un solo popolo e una sola religione –, sempre condita dall’idea del complotto internazionale: “poiché sono tutti contro di noi, serriamo le fila”.

C’è una alternativa all’orrore? Sì, una sola: per me è descritta nell’enciclica Fratelli tutti.

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