Riprendendo una consuetudine amicale interrotta dalla pandemia, sabato scorso ho trascorso una giornata di dialogo e lavoro teologico comune con Christoph Theobald. Riporto qui alcuni delle questioni su cui ci siamo confrontati.
Il processo sinodale della Chiesa cattolica non solo coinvolge, ma anche mette in questione la teologia, il suo posizionamento nella comunità di fede, le sue procedure accademiche e i luoghi del suo esercizio.
Certamente chiamata a partecipare attivamente alla rifondazione della Chiesa, a cui aspira il dinamismo sinodale attivato da papa Francesco, la teologia è però, al tempo stesso, chiamata a una profonda revisione della propria autocomprensione.
Effetti sinodali sulla teologia
In primo luogo, perché una sinodalità effettivamente praticata ridisloca il soggetto proprio della teologia stessa – muovendo dalla corporazione professionale delle teologhe e dei teologi al popolo di Dio nei suoi vissuti concreti. La riflessione teologica, già in atto in maniera incoativa nella coscienza credente dei discepoli e delle discepole, contestualmente e storicamente situata, si accende in seconda battuta – appunto, come esplicitazione di quel movimento intrinseco alla fede concretamente vissuta.
Questo spostamento sinodale del soggetto teologico comporta, poi, una ridefinizione della gerarchia dei saperi teologici in senso stretto – ponendo, come forma teologica primaria quella pratica-pastorale.
In quest’ottica, la teologia pratica andrebbe intesa come disciplina empirica del sapere della fede, poiché chiamata a lavorare sul materiale che emerge, e le viene offerto, dai vissuti della fede così come essi concretamente si realizzano. È in questo modo, infatti, che si può onorare, sul piano specificamente teologico, il sensus fidei delle comunità credenti – recependolo non come un ammasso indistinto, privo di inclinazione teologica, ma come un dato che non si deve solo ascoltare, ma a cui si deve anche un’obbedienza in quanto carico e gravido della concretizzazione effettiva della rivelazione cristiana di Dio nel qui e ora della multiformità della storia umana.
In merito, potrebbe essere recuperata, in sede di teologia pratica, l’impostazione, sostanzialmente omologa, che caratterizza la proposta teologico-spirituale di Moioli – che trova il suo oggetto proprio esattamente nell’esperienza cristiana. Includendo, al tempo stesso, il rilievo teologico e fenomenologico dello spostamento indotto dal processo sinodale che impedisce di vedere in quell’esperienza il mero oggetto formale della teologia, avendolo infatti ricollocato in posizione di soggetto attivo e attivante la stessa riflessione teologica sul vissuto cristiano.
Da quel vissuto si generano questioni del vivere credente che si sporgono oltre la prima e fondamentale ricognizione teologico-pratica, chiamando in causa altri ambiti del sapere della fede (dall’esegesi alla fondamentale, dalla morale al diritto canonico, e così via). Ambiti che potrebbero così ritrovare il legame che ne costruisce i nessi esattamente nella soggettualità teologica propria alle diverse forme contestuali di vissuto cristiano riattivata, dopo secoli, dall’avviamento della prassi sinodale nella Chiesa cattolica.
Tale ricollocazione del soggetto della teologia nella complessità e diversificazione del popolo di Dio consente, poi, di gettare una nuova luce su una secolare questione che accompagna l’istituzione cattolica della fede: quella della tensione dialettica fra magistero ecclesiale e teologia accademica.
Infatti, le ragioni del contendere tra queste due istanze, sostanzialmente ipostatizzate per astrazione dalle pratiche della fede, troverebbero non solo la loro collocazione, ma anche la loro origine nei vissuti credenti del popolo di Dio. Perdendo in tal modo sia la coloritura ideologica, che per lungo tempo ha caratterizzato l’atmosfera di questa annosa contesa, sia la funzione surrettizia di strumento aggiudicativo del potere all’interno della Chiesa cattolica.
L’ideologia svanisce nelle sensibilità pratiche della fede da cui la tensione dialettica si origina, che, al tempo stesso, toglie sia al magistero dei teologi sia a quello dei vescovi il primato sulle dialettiche della concretizzazione della rivelazione cristiana di Dio.
Il ministero ordinato
Un secondo ambito che non può restare immune al processo sinodale in cui è entrata la Chiesa cattolica è quello del ministero ordinato e della sua comprensione ecclesiale.
L’urgenza di aprire il cantiere in materia è davanti agli occhi di chiunque sia disponibile a guardare. Ma proprio qui si deve registrare non solo un ritardo rispetto alle istanze conciliari abbozzate in Presbyterorum ordinis, ma anche un’irresponsabile resistenza a fare i conti con la realtà e la condizione attuale del ministero ordinato in seno alla Chiesa cattolica.
Se dal lato dell’istanza conciliare bisogna registrare tutta una serie di cesure e interruzioni che hanno impedito quegli allargamenti di visione pur sempre iscritti nel testo del Vaticano II, su quello di una realistica fenomenologia dell’esercizio del ministero ordinato ci si trova davanti a un irrigidimento che ricade a detrimento della stessa plausibilità del ministero ordinato nella Chiesa e nella società odierna.
Se tale ministero è reputato essere essenziale alla missione e mandato della Chiesa cattolica, troppo si è aspettato per mettere mano a una verifica schietta e realistica della coerenza evangelica delle condizioni di accesso a esso. Fino a giungere al punto in cui le condizioni storiche di accesso hanno preso il sopravvento sulla essenzialità cattolica di un ministero ordinato nella vita della Chiesa. Da un lato. E inducendo dall’altro una difficoltà quasi imbarazzata a riconoscere e nominare ministeri che, di fatto, garantiscono la tradizione del Vangelo alle generazioni a venire del popolo di Dio.
Portando alla situazione paradossale odierna, in cui la Parola è accompagnata nella sua circolazione da semplici vissuti credenti che ne garantiscono l’accessibilità e la comprensione, da un lato, e che le comunità cristiane permangono in essere anche senza celebrazione dell’eucaristia. Esito, questo, dovuto proprio all’irrigidimento istituzionale sulle condizioni di accesso al ministero, e a una sua declinazione sostanzialmente fagocitante l’insieme dei carismi e ministeri della fede, che produce da sé l’irrilevanza del ministero ordinato rispetto ai vissuti credenti quali luoghi di concretizzazione e attualizzazione della rivelazione cristiana di Dio.
La sinodalità può offrire un qualche spunto non solo per una semplice rivisitazione delle coordinate fondamentali del ministero, ma anche per una sua vera e propria rifondazione senza la quale quella della Chiesa nel suo complesso rischia di rimanere un semplice desiderata.
Lasciandosi alle spalle l’enfasi sul sacerdozio comune di tutti i battezzati, che approda ben presto alla differenza essenziale e non solo di grado che finisce per scorporare il ministero ordinato dal corpo complessivo del popolo di Dio, quello che è necessario è trovare un nuovo punto di ingresso per una legittimazione plausibile dell’esercizio di un ministero ordinato in seno alla Chiesa cattolica.
Si potrebbe, quindi, cercare di partire intrecciando tre elementi fondamentali della tradizione cattolica della fede: Parola, comunità battesimale, simbologia sacramentale.
La comunità messianica del discepolato del Signore è sostanzialmente una comunità convocata dalla Parola – che la destina a un mandato profetico nel tempo della storia umana. Questa origine rimane costitutiva anche e proprio per la Chiesa in quanto istituzione; e chiede, quindi, di trovare una sua adeguata simbolizzazione sacramentale all’interno di essa.
Questo potrebbe essere il punto di innesto per una rifondazione del ministero ordinato nella Chiesa cattolica, che ne alimenti la plausibilità e lo trattenga, al tempo stesso, dall’impossessarsi di carismi e ministeri che non gli competono – impoverendo così il vissuto ecclesiale e impedendo alla comunità cristiana la fedeltà che essa deve alla sua origine e al suo mandato.
In quest’ottica, il ministero ordinato sarebbe dunque da comprendere come un ministero della Parola, e non sacerdotale che sacralizza chi ne assume l’esercizio, che attua simbolicamente la convocazione della comunità credente – senza la quale essa non esiste come comunità di fede generata al mondo perché convocata dalla Parola.
Inteso quindi come ministero della convocazione, si apre lo spazio adeguato per collocare le questioni che esso si trova attualmente a dover affrontare: dal celibato all’ordinazione delle donne. Inoltre, come ministero della convocazione esso lascia alla comunità la possibilità di individuare al suo interno ministeri e carismi altri che le consentano di corrispondere al mandato profetico che le compete in quanto tale.
Ma non solo. L’effettivo riunirsi della comunità ha la forza di legittimare e dare ragione di un ministero di convocazione al suo interno – istruendo le coordinate del mutuo riconoscimento in cui si attua la medesima dignità battesimale che compete a tutti i credenti e a ciascuno come parte del popolo di Dio.
Se poi il ministero ordinato è destinato alla convocazione della comunità, chiamata alla Parola e dalla Parola, allora è in essa che andranno cercate quelle dinamiche collettive di discernimento che riconoscono la destinazione di credenti che ne fanno parte all’assunzione di questa simbolizzazione sacramentale della originaria convocazione della Parola. In questo modo si potrà anche uscire dall’impasse generatasi con la privatizzazione e spiritualizzazione del ministero ordinato dalla Chiesa indotta dall’immaginario della vocazione individuale del credente singolo a prescindere dal riconoscimento comunitario (artificialmente ricostruito in quell’istituzione totale che è il seminario).
Proprio perché ministero della convocazione, il suo attuarsi nella presidenza della celebrazione eucaristica non implica necessariamente che esso ne debba assumere anche la guida – consentendo che altre forme ministeriali se ne facciano comunitariamente carico, così che il ministero ordinato possa concentrarsi su quello che è il suo mandato proprio a favore dell’intera comunità dei fedeli come momento interno a essa e non separato dalla comune dignità battesimale di tutti.
Così ricalibrato, si aprono prospettive anche per una riconfigurazione dell’esercizio episcopale del ministero ordinato che troverebbe la sua collocazione nel legame originante con una Chiesa locale, da un lato, e con il presbiterio che la convoca fattualmente nelle sue diverse espressioni territoriali, dall’altra.
Criticità
Sia sul versante della sinodalità, sia su quello del ministero ordinato, si possono riscontrare degli elementi di criticità che minacciano di rendere sterile tutte le forze della fede che le comunità cristiane stanno immettendo nell’opera di rifondazione della Chiesa cattolica.
Per quanto riguarda il processo sinodale se ne potrebbero indicare due. La prima riguarda il tempo lungo che esso esige – la virtù evangelica della sinodalità è quella della pazienza del contadino che sa attendere che i processi avviati seguano il proprio corso secondo una scansione temporale che non dipende dal suo desiderio.
Di impazienza della fede è disseminato tutto il variegato percorso sinodale che sta impegnando la Chiesa cattolica. In molte forme e in molti modi, tra i pro Francesco e gli oppositori, tra i fautori di un ministero esclusivamente maschile come tra chi parteggia per l’ordinazione delle donne. Essendo a Parigi, ci si potrebbe richiamare a quanto di recente avvenuto in sede di Conferenza episcopale francese.
Dopo il rapporto finale della Commissione Sauvé sugli abusi sessuali nella Chiesa francese, i vescovi hanno istituito nove commissioni di lavoro imperniate su alcune osservazioni e suggerimenti avanzati dal Rapporto. Queste hanno svolto un lavoro serio, egregio, approfondito – arrivando alla stesura di una documentazione precisa consegnata ai vescovi qualche giorno prima della loro assemblea.
Essi ne hanno voluto discutere subito, senza prendersi il tempo necessario non solo per un’adeguata lettura di quanto scritto dalle varie commissioni, ma anche per elaborare a dovere gli esiti del lavoro da esse intrapreso. Questa urgenza è deleteria per una buona pratica della sinodalità perché non consente un reale discernimento, una seria presa in carico delle osservazioni che le commissioni hanno mosso alla Chiesa francese, come una disseminazione e confronto con le proprie comunità locali (come vorrebbe invece lo spirito sinodale).
E si innesta qui la seconda criticità che riguarda il processo sinodale. Si tratta della questione che la pressa tra il mero consultivo e l’effettivamente deliberativo. Finché la sinodalità sarà un mero esercizio di ascolto che non incide e partecipa alle scelte della Chiesa, essa non sarà altro che un esercizio di cosmesi che lascia tutto come è.
Anche qui si può trarre un esempio dall’atteggiamento che ha caratterizzato la recezione episcopale francese della documentazione elaborata dalle commissioni istituite dalla stessa Conferenza episcopale. La solerzia con cui il suo presidente, mons. Moulins-Beaufort, si è affrettato ad affermare che quanto elaborato dalle commissioni non aveva carattere vincolante per i vescovi, trattandosi solo di una procedura di consulenza, non fa bene non solo alla sinodalità ma anche alla credibilità dello stesso ministero episcopale – intaccando quanto di buono fatto finora, con il coraggio e la spregiudicatezza dettate dalla drammatica realtà del fallimento della Chiesa francese e dei suoi vescovi davanti agli abusi compiuti in essa.
Spostandoci sul versante del ministero ordinato, si possono indicare anche qui due criticità più urgenti. La prima riguarda la rimozione istituzionale della crisi in cui versa oggi il ministero ordinato e delle ragioni che la causano. È come se non si volesse vedere che in ampie fette del cattolicesimo ben presto non sarà più presente, stante le attuali condizioni di accesso, un ministero ordinato (e che altrove esso è, per ragioni diverse, già mancante).
Se si riprendono in mano oggi appelli e inviti di cinquant’anni fa, si può vedere che, per quanto riguarda il ministero ordinato, si è rimasti del tutto inerti – sacrificando la sua esistenza e sussistenza sull’altare del privilegio legato alle condizioni dell’accesso a esso.
Inerzia, e questa è la seconda criticità, che porterà ben presto a prendere decisioni non pensate, dettate dall’emergenza e non da una ripresa in carico ecclesiale della figura del ministero ordinato. Quando si sarà costretti a scegliere, lo si farà senza essere preparati perché si è consapevolmente scelto di consegnarsi alla crisi facendo come se essa non esistesse, piuttosto che governarla e orientarla.
Ed è qui che si apre un ulteriore versante di questa seconda criticità: il rischio di bruciare nuovi modi di esercizio del ministero ordinato all’interno di una figura ecclesiale logora e consunta, che potrebbe trascinare nella propria implosione anche le energie e le forze che queste figure altre portano con sé.
Il mio commento è piuttosto critico. A cominciare dal linguaggio usato, molto criptico e tecnico. Non si potrebbe parlare in modo più accessibile? Secondo: questa lettura del sacramento dell’ordine coglie certamente il fatto reale che il documento del Concilio Vaticano II è solo una riflessione iniziale che … non è continuata. Ma il presbiterato fin dall’inizio si è caratterizzato come un ministero che è servizio della-alla Parola, ma anche come realtà che assume le funzioni sacerdotali del sacerdozio dell’AT, fin dall’inizio. E all’inizio nessuno ha avuto obiezioni. E’ stato con Lutero che si è acuita l’opposizione tra le funzioni del sacerdozio dell’AT e il ministero ordinato del NT. Benedetto XVI avanza l’ipotesi che quest’ultima sia una posizione vicina al Marcionismo…
Vi sottopongo una piccola considerazione in merito alla riflessione sul “ministero ordinato”: la questione “seria” a cui porre attenzione è la concezione dei “sacramenti” visti come “progressione” e come “passaggi personali”.
Ho compreso nel tempo, ho 64 anni, che con il Battesimo il Signore mi ha dato “tutti” i suoi doni; che essi sono maturati e cresciuti negli anni, come avviene per tutte le capacità umane; che i sacramenti non sono un passaggio personale (e quindi un punto di arrivo) ma lo “svelamento”, il “riconoscimento” di un dono che si manifesta e si mette a disposizione di tutti (e quindi sempre un inizio).
La tradizione liturgica della Chiesa e le Scritture dovrebbe ricordarci che il “dono” precede sempre il “sacramento” e che questo chiede sempre di “manifestarsi”; eppure noi pensiamo che il Battesimo avvenga quando veniamo immersi o che il matrimonio avvenga con la promessa nuziale … come se non ci fosse prima un “incontro” e una “storia”, mai “privata” e senza il concorso di “altri”! La liturgia non a caso prevede che questi “doni”, dati prima e poi riconosciuti, siano quindi svelati pubblicamente, perché anche la comunità che ha concorso a farli emergere e riconoscere, a farli maturare e portare a consapevolezza, ora possa “lodare Dio”, beneficiarne, condividerli e “mandarli” ad altri.
Infine occorre rivedere la nostra concezione di “dono”, come se ci fosse un “di più” da parte del Padre, di sacramento in sacramento; come se il Signore ci consegnasse i suoi doni, sempre personali e privati, a rate; come se vi fossero doni più importanti di altri. Quanto dovremmo riflettere sul criterio dell’ “utilità comune” e sul riconoscimento dei carismi!
Nella vita “cresce” e “matura”, si spera, la nostra consapevolezza: ma i “doni” del Signore sono irreversibili e totali fin dall’inizio. Su questo riconoscimento, che vi chiedo di approfondire, si può avviare un cammino fecondo non solo per il “ministero ordinato”.
Gli spunti condivisi di questa conversazione sono molti e andrebbero ripresi uno ad uno. Personalmente sono convinto che una riforma del Codice di diritto canonico, anche e soprattutto per ciò che riguarda la parte relativa al sinodo, darebbe avvio ad una esplosione di energie (umane, intellettuali, teologiche, pastorali) utili per una riforma della Chiesa. L’attuale Codice è un freno ad una trasformazione della Chiesa in senso sinodale. C’è una paura estrema nel dire che la Chiesa non è una democrazia, ma in realtà il Concilio Vaticano II definendo la Chiesa come popolo non ha fatto altro che per far comprendere l’uguaglianza tra i membri.
Già da un po’ di tempo storici, teologi e canonisti stanno sollevando la necessità di una elaborazione anche normativa della sinodalità (Diritto canonico), onde evitare che il processo sinodale possa naufragare con alcuni colpi di spugna.
Quanto all’inveterato slogan: “la Chiesa non è una democrazia”, mi viene da sorridere. Generalmente si ammette (non solo tra gli studiosi, ma anche tra coloro cha hanno una certa onestà intellettuale) che la Chiesa di fatto ha assunto, nel corso della storia (seppure facendoli propri e rivedendoli in base alle sue esigenze) i modelli socio-politici vigenti. Tuttavia, questa normale precomprensione del meticciato/inculturazione della Chiesa nella società di un tempo sparisce quando si deve ragionare sulla posizione della Chiesa nel presente. In questo caso si dovrebbe infatti ammettere che la democrazia deve entrare nelle forme attuali di vita della Chiesa. Insomma è come dire: finché si tratta di parlare della Chiesa del passato, siamo tutti (più o meno) storicisti; quando si deve immaginare la Chiesa del presente, allora cominciano i distinguo e i disappunti.
Torniamo così all’inizio dell’articolo: quale peso ha l’effettiva storia credente: prassi, esperienze, comprensioni, recezioni, etc? Theobald lo ricorda in lungo e in largo nella sua produzione teologica, e per questo gliene sono grato.