La proclamazione del nuovo Stato indipendente d’Israele risale, secondo il nostro calendario, al 14 maggio 1948, ma quest’anno, seguendo il calendario lunare delle feste ebraiche, il giorno dell’Indipendenza è già caduto, esattamente il 25 aprile, in coincidenza con la nostra festa italiana della Liberazione, in un periodo segnato da gravi tensioni in Israele, non ultime quelle manifestatesi con le proteste contro la riforma della giustizia, tanto che, già all’inizio del 2023, papa Francesco aveva espresso forti timori: «Manifesto viva preoccupazione per gli attacchi di questi ultimi giorni che minacciano l’auspicato clima di fiducia e di rispetto reciproco, necessario per riprendere il dialogo tra Israeliani e Palestinesi, così che la pace regni nella Città Santa e in tutta la Regione».
Coraggio e determinazione per la pacificazione
Come mai le autorità dello Stato d’Israele e quelle dello Stato di Palestina non riescono a trovare il coraggio e la determinazione nell’implementare la soluzione pacifica, in conformità con il diritto internazionale e con tutte le pertinenti risoluzioni dell’ONU?
È radicalmente impossibile assecondare l’avvicinamento tra ebrei israeliani ed ebrei arabi che, per secoli, hanno usato l’ebraico per la Bibbia, i riti e le leggi, l’arabo, per rivolgersi al mondo circostante e il giudeo-arabo per la vita ordinaria nelle comunità?
Con la Seconda Guerra Mondiale e la terribile tragedia della Shoà, l’aspirazione di ebrei di varie parti del mondo (soprattutto europei che diverranno l’élite culturale, sociale ed economica del nuovo Paese, fatta prevalentemente da “ashkenaziti”) il sogno sembrò realizzarsi.
E ciò è stato determinante nel favorire in Israele l’ascesa della destra politica e religiosa, da Menachem Begin a Benjamin Netanyahu, con un diffuso sentimento anti-arabo accompagnato però – fa notare Neuhaus – da «non poca ambivalenza», che anzi «sta progressivamente facendo riscoprire l’orgoglio per la loro particolare eredità religiosa, sociale, culturale e culinaria ebraico-araba».
Nel novembre 1947, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò una Risoluzione (n. 181) che prevedeva la suddivisione, a partire dal 1948, del territorio sotto mandato britannico fino alle rive occidentali del fiume Giordano in due Stati: uno ebraico e uno arabo. Si sanciva, così la spartizione della Palestina, attribuendo percentualmente il territorio a ebrei e arabi, stabilendo altresì la tutela internazionale su Gerusalemme.
Le due lingue adottate nella Risoluzione (inglese e francese), con le loro piccole-grandi differenze, non vietarono, però, i numerosi e ricorrenti conflitti.
Quell’antico popolo avrebbe mai profittato dell’opportunità di disporre pacificamente di una nazione che, se, da un lato, riesce a trasformare il deserto in giardino e a dar luogo a una società tecnologicamente avanzata, deve continuamente salvaguardare i propri confini dalla contigua striscia di Gaza, oltre a cercare le sorgenti d’acqua dappertutto, anche mediante condotte sotterranee che bypassano il sottosuolo degli Stati?
Un conflitto infinito?
Dopo la guerra israeliano-araba del 1967, con la Risoluzione 242 del 22 novembre 1967, l’ONU ingiunse a Israele di ritirarsi dai territori conquistati militarmente.
L’andamento sociale in queste terre, nonostante le Risoluzioni ricorrenti dell’ONU, non è mai stato tranquillo, anzi, nel 2002, si è giunti perfino alla costruzione di un muro. Ciò accade anche perché in questi territori vi è Gerusalemme e, soprattutto, vi sono tanti altri luoghi sacri per varie religioni mondiali.
Intanto, si muore e si emigra dall’una e dall’altra parte in perenne conflitto. Come diceva papa Benedetto XVI nella sua visita a Betlemme (13.5.2019), sono ancora tanti «i Palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria».
Se l’irredentismo arabo avrà anche una sua ragion d’essere, perché in Occidente sembra talvolta che esista soltanto il morto arabo e non anche quello israeliano?
Alle tue porte, Gerusalemme
Questione nella questione è lo status dell’opulenta Gerusalemme. Ben due volte la Città Santa fu tratteggiata da Tommaso d’Aquino in riferimento all’opulenza, cioè all’abbondanza, alla ricchezza.
Opulenta è, del resto, Gerusalemme nella profezia di Isaia (Is 33,20), cioè doviziosa, ricca, opibus abundans, splendida: «La Chiesa cattolica, il Vaticano, diciamo, ha la sua posizione dal punto di vista religioso: sarà la Città della pace delle tre religioni. Questo dal punto di vista religioso. Le misure concrete per la pace devono uscire dal negoziato», ha sottolineato papa Francesco al ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, il 26 maggio 2014.
È sempre lì lì per scoppiare l’antagonismo con gli arabi (sia palestinesi che ebrei), che mal sopportano l’insediamento di coloni israeliani in territori che ritengono propri.
Il 23 dicembre 2016 il Consiglio di sicurezza adottò la Risoluzione 2334, con la quale condannava tutte le misure adottate da Israele volte ad alterare la composizione demografica e lo status dei territori palestinesi occupati.
Un anno dopo, l’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dichiarava di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele, generando altre contese.
Pure alla luce di ciò, c’è da chiedersi operativamente: si uscirà mai da quest’equilibrio precario, facendo di Gerusalemme – come dice il nome – anche e finalmente, la Città della pace?