Il viaggio di papa Francesco in Ungheria sta producendo riflessi politico-diplomatici più che pastorali. Molta stampa ha dato risalto alle poche, ma cariche, parole spese sull’aereo del ritorno, riguardo alla Santa Sede e al conflitto in Ucraina.
Parole che hanno incontrato rapide smentite – tanto da parte russa che da parte ucraina – in perfetta linea con gli inesausti proclami di “sicura vittoria” provenienti da entrambe le parti. Mentre i più temibili rischi di escalation corrono, senza che nessuno – di chi davvero conta nel mondo – sembri preoccuparsene granché: solo Francesco!
La retorica della vittoria, come quella della resa, ha ormai poco a che fare con la prima dichiarazione nella quale si parlava di aggressione russa. Ricordiamo che Cina e India, in sede Onu, hanno votato un più recente documento, astenendosi sul paragrafo che ancora cita l’aggressione, ma votando a favore del testo nella sua interezza, purché si chieda cooperazione tra Nazioni Unite e Consiglio d’Europa: un passo importante e positivo, posto che i fedelissimi di Mosca hanno votato contro tutto.
Oltre la logica della guerra
Nel quadro, Francesco rimane a dire che la logica belligerante va sempre e ancora superata, senza, tuttavia significare l’accettazione rassegnata della sconfitta della parte offesa. La sua idea di diplomazia sta nella ricerca di una intesa che non produca umiliazioni o possa dar luogo – di nuovo e da subito – alle rivincite: per questo ha invocato il massimo della «creatività» per la pace.
Non c’è, quindi, secondo lui, solo una questione territoriale da discutere, bensì un di più di cooperazione e di sicurezza da mettere in campo, per tutti.
Forse nelle parole del papa, come spesso gli capita quando improvvisa – secondo me volutamente improvvisa! – non c’è stata molta accuratezza. Ha dovuto poi, senza smentire nulla, precisare che l’iniziativa vaticana è «in divenire». Ma intanto, l’ha detto!
Di cosa si tratta? Di una spinta in avanti perché qualcosa di buono accada? Agli orecchi di chi – in particolare – ha voluto parlare? Impossibile rispondere. Certo è che la sua uscita non è stata una “avventata imprudenza”. Chi lo afferma, secondo me, non capisce o non vuol capire: guai a chi si attardano nella diatriba tra “bellicisti” e “pacifisti”. Il papa dice: c’è altro!
Ecco allora l’incontro – non annunciato nel programma del viaggio – con l’arcivescovo russo ortodosso Hilarion Alfeyev, “esiliato”, da ex numero due del patriarcato di Mosca, probabilmente per le sue critiche alla guerra o quanto meno per il suo silenzio “fuori dal coro” di Kirill.
Non a caso, secondo me, Hilarion è stato mandato a Budapest: la sola città ove Mosca può cercare di dialogare ancora col mondo europeo. L’incontro – manifestamente fraterno nei gesti – non va visto quindi come un formale atto di cortesia, bensì come un vero colloquio, potenzialmente in grado di generare una cosa nuova. Quale? Si può supporre. Si può sperare.
Porte aperte
La porta diplomatica di Francesco è aperta. Si può sempre parlare. Chiaramente, anche gli altri possono aprire e non chiudere ermeticamente la porta. Hilarion ha partecipato anche alla celebrazione domenicale: buon segno.
Certo: non sto invitando a pensare ad un vescovo russo avverso al russkij mir, bensì ad un uomo di Chiesa, ad un cristiano, capace almeno di prendere le distanze dalle forme della contro-testimonianza evangelica. Dunque, una porta si è aperta, non solo simbolicamente.
L’immagine della porta conduce all’altro tratto del viaggio di Francesco.
Molti hanno sottolineato che il papa in Ungheria ha criticato l’ideologia gender. Nulla di nuovo: lo fa da anni, ovunque. Così ha definito pure, anche stavolta, l’aborto «sempre una sconfitta». Ma prestiamo attenzione al suo stile. Queste parole non sposano mai le “guerre culturali”, non sigillano modelli identitari, né esclusioni.
Il vero centro che risalta è che Cristo è, appunto, una porta sempre aperta, che non può essere sbattuta in faccia a nessuno. Vale in Ungheria, ove, forse in nome di Cristo, una porta viene sbattuta in faccia ai rifugiati in fuga lungo la rotta balcanica. Vale a Ventimiglia, ove esponenti politici francesi sembrano invocare la stessa capacità di chiusura. Vale a Londra o in molti altri luoghi europei. Ebbene, Cristo vuol aprire anche queste porte: Francesco lo ha spiegato bene.
Il discorso sulle radici cristiane del vecchio continente torna perciò prepotentemente. C’è chi lo ricorda per principio di identità, ma poi se ne scorda nei comportamenti. Francesco lancia un messaggio chiaro, ogni volta, alle cancellerie europee che dimenticano: se ci siano radici cristiane o meno lo si dimostra quotidianamente, nelle cose che si fanno o non si fanno; non coi discorsi.
L’omelia a Budapest
L’omelia pronunciata domenica 30 aprile a Budapest merita di essere riletta nei suoi passaggi essenziali, essendo stata tutta dedicata al tema di Cristo porta aperta – secondo il vangelo di Giovanni che è stato letto – proprio perché, in Ungheria, come in molti altri paesi europei, non si vedono porte aperte.
Ha detto: «È triste e fa male vedere porte chiuse: le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi ‘non è in regola’, chiuse verso chi anela al perdono di Dio. Per favore: apriamo le porte!».
Proprio a Budapest, ove è stata teorizzata la “democrazia cristiana illiberale”, Francesco ha scelto di andare fino in fondo su questo punto decisivo del suo pontificato: «Per favore, per favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore.
Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri, per aiutare l’Ungheria a crescere nella fraternità, via della pace. Incoraggiamoci ad essere porte sempre più aperte: ‘facilitatori’ della grazia di Dio, esperti di vicinanza, disposti a offrire la vita, così come Gesù Cristo, nostro Signore e nostro tutto, ci insegna a braccia aperte dalla cattedra della croce e ci mostra ogni volta sull’altare.
Lo dico anche ai fratelli e alle sorelle laici, ai catechisti, agli operatori pastorali, a chi ha responsabilità politiche e sociali, a coloro che semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana, talvolta con fatica: siate porte aperte. Lasciamo entrare nel cuore il Signore della vita, la sua Parola che consola e guarisce, per poi uscire fuori ed essere noi stessi porte aperte nella società».
Scambi di accuse e proteste – qui di fronte – si sciolgono prima ancora di avere luogo.