Contro le certezze annunciate da tutti i sondaggi e ribadite anche nelle ore finali dello scrutinio, tra meno di due settimane – molto probabilmente – Recep Tayyip Erdogan sarà confermato per la terza volta alla presidenza della repubblica turca e quindi guiderà la Turchia nel centenario della sua fondazione, avvenuta il 29 ottobre del 1923.
Il leader turco ha sì perso qualche consenso, ma ha chiuso il primo turno elettorale con il 49,4% dei voti, mentre, nelle precedenti presidenziali, arrivò al 52%; ma il suo sfidante Kamal Kilicdargolu si è fermato molto prima, ossia al 44,9%.
Dunque, contro ogni previsione, Erdogan sta per cominciare il suo terzo mandato presidenziale e la sua terza decade ai vertici della Turchia, visto che, prima della riforma presidenziale, è stato a lungo il primo ministro?
È ormai difficile non pensarlo, sebbene gli imprevisti siano sempre possibili. Molti continuano a confidarvi: dipendono dal fatto che il terzo candidato, il nazionalista di estrema destra Sinan Ogan, ha ottenuto il 5,2% e, nel momento in cui scrivo, non ha ancora detto chi indicherà di votare tra i due al ballottaggio. Eppure, le sue testuali parole, di poco successive alla proclamazione dei risultati ufficiali, non sembrano lasciare molti dubbi: «gli elettori hanno dimostrato di non fidarsi abbastanza dell’opposizione e ci hanno affidato il ruolo di forza di bilanciamento del partito di governo».
L’ipotesi più prevedibile è un accordo di governo con Erdogan, benché sia lecito aspettarsi di tutto. Nei suoi calcoli peserà di più il vecchio attrito con Erdogan del quale non condivide la centralità del fattore religioso e l’estremismo anti-curdo – molto più difficile per Kilicdargolu che dai curdi è sostenuto – ovvero il fatto che la coalizione con i nazionalisti meno estremisti di lui, guidata da Erdogan, ha ottenuto la maggioranza assoluta in Parlamento? Vedremo cosa deciderà di fare.
Contro ogni previsione
Ma le vere domande che in queste ore bisogna porsi sono, a mio avviso, altre. Oggi conta soprattutto capire come abbia fatto Erdogan a ottenere un risultato che nessuno al mondo si aspettava, nonostante il disastro economico in cui ha fatto piombare la Turchia (dopo anni in cui l’aveva risollevata da una lunghissima depressione) e la pessima gestione del devastante terremoto. Eppure, buona parte della gente dell’Anatolia più colpita dal sisma è tornata a dirgli “sì!”.
In Turchia – l’abbiamo riportato qui – «i turchi ordinari oggi non hanno i soldi neanche per comprarsi le cipolle», eppure l’elettorato anatolico – in molte province colpite dal sisma – ha rinnovato la fiducia ad Erdogan, nonostante che ci fosse un dramma ulteriore di cui incolpare il presidente: i soccorsi sono stati lentissimi e la ricostruzione è ancora lontana. Come ha potuto votarlo di nuovo?
La risposta sembra stare in una parola chiave, di questi tempi: la parola “identità”. Posso cercare di articolare qui la risposta e presentarla – in modo a noi più domestico – così: “Dio, patria e famiglia”, ove famiglia sta per “sistema patriarcale”. Quando Erdogan è andato a votare nel suo seggio, domenica scorsa, si è fatto riprendere nell’aula scolastica del voto mentre distribuiva banconote da 10 Lire Turche (poco meno di 50 centesimi di euro) ai bambini fatti giungere per l’occasione.
Non si trattava di corruzione elettorale: quei bambini non potevano infatti votare e i loro genitori non c’erano. Chiara doveva risultare l’immagine del sistema patriarcale: Erdogan è il prototipo del buon “padre dei turchi”, tanto benevolo da mostrare sensibilmente il suo amore per il suo popolo e i suoi piccoli figli. L’idea forte è quindi stata combinata, con arte, al feroce, violentissimo, attacco alla comunità LGBT negli ultimi giorni della campagna elettorale.
Nazionalismo
La “patria” è il tratto intermedio – evidentemente di successo – di una campagna elettorale decisamente nazionalista e quindi anti-curda. La Turchia, per la retorica prevalente di sempre con cui Erdogan ora si identifica, è la patria dei turchi e qui turco vuol dire di etnia turca, certamente non curda.
Gli interventi televisivi di molti leader curdi, alcuni dei quali in passato hanno militato nel PKK, contro Erdogan e a favore del principale sfidante, gli hanno dato certamente una mano, visto che il PKK è considerato il nemico pubblico numero uno della Turchia da quasi tutta l’opinione pubblica.
La non-appartenenza di Kilicdargolu alla comunità religiosa dell’Islam sunnita, bensì a quella eterodossa degli aleviti, è stata pure molto usata dai seguaci di Erdogan – ma non da lui personalmente – per dire che la “pura identità turca e sunnita” sarebbe stata messa in pericolo non votandolo. Così, Erdogan ha, teatralmente, concluso la sua campagna elettorale andando a pregare in quella che, grazie a lui, è tornata a essere la moschea Ayasofya, già Santa Sofia.
In una Turchia impaurita ed intrisa, sin dalla sua fondazione, di nazionalismo, il messaggio “Dio, patria, famiglia” lanciato da Erdogan ha dunque, evidentemente, ben funzionato, tanto da risultare più forte di quello dei suoi oppositori, nazionalisti, sia ben chiaro, pure loro, alla stregua del “padre dei turchi”, significato della parola “Ataturk” con cui venne chiamato per decreto parlamentare il fondatore della patria Mustafa Kemal.
Il nazionalismo oggi unisce tutti i candidati, tanto che Erdogan non ha esitato a seguire i suoi oppositori nel cercare un accordo con Assad per rimandare in patria i milioni di profughi siriani che lui stesso avevo accolto quando si atteggiava a leader più islamico che nazionalista. Il suo, oggi, è dunque un nazionalismo islamico, più in linea con gli umori di un Paese impaurito e impoverito.
I voti curdi
I conti si faranno alla fine, certamente, al secondo turno. Ma già oggi è d’obbligo dubitare di molte certezze spacciate dallo sfidante: i curdi hanno votato in massa, ma il loro partito ha perso deputati, perché molti elettori non curdi lo hanno abbandonato, per votare la lista guidata da Kilicdargolu. Torneranno i curdi alle urne in numeri così copiosi? Per riconoscenza, a chi?
Anche, i turchi residenti all’estero sono accorsi a votare in gran numero, come mai in precedenza, e i dati confermano che non hanno premiato Erdogan: torneranno altrettanto numerosi nelle sedi consolari per il ballottaggio? E i terremotati delusi – accompagnati alle cabine con i bus delle opposizioni – torneranno a votare con gli stessi bus di Kilicdargolu contro Erdogan, o lasceranno perdere?
Va aggiunta l’influenza – potentissima – dell’apparato mediatico, pubblico e privato. Erdogan è abilissimo a sottometterlo, ad usarlo, e continuerà a farlo. Non c’è stata certamente par condicio in queste elezioni turche. E non ci sarà nei giorni che separano dal ballottaggio. Si è calcolato che nei media pubblici Erdogan ha trovato 32 ore di “ospitalità”: Kilicdargolu 32 minuti. L’arresto di tantissimi dissidenti, di ogni tipo e senza capi d’imputazione presentabili, hanno fatto il resto, ossia trasformato lo Stato in un apparato elettorale di Erdogan.
Estimatori esteri
Mi chiedo, infine, come sia stato possibile che tutti i sondaggi abbiano previsto la sconfitta netta di Erdogan, tanto da portare, secondo le previsioni elettorali più accreditate, Kilicadargolu alla presidenza già al primo turno. Forse i sondaggi sono stati fatti solo nelle grandi città, ove questi ha effettivamente vinto – anche ad Istanbul – un tempo roccaforte erdoganiana. Basta questo a spiegare?
La spiegazione che mi do è più realistica ed amara: Erdogan ha vinto anche perché Russia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar hanno riempito di miliardi di dollari la sua banca centrale, consentendole di reggere l’urto del disastro economico e delle mance elettorali che il presidente ha profuso sino all’ultimo minuto. Evidentemente il sultano turco gode di tanti estimatori geopolitici e “amici” interessati in giro per il mondo.
Si può essere certi che la Turchia, con la conferma (quasi) certa di Erdogan, diventerà, ad esempio, la via privilegiata – come, per molti versi, è già – della sottrazione di peso di efficacia alle sanzioni occidentali alla Russia che ha aggredito l’Ucraina.
Un altro elemento mi fa molto pensare sul futuro: chiunque vinca, in Turchia si sa benissimo che il primo partner commerciale è l’Europa. L’Unione Europea – coi suoi singoli stati (Italia compresa) – saprà far pesare questa evidenza, specie se vincerà Erdogan, in vista di una politica mondiale più inclusiva, aperta e democratica? O non importa nulla?