Le alluvioni e le responsabilità

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Vittorio Marletto è stato sino a tre anni fa responsabile dell’Osservatorio clima dell’Agenzia regionale ambiente ed energia ARPAE. Fisico di formazione, si è occupato nel corso della sua carriera professionale, oltre che di climatologia, di applicazioni scientifiche in agricoltura. Attualmente, in qualità di membro del gruppo Energia per l’Italia, si sta dedicando ai temi della educazione ambientale (qui un suo articolo sulla rivista Il Mulino). Nei giorni drammatici della alluvione in Emilia-Romagna (16-17 maggio) è stato intervistato da Giordano Cavallari.

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  • Dottor Marletto, è un fenomeno meteorologico eccezionale e imprevedibile quello che sta accadendo in Emilia-Romagna in questi giorni?

È sicuramente un fenomeno sconosciuto per intensità: non era mai successo, a memoria d’uomo, niente del genere. Sto considerando l’arco temporale che va dall’inizio di questo mese ad oggi: mai era accaduto che in maggio piogge così intense abbiano insistito, a così breve distanza di tempo l’una dall’altra, sulla stessa zona. Il momento è davvero eccezionale ed effettivamente drammatico per la nostra Regione. Quanto alla imprevedibilità… il discorso è evidentemente complesso.

  • Cerchiamo di farlo a beneficio dei nostri lettori.

La prima − o l’ultima − cosa che mi viene da dire, è che quanto sta avvenendo potrebbe e dovrebbe mettere radicalmente in discussione il modello di sviluppo che la nostra Regione − e non solo − ha realizzato dal dopoguerra ad oggi: costruire è stato il verbo maggiormente praticato. Si è costruito tantissimo, anche ove non si sarebbe dovuto. In ogni caso si è costruito senza darsi limiti. Nel corso della mia attività professionale mi è capitato di lavorare alla produzione del rapporto annuale dell’ISPRA sul consumo di suolo in Italia. L’ISPRA è l’agenzia nazionale che, avvalendosi dei dati forniti dalle agenzie regionali, produce numerose e interessanti − quanto inascoltate − analisi sull’ambiente.

Ebbene, ISPRA definisce da tempo il nostro territorio regionale «ad alto rischio di esondazioni e dissesto idrogeologico», per almeno due ragioni. La prima è che le nostre montagne e colline sono di natura argillosa e quindi sono tendenzialmente franose; non abbiamo montagne fatte di roccia, come le Alpi, bensì, per lo più, fatte di argilla: «un mare di argilla in movimento» come ebbe a dire un noto geologo, maestro della geologia in Italia (Giulio Cesare Carloni). La seconda ragione è che sotto la montagna c’è una grandissima pianura che – per definizione – è «alluvionale», ossia è stata formata, nel corso dei secoli e dei millenni, dalle alluvioni dei fiumi. In pianura le alluvioni costituiscono, di per sé, la «norma» diciamo naturale.

Viviamo perciò su un territorio vocato al dissesto, se così si può dire, dal punto di vista umano antropico. Mentre gli insediamenti umani hanno voluto irregimentare e «irrigidire» tutto in maniera ingegneristica, facendo, ad esempio, scorrere i fiumi al di sopra del piano di campagna, tra argini chiusi, pensando che questi potessero reggere sempre e comunque. Possiamo dire che queste strutture hanno retto, sì, relativamente bene, nel tempo. Ora, alla prova dei fatti proprio di questi giorni, con masse d’acqua imponenti piovute dal cielo, possiamo e dobbiamo dire che non poteva essere sempre davvero così.

  •  Ci può spiegare cosa sta accadendo dal punto di vista propriamente meteorologico?

Il fenomeno è da imputare alla circolazione ciclonica che sta insistendo, appunto sull’Italia: questo vuol dire, detto semplicemente, che c’è una massa d’aria che ruota in senso antiorario sul nostro paese; passando sopra l’Adriatico «caldo», l’aria si carica di acqua allo stato di vapore acqueo; raggiungendo la costa e i rilievi della Romagna – per ragioni propriamente fisiche – quest’aria comincia a scaricare l’acqua di cui è pregna. Risultato: tra ieri e oggi (16-17 maggio) sono caduti più di 200 millimetri di pioggia in 36 ore su una terra già imbevuta dalle piogge, pure intense, di inizio mese. In alcuni punti dell’Appennino romagnolo le piogge totali da inizio mese hanno sfiorato i 600 mm, quel che ci si potrebbe attendere in un anno intero. La massa imponente di acqua si è immediatamente scaricata nel reticolo idrografico «rigido» a cui ho accennato: da cui la catastrofe cui abbiamo assistito.

  • Con l’occhio dell’uomo di scienza, che cosa, in particolare, sta notando e vuol farci notare?

A Bologna – la città in cui vivo – il canale Navile è uscito e ha allagato il quartiere Corticella, strade e case. Via Saffi è stata allagata sin verso l’Ospedale Maggiore perché il Ravone – un fiumicello sconosciuto ai più, perché da anni scomparso dalla vista, ossia «tombato» sotto il terreno della città – è riapparso facendo esplodere il pavimento di un negozio e da lì riversando acqua a volontà per Bologna.

A Faenza il Lamone – un altro fiumicello normalmente quasi asciutto – è uscito dal suo letto ed ha invaso la città. Così dicasi a Cesena per la fuoriuscita del Savio, e poi a Forlì, a Cervia, Ravenna e a Lugo di Romagna. Pare che ben 21 corsi d’acqua siano complessivamente esondati.

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Quel che voglio qui rafforzare, con gli esempi, è la mia tesi iniziale: le nostre città si sono espanse a macchia d’olio nella pianura senza considerare ciò che sarebbe potuto accadere e, oggi, sta effettivamente accadendo.

  • I cambiamenti climatici c’entrano?

Certamente. Ci troviamo di fronte oggi ad una situazione conclamata di cambiamento climatico. Qualche anno fa, insieme a valorosi colleghi, ho realizzato l’Atlante climatico dell’Emilia-Romagna, un lavoro impostato, sin dall’origine, a mostrare e a dimostrare quanto sia cambiato il clima nell’arco di una sola generazione. Il clima fisico che abbiamo sperimentato da ragazzi noi sessantenni, è ben diverso da quello che stanno vivendo i ragazzi di oggi. Con l’Atlante vado nelle scuole a dirlo.

L’esempio più clamoroso è l’aumento di ben due gradi in una sola generazione delle temperature medie estive. Non a caso sino agli anni Novanta i condizionatori d’aria erano oggetti pressoché inesistenti. Oggi non c’è esercizio commerciale, ufficio, casa e auto in cui non siano in dotazione. Per certi versi, questo è un fatto positivo perché ha consentito di salvare molte vite umane, specie di anziani, nel far fronte agli effetti nefasti delle ondate di calore estive che ormai si stanno susseguendo. D’altro canto, l’impiego estivo dei condizionatori ha cambiato completamente il profilo dei consumi elettrici, che un tempo registravano un minimo in estate, mentre oggi sono al massimo. Per fortuna d’estate sono al massimo anche le produzioni di energia fotovoltaica, a parziale compensazione del problema.

Il secondo esempio è quello dell’agricoltura, un settore a cui molto mi sono dedicato: le immagini e i dati dicono che le nostre colture tradizionali sono sempre più sotto stress, per esempio durante la torrida estate del 2012, quasi tutto il mais prodotto in regione è andato perso per siccità e caldo eccessivo (il caldo favorisce la comparsa di particolari funghi sulle piante che le rendono immangiabili persino agli animali). Basti dire che le organizzazioni di categoria del comparto agricolo continuano a lamentare centinaia di milioni di danni − dovuti ai cambiamenti climatici − quasi ogni anno.

Il cambiamento climatico non è una realtà che scopriamo oggi: i rapporti internazionali ONU-IPCC sul clima sono arrivati nel 2023 alla sesta edizione e il primo fu realizzato nell’ormai remoto 1990. Siccità e alluvioni sono due facce della nuova realtà climatica, che si caratterizza per una forte intensificazione degli eventi più estremi.

C’è un dato di fondo che viene ampiamente trascurato dalla politica e dalla opinione pubblica, a mio giudizio: il riscaldamento inquietante del Mare Mediterraneo. Mentre – lo dovremmo sapere bene – la nostra penisola è «immersa» nel Mediterraneo. Le perturbazioni saranno perciò sempre più alimentate dalla evaporazione del Mare nostrum. È secondo questa prospettiva, secondo me, che bisogna pensare: per attrezzarsi di conseguenza.

  • Si riuscirà, dunque, a correre, in qualche modo, ai ripari? Facciamo il caso dell’Emilia-Romagna dopo questo disastro.

Guardando alla situazione in Emilia-Romagna e alla «cultura» che sta ancora circolando, mi pongo molte domande. Non c’è granché su cui contare per nutrire ottimismo. Se si sta pensando, semplicemente, di rimediare ai danni e di ricostruire tutto come prima – come, mi pare, si stia già facendo – non ci siamo: è la vecchia logica, la stessa che ci ha portato a questo punto, e il disastro non può che ripetersi.

  • Curare maggiormente i boschi, manutenere i fiumi e i laghi – e non sarebbe poco ci potrebbe aiutare?

Le manutenzioni sono certamente importanti. Vanno senz’altro finanziate e fatte. Ma in questo momento – sotto l’effetto delle dimensioni di quanto è accaduto – sono convinto che non possa bastare. Non c’è sistema idraulico attuale che possa gestire il riversamento di 250 millimetri di pioggia in collina in 36 ore.

L’unico rimedio serio, per salvare vite umane anzitutto, è classificare il territorio secondo categorie di pericolo e allontanare le abitazioni e le attività dalle aree di maggior pericolo, restituendo ai fiumi lo spazio necessario.

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Dovremmo far ricorso all’antica saggezza. Faccio un esempio. Tutti conoscono l’Abbazia di Nonantola. Ebbene, l’ultima volta che c’è stata una alluvione da quelle parti, l’Abbazia – coi dintorni storici – non è andata sotto l’acqua, mentre i centri commerciali, la zona industriale, i parcheggi e le abitazioni della periferia asfaltata e cementificata, sì. Ecco, dobbiamo recuperare – oggi a maggior ragione – quella saggezza in verità assai «scientifica».

  • Creare invasi e dighe?

Come sempre le cose sono complicate. Non si può dare una risposta univoca. La valutazione va fatta caso per caso. Ad esempio, in Romagna abbiamo la diga di Ridracoli. È stata costruita per stoccare acqua a uso potabile, soprattutto per far fronte alla grande richiesta estiva. Io dico che è stata un’ottima idea realizzarla. L’ho definita un grande bicchiere di acqua pulita per i territori di Ravenna, Rimini e dintorni. Altri progetti mirano a realizzare dighe – ad esempio, nel parmense – in punti che io ritengo assai critici dal punto di vista idrico e geologico, a supporto di metodi irrigui spreconi e obsoleti come quelli a scorrimento utilizzati per i prati stabili.

  • Chi deciderà il da farsi e in che modo?

Quello delle scelte – inevitabilmente politiche – è un altro grosso problema, nella nostra regione come in tutta l’Italia. Nel nostro sistema esiste una pletora di Enti pubblici competenti e di privati interessati all’acqua.

Ho detto prima del fiumiciattolo Ravone «esploso» nell’attuale circostanza, nel centro della città di Bologna. Evidentemente Regione e Comune conoscevano bene il corso tombinato del fiume e i problemi potenziali. La Regione ha segnalato al Comune l’esigenza di realizzare la rimozione di alcuni manufatti nel percorso dell’acqua. Il Comune ha dovuto coinvolgere i privati interessati a tali manufatti. Sono passati alcuni anni ma non si è arrivati a nulla, anzi si è arrivati agli allagamenti.

Anche, quindi, la realizzazione delle opere già individuate e da farsi, si scontra con infinite sovrapposizioni di competenze e un’infinita burocrazia, mentre, come ho detto, la situazione richiede interventi sempre più programmati e veloci.

Il problema politico di fondo è tuttavia, a mio modo di vedere, ancora più serio: è culturale. Sino a quando si resta in una logica esclusivamente antropocentrica di sviluppo economicista, non sarà possibile fare fonte ai disastri ambientali che verranno.

  • Ci faccia capire meglio.

La domanda che, come comunità umana, dobbiamo porci è – radicalmente – a cosa serve l’acqua. Nella nostra regione – ma in generale nel Nord d’Italia e non solo – il 70% dell’acqua disponibile è utilizzata per irrigare campi, ad esempio, di mais – circa 2.000 metri cubi per ettaro coltivato durante l’estate – una derrata destinata alla alimentazione animale negli allevamenti intensivi.

Questa resta una realtà indiscussa e indiscutibile – anche se io ho cercato spesso di metterla in discussione –, sebbene siamo ormai da anni di fronte agli eventi di siccità o di alluvione (che lascia comunque senza acqua una volta che è passata). Dovrebbe risultare a tutti sensato rivedere un tale modello irriguo. Invece, non se parla e non se ne vuol parlare, perché, evidentemente, ciò significa toccare, non solo tradizioni, ma anche interessi di non poco conto.

Gli allevamenti intensivi – non solo bovini ma anche suini (collegati a doppio filo al consumo degli scarti dei caseifici) – danno luogo poi a enormi quantità di deiezioni, con tutti i problemi correlati all’inquinamento dell’aria e dell’acqua. So per certo che in Olanda il governo – non certo un governo «verde» – ha deciso di ridurre drasticamente il numero di capi d’allevamento per cominciare ad affrontare in maniera radicale il genere di problemi di cui stiamo trattando. Ci sono state ovviamente proteste, anche forti, di agricoltori e di allevatori, ma il piano va avanti.

È chiaro che provvedimenti di questa natura hanno impatti molto forti, non solo economici, ma persino relativi alle abitudini alimentari. Ma – prese tutte le contromisure – solo scelte così radicali sono in grado di incidere positivamente sul futuro, perché ci sia un futuro.

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  • È un cambiamento davvero radicale quello che lei prospetta!

La crisi ambientale ci pone – direi ci impone – di pensare un altro mondo e un’altra economia. La priorità è attuare quella transizione energetica di cui tanto si parla, senza vederla ancora. I tre quarti delle emissioni climalteranti sono rappresentati dalla CO2 emessa in Italia come in tutto il mondo industrializzato quale principale responsabile dei cambiamenti climatici: come ormai sappiamo, questa proviene dalla combustione di fonti fossili: petrolio, gas e carbone. Occorre farla diventare al più presto energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili − fotovoltaico ed eolico in primo luogo − a emissioni zero di CO2. Pensiamo da subito a un’economia improntata in tal senso, anziché attardarci − ormai consapevolmente e colpevolmente − nelle vecchie logiche che fanno perno ancora sui fossili, il cemento, l’asfalto, il consumo di suolo e la tombinatura dei corsi d’acqua.

  • Da chi attende la spinta per una svolta culturale? Anche dalla Chiesa?

La Chiesa ha mostrato una nuova e per certi versi sorprendente attenzione a queste tematiche con la straordinaria enciclica di papa Francesco, la celebre Laudato si’ del 24 maggio 2015. È assolutamente un bene che di queste tematiche cruciali si discuta anche nelle scuole, nelle parrocchie, nei circoli culturali e di conseguenza nei consigli comunali e negli altri luoghi deputati alla decisione politica. Ci vuole una gentile rivoluzione culturale: la crisi climatica la pretende e noi dobbiamo attuarla prima possibile, per il bene nostro e dei nostri discendenti.

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4 Commenti

  1. Sebastiano Buffa 27 maggio 2023
  2. Claudio 21 maggio 2023
    • Anima errante 22 maggio 2023
      • Claudio 22 maggio 2023

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