Lula ha vinto le elezioni, ma la sinistra e soprattutto i popoli indigeni e le comunità tradizionali contadine e rivierasche hanno seri motivo di essere preoccupate.
Certo, il cambiamento dello stile politico e il ritorno ad attitudini umanitarie, dopo quattro anni infernali, ci lascia alleviati.
Un primo avvertimento va posto: i primi cento giorni di Lula, con cui i media brasiliani hanno voluto far memoria del New Deal rooseveltiano, hanno un senso più simbolico che effettivo; è un tempo di discorsi e di gesti significativi, di inversione metodologica nell’interazione con la società, con il Parlamento, con la stampa.
Ricordiamo, ovviamente, l’aumento del salario minimo, l’aumento del 9% dello stipendio dei dipendenti pubblici federali, l’apertura di concorsi pubblici, la riforma della tabella delle imposte sul reddito, di cui beneficiano 13,7 milioni di brasiliani, un calo del 10% del prezzo del gasolio, il programma Piú Medici e l’aumento del valore del programma Borsa Famiglia. Soprattutto, è importante sottolineare le sagge gestioni della crisi golpista dell’8 gennaio e della gravissima crisi umanitaria nella terra indigena Yanomami.
Il 28 aprile, Lula ha dichiarato che determinerà la demarcazione di tutte le terre indigene del Paese entro la fine del suo attuale mandato, nel 2026. La promessa è stata fatta a centinaia di rappresentanti delle comunità indigene durante l’atto di chiusura dell’Accampamento Terra Libera, tenutosi a Brasilia.
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Molte iniziative. Ma certamente pochi mesi non bastano per valutare le scelte politiche di un governo appena insediatosi. Difficile andare oltre la valutazione positiva di scelte simboliche come accaduto alla cerimonia di insediamento di Lula e poi con la nomina di Sônia Guajajara, Margareth Menezes, João Jorge Rodrigues tra gli altri.
Altrettanto importante è il ruolo del ministro della Giustizia, Flávio Dino, con le sue decisioni e i suoi discorsi repubblicani chiari e argomentati. La Corte Suprema – il Supremo Tribunale federale – è un attore fondamentale di questa congiuntura politica, ma continuo ad avere l’impressione di un eccessivo protagonismo della magistratura nel contesto dei rapporti tra i tre poteri. Anche la Polizia Federale sembra essersi ricomposta e sta agendo con una serie di indagini sui numerosi crimini di Bolsonaro e compagnia.
Ovviamente, in questo frangente, che rimane sfavorevole a coloro che lottano per la giustizia, un’opposizione radicale nei confronti del governo federale non può essere assolutamente accettabile. Non c’è dubbio: sono a favore. Infatti, sebbene questo governo non abbia – come non ha avuto nella passata amministrazione – alcun programma politico degno di questo nome, obiettivamente si presenta ancora come l’unica possibilità di fermare o ritardare, al momento, l’ascesa dell’alleanza dell’estrema destra con le forze armate e le élites imprenditoriali e rentiste.
Insomma, se l’estrema destra non sarà in grado di tornare elettoralmente al potere nel 2026, potremo senza dubbio parlare di vittoria della sinistra, nell’unica battaglia cruciale. Ammettiamolo: questo è davvero molto poco, ma è quello che ci resta. Poco, perché l’estrema destra, qui, in Brasile non è sconfitta e sta transitando in un processo di riorganizzazione più radicale e, a suo modo, efficace; mentre, nella maggior parte delle nazioni occidentali, continua ad essere vittoriosa e potente.
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È evidente che il compito prioritario di questo governo sarà difensivo, contro le iniziative bolsonariste: finalizzato a manovre complesse e incerte per invitare la destra eventualmente “democratica” ad allearsi con il lulismo per definire e organizzare politiche pubbliche per il Paese, in assenza delle risorse provenienti dal boom dell’esportazione delle commodities agricole, che favorirono i governi lulodilmisti anteriori.
Dobbiamo capire che, nell’attuale congiuntura politica, solo questo è realisticamente possibile. Conosciamo, però, la fragilità e l’incertezza di questa strategia, che potrebbe avere come esito anche l’interruzione del mandato presidenziale. E sappiamo che i nemici del Partito dei lavoratori non sono solo le élites, perché il bolsonarismo è un fenomeno popolare, radicato nelle recenti trasformazioni della società brasiliana, in cui sembra persino che la stessa classe dei lavoratori – insieme alla lotta di classe – sia scomparsa come realtà e come concetto.
La situazione attuale è ancora più negativa, dopo quattro anni di governo di destra. È evidente che la logica delle milizie sta prendendo il sopravvento in Brasile, coinvolgendo i settori della piccola delinquenza urbana e i settori della grande delinquenza, del saccheggio capitalista nelle campagne e nelle città. Non ci sono milizie solo a Rio de Janeiro, perché la criminalità miliziana si sta diffondendo in Amazzonia e nel Cerrado.
Valga l’esempio dello stato di Roraima, in cui, di fronte alla tragedia del genocidio Yanomami, sembrano vincitrici le iniziative e le narrazioni umanitarie del lulismo, ma chi, per il momento, tace è la “mafia” che riunisce militari, politici, impresari dell’agribusiness, ladri di terre, disboscatori della foresta, cercatori di oro e di diamanti, compagnie minerarie e contrabbandieri, che hanno trasformato Roraima in una zona franca di banditismo e la dominano come un territorio senza caratteristiche repubblicane.
Potremmo dire cose terribili pure di altri territori, ritenuti dal capitale come sacrificabili: “zone di sacrificio” sono, infatti, anche Rondônia, Acre, Pará, Maranhão.
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Come se la caverà poi il governo con i 50.000 minatori che si considerano, a tutti gli effetti, lavoratori e che, negli ultimi decenni, come tutti i garimpeiros e gli infrattori del traffico di stupefacenti nelle favelas, sono stati scartati e non hanno trovato altro modo per inserirsi nel mercato del lavoro? Riediteranno la guerra alla droga, che continua equivocata e fallimentare nelle baraccopoli delle metropoli e delle città del Brasile? Inoltre, appare inevitabile, parlando di minatori e soldati del narcotraffico, ricordare gli scartati del complotto golpista nella piazza dei Tre Poteri: Brasilia, 8 gennaio.
Anche nel Maranhão, stiamo assistendo a un aumento della violenza contro i territori indigeni e contadini, ed è una violenza con caratteristiche miliziane. Non è semplicemente la ripetizione del vecchio e ben noto modo di jagunços e pistoleri, perché dopo gli anni lulodilmisti di travestimento delle violenza con il codice fiscale delle Compagnie di sicurezza, gli imprenditori del saccheggio capitalista hanno rinunciato al camuffamento apparentemente legale ritornando a mostrare il loro potere armato e politicamente articolato con settori dello stato – tutti e tre i poteri – raccogliendo, inoltre, nuove simpatie da parte dell’opinione pubblica.
Lo Stato non sempre si rivela complice della criminalità organizzata, ma, costantemente – e oggi possiamo dire: costitutivamente – appare impotente come difensore e garante dei diritti dei piccoli: indigeni, quilombolas, comunità tradizionali della campagna e della città. Lo stato di diritto è proclamato nei discorsi, ma ciò che prevale, quaggiù, è lo stato di eccezione.
La mia indiscussa simpatia per le narrazioni progressiste e umanitarie non può essere un antidoto sufficiente per non diffidare della capacità dell’attuale governo federale di offrire soluzioni alla richiesta di demarcazione dei territori indigeni, quilombolas e tradizionali, regolarizzazione fondiaria e Riforma Agraria.
Non ho alcun ricordo di risposte politiche dignitose ed efficaci da parte dei governi lulodilmisti e, attualmente, la situazione è molto più complessa e meno favorevole per le politiche fondiarie, agrarie e territoriali. A quel tempo, Zé Dirceu e Frei Betto ci ripetevano: «Non abbiamo conquistato il potere, stiamo disputando il governo» e in quei tredici anni la sinistra ha effettivamente obbedito alla strategia prioritaria di contenere e limitare i danni del capitalismo predatorio. Questa politica di contenimento dei danni del capitalismo sarà fattibile in questo frangente?
Se i popoli indigeni, quilombolas e rivieraschi, pescatori e contadini, saranno nuovamente obbligati ad affrontare lo stato, in una ripetizione stressante e inefficace di rivendicazioni e di mobilizzazioni, come reagiranno ai ritardi – alibi dell’impotenza – e all’incoerenza delle politiche pubbliche per i territori? Insomma, come riaffermare politicamente la Speranza e superare questa lettura realistica che guarda, preoccupata e impaurita, alla congiuntura?
Ci sono molte altre sfide politiche di importanza planetaria, che, presenti nelle narrazioni e nelle scelte ministeriali simboliche, saranno, però, strutturalmente fuori dalla portata di questo governo.
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Pensiamo, tra i tanti esempi possibili, al bioma Cerrado, al programma MATOPIBA – estinto per decreto, ma ben funzionante per costanti investimenti -, agli imprenditori agroalimentari, agli allevatori di bestiame, alle compagnie minerarie, includendo l’estrazione di gas e i progetti di fracking, alle aziende che si occupano di porti, autostrade, ferrovie, idrovie, centrali idroelettriche e linee di trasmissione, produzione massiccia delle energie eolica e solare, pesticidi e agroindustria. Chi sarà in grado di rimodellare il settore prioritario dell’economia brasiliana, settore costitutivamente alternativo alle preoccupazioni per l’ambiente, alla crisi climatica e alla continuità della Vita sul Pianeta?
L’economia imprenditoriale è in gran parte di destra e di estrema destra, tradizionalmente del Sud, fatta da discendenti della seconda colonizzazione – italiani e tedeschi – suprematisti bianchi e armati, violenti e prevenuti, razzisti, misogini, omofobici, quasi sempre cattolici tradizionalisti, con una rappresentanza in parlamento di circa trecento deputati che compongono la bancada do boi, il “partito del bue”, dei ruralisti, solitamente associati al partito evangelico e al partito delle armi.
Difficile credere che, improvvisamente, la “sinistra” si convertirà a politiche di difesa del clima e della Vita. Il recente passato ha sempre visto i governi di “sinistra” allineati contro serie politiche di limitazione delle aggressioni alla Terra e ai territori tradizionali: per gli smemorati ricordiamo il tragico esempio di Belo Monte, senza dimenticare Estreito, Jirau e Santo Antonio e la trasposizione del fiume San Francesco con tutte le violenze perpetrate contro territori urbani al tempo del Campionato mondiale di calcio (2014) e delle Olimpiadi (2016).
Insomma, viviamo in tempi sempre più difficili, che sfidano chi lotta per costruire un mondo più giusto e più fraterno. Congiunture che sfidano la nostra creatività pedagogica e politica a confermare e riformare strategie, stili e priorità delle lotte popolari.