Davide Assael, ebreo italiano, Presidente della Associazione Lech Lechà per una filosofia relazionale, voce radiofonica di Rai Radio 3, è editorialista del quotidiano Domani e della rivista Limes per cui ha recentemente lavorato al volume Israele contro Israele (3/2023). Gli abbiamo chiesto dell’attuale congiuntura dello Stato di Israele dopo le proteste seguite all’annunciata riforma governativa della giustizia, contenente gravi limitazioni dei poteri della Corte suprema garante dei diritti di cittadinanza. Intanto, si è riacceso l’infinito conflitto israelo-palestinese.
- Davide, la tesi dell’editoriale di Limes è che la storia dello Stato di Israele è giunta a un punto decisivo: perché?
Perché ci sono questioni – non risolte – che attraversano tutta la storia dello Stato e che, in questa fase storica, stanno venendo, con particolare forza, in evidenza, anche con manifestazioni di piazza, come stiamo vedendo in questi giorni. Sono questioni che non possono essere ormai rinviate o eluse.
Ciò che abbiamo sotto gli occhi è infatti il portato di una polarizzazione sociale che è andata accentuandosi, con una conseguente esplosione della conflittualità. Come noto, in poco meno di 4 anni, Israele è andato al voto 5 volte. La tendenza alla polarizzazione si osserva da 20 anni, da quando Benjamin Netanyahu è diventato il dominus della politica israeliana.
Io penso che il nodo di fondo che sta effettivamente venendo al pettine sia quello della identità: non tanto israeliana, quanto ebraica. Nel confronto con la modernità, l’ebraismo mondiale ha assunto forme diverse che sono inevitabilmente confluite nello Stato ebraico, senza che sia mai avvenuta una reale conciliazione tra le stesse: da ciò l’odierna spaccatura.
Le fratture interne all’ebraismo
- Quali sono le forme di ebraismo che si stanno confrontando – o scontrando – dentro lo Stato di Israele?
Possiamo distinguere almeno tre grandi correnti che, nei rispettivi ambiti, ne contengono tante altre. Hanno preso forma nel XVIII secolo, dal confronto dell’ebraismo, appunto, con la modernità. Per comprendere la realtà attuale, possiamo direttamente regredire alla spaccatura originaria.
La prima corrente è la cosiddetta haskalah che significa «illuminismo ebraico», dal verbo hiśkil, illuminare. Questa grande corrente è nata all’interno della cultura germanica in un punto ben preciso: a Könisberg, la città di Immanuel Kant. Appena prima di Kant, quell’ambiente ha conosciuto la rilevante figura dell’ebreo Moses Mendelsshon a cui si deve la grande opera di conciliazione della cultura ebraica con gli ideali della modernità in cui vengono enfatizzati gli aspetti universalistici appartenenti alla tradizione, naturalmente risalenti alla Torah. Mendelsshon, per questa via, è giunto persino a «rivendicare» la paternità ebraica degli ideali illuministici di libertà, uguaglianza e fraternità. La haskalah ha conosciuto il suo maggiore sviluppo nell’Europa occidentale, ma ha raggiunto, secondo i più aggiornati studi, anche zone geografiche orientali sinora trascurate.
La seconda corrente è il noto chassidismo – da chassid, il «giusto» o «pio» ebreo – quale risposta dell’Europa orientale alla stessa modernità. Si tratta di un movimento assai articolato e complesso. La figura che qui posso citare è quella di Martin Buber, noto per aver riattualizzato il chassidismo proprio alla luce del confronto con la haskalah, quindi, per evitare la marginalizzazione che il chassidismo avrebbe altrimenti subito nell’ebraismo moderno. È vero, infatti, che il chassidismo può passare per un fenomeno «conservatore»: in realtà – almeno nell’ottica di Buber (ma anche di Gershom Sholem) – era e resta un tentativo di rinnovamento, pur mantenendo un profondo radicamento nelle fonti. L’unico aspetto irrinunciabile per il chassidismo – in maniera diversa rispetto alla haskalah – è costituito dalle mitzvot, i 613 precetti la cui osservanza distingue l’ebreo osservante.
In fondo haskalah e chassidismo hanno proposto e propongono la riscoperta delle fonti in chiave etica, ma con sviluppi e direzioni diverse: da una parte, c’è il tentativo di ripensare le mitzvot, dall’altra, di conservarle intatte, ma ripensando il loro rapporto con la kavanà, l’intenzione con cui si eseguono. Entrambi i movimenti rinnovano il rapporto con l’origine ebraica, ma in direzioni profondamente diverse. La prima grande spaccatura dell’ebraismo si colloca proprio su questo crinale.
La terza corrente o forma è quella assunta – quasi di conseguenza – dall’ebraismo dell’Europa più orientale, con la sua risposta persino virulenta, per non dire violenta, al chassidismo e ad ogni forma di rinnovamento: è la risposta dei cosiddetti mitnagdym – gli «oppositori» – espressione delle yeshivòt lituane raccolte attorno alla figura di Gaon di Vilna, annoverabile tra le massime autorità religiose ebraiche di ogni tempo. Tra chassidismo e mitnagdym si è consumata e si consuma la seconda grande frattura dell’ebraismo.
All’avanzare della haskalah verso Est, chassidismo e mitnagdym hanno costruito, in qualche modo, un fronte comune, ma la «tripartizione» rimane forte e caratterizza, appunto, le differenziazioni e le divisioni dell’ebraismo esistenti nello Stato di Israele. Basti dire che le yeshivot (scuole) di origine lituana sono divenute le culle di alcuni partiti politici oggi al governo.
Su questa base è possibile osservare pure una partizione geografica dell’ebraismo in Israele. L’ebraismo «libertario» della haskalah è prevalentemente situato a Tel ‘Aviv, anche se non solo. Mentre tutto il territorio può essere analizzato secondo «macchie» di insediamento delle principali correnti, poco o per nulla comunicanti tra loro. Ecco perché – per la sopravvivenza dello Stato – serve oggi un tentativo di sintesi delle diverse identità ebraiche. Non è più procrastinabile. Ed ecco perché questo è un momento davvero decisivo per la storia di Israele.
- Esiste, in Israele, un ebraismo totalmente laico ed è possibile un’intesa tra religiosi e non religiosi?
Penso che la visione che contrappone «religioso» a «laico» sia superata, peraltro non solo per quanto riguarda l’ebraismo e non solo per quanto attiene ad Israele. La modernità ha cambiato evidentemente tante cose nel rapporto tra «mondo religioso» e «mondo laico». Per l’ebraismo – e per Israele – si tratta di riconoscere che le diverse declinazioni identitarie provengono da quella stessa fonte etica che è la Torah. Un simile riconoscimento sarebbe unificante. Naturalmente, ciò che vale per l’ebraismo, vale anche per le altre identità religiose e laiche.
L’assenza di una Costituzione
- Lo Stato di Israele non è dotato di una Costituzione, come mai?
Una costituzione non c’è per due ordini di motivi. Il primo l’ho già sostanzialmente presentato: risiede nelle fratture in cui versa il mondo ebraico, riprodotte e marcate, anche geograficamente, nello Stato: ogni comunità ha la sua città di elezione o il suo quartiere. In tutti questi anni non si è voluto, dunque, affrontare la questione di fondo. Si è preferito accettare e consolidare lo status quo, pensando che il modello indefinito potesse costituire un nuovo prototipo di Stato: un modello di convivenza tra comunità diverse tra loro, talmente diverse da non avvertire neppure il bisogno di parlarsi. Ricordo qui che lo stesso sistema scolastico israeliano è profondamente differenziato in ragione delle varie appartenenze. Oggi appare più chiaro come questo modello – spesso portato a motivo di vanto – non possa reggere senza arrivare mai ad una sintesi di ordine politico.
Il secondo ordine di motivazioni è da ricondurre alle diverse visioni e ascendenze politiche dei «padri» fondatori dello Stato. Come noto, la Gran Bretagna, tuttora, non possiede una costituzione: alcuni «padri» vedevano perciò la questione costituzionale in termini «anglosassoni», non considerandola importante e ritenendola, persino, un impedimento capace di imbrigliare o rallentare l’azione dell’esecutivo. Non dimentichiamo la genesi dello Stato di Israele: dal primo giorno Israele ha subito l’attacco arabo e ha dovuto fare la guerra per esistere. Ai più, perciò, non è risultato sensato dotarsi di una costituzione, proprio in quei frangenti. L’icona della divisione politica su quel punto sta nella foto di Ben Gurion e di Golda Meir, insieme ma contrapposti: la Meir avrebbe voluto scrivere una costituzione, Ben Gurion no.
- È possibile scriverla ora?
Se ne parla: è l’attuale opposizione, capitanata dall’ex premier Yair Lapid del partito Yesh Atid, a prefigurare la scrittura della costituzione dopo la caduta – per lui inevitabile – dell’attuale governo guidato da Netanyahu. Una costituzione potrebbe realizzare o almeno preparare quella sintesi tra le anime di Israele di cui ho detto. La scrittura di una costituzione necessita però di un’ampia intesa nella società israeliana, prima ancora che nella politica israeliana: ma è proprio ciò che in questo momento non si vede all’orizzonte. Si sa, tuttavia, che i cicli storici spesso si chiudono e si aprono improvvisamente. Tutto può accadere.
La questione israelo-palestinese
- Questione palestinese: come cercare una soluzione? Ancora nei due Stati?
Sono un sostenitore – sempre più solitario – dei due Stati, anche se mi rendo conto delle difficoltà, se non della impossibilità, di perseguire ancora tale soluzione. Per almeno due ragioni. Il modo in cui gli insediamenti israeliani si sono espansi ad arte è tale da rendere pressoché impossibile la formazione di uno Stato palestinese omogeneo.
Diamo poi uno sguardo alla società palestinese (dopo aver parlato delle divisioni di quella ebraica): dalla morte di Arafat – che riusciva a trattenere in sé le varie tendenze palestinesi – è esplosa una tale conflittualità intestina palestinese da giungere sino allo spargimento del sangue. Basti dire che i rappresentanti della Organizzazione per la Liberazione della Palestina non possono, sostanzialmente, entrare a Gaza, controllata da Hamas. Il capo palestinese Abu Mazen – che ha 90 anni – non indice più elezioni da 12 anni. Persino Hamas teme la concorrenza dei gruppi della jihad islamica. Insomma, all’interno dei «confini» palestinesi si sta replicando la profonda divisione del mondo arabo musulmano, tanto da poter parlare di una guerra civile palestinese in atto. Netanyahu – che ha messo sicuramente del suo per delegittimare la figura di Abu Mazen –, anche lo volesse, ora, non avrebbe un vero interlocutore con cui poter parlare in rappresentanza di tutto il popolo palestinese.
- Perché allora continui a ritenere la soluzione dei due Stati l’unica plausibile?
Perché comunque, secondo me, continua a rispondere all’istanza fondamentale, che è demografica: questa è stata ben delineata dallo statistico italo-israeliano Sergio Della Pergola. Lo Stato di Israele ha senso solo se possiede una maggioranza demografica ebraica, così come ogni altro Stato che abbia una propria identità; parimenti uno Stato palestinese. Difendo dunque l’idea di uno Stato ebraico e non penso affatto che ciò sia incompatibile con la presenza di minoranze tutelate dalla legge e quindi da un assetto democratico.
Se si pensasse a un solo Stato – dal Mediterraneo al Giordano – ecco che questo Stato sarebbe a maggioranza musulmana, per ovvie ragioni demografiche: non potrebbe essere uno Stato ebraico, ovvero lo potrebbe essere, ma in un solo modo, ossia privando la maggioranza araba di diritti fondamentali come il diritto di voto, oltre a tanto altro. Non sarebbe quindi quello Stato democratico a cui io mai vorrei rinunciare, proprio in virtù di quei principi etici – universalistici – che appartengono alla tradizione biblica.
- Quali condizioni dovrebbero darsi per arrivare a una tale soluzione?
Così come Israele ha fatto accordi con l’Egitto e si è ritirato dal Sinai e da Gaza, può trovare forme di disimpegno dai territori occupati della Cisgiordania, rendendo possibile la formazione dello Stato palestinese. Chiaramente dovrebbero essere garantiti, da entrambi gli Stati nascenti, i diritti delle minoranze. Andrebbero poi definite le strutture culturali di fondo dei due Stati: i calendari, i simboli, gli inni ecc.; perché sono queste le basi indispensabili su cui possono poggiare le collettività umane. Queste sole mi sembrano le condizioni per mantenere viva la speranza di uno Stato ebraico democratico accanto ad uno Stato palestinese altrettanto democratico.
Russia e Ucraina
- In Israele ci sono molti ebrei provenienti da Russia e Ucraina. Come stanno vivendo questo momento?
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è avvenuta una nuova Aliyah, o «salita», o flusso migratorio, consistente di ebrei verso Israele. Si conta che, negli anni Novanta, siano giunti in Israele circa un milione di russi e 250.000 ucraini. Non dimentichiamo pure la componente dalla Bielorussia. Questi numeri sono incrementati – e non di poco – dalla invasione della Russia in Ucraina. Per tutti questi migranti, così come per tutti gli ebrei nel mondo, vige la legge del ritorno, che crea una corsia preferenziale verso Israele. Sia per i russi che per gli ucraini, sono piuttosto evidenti le ragioni che li ha mossi e che li muove verso Israele dal febbraio dell’anno scorso: oltre alla paura della guerra, esiste il timore che al riaccendersi degli umori nazionalistici corrispondano rigurgiti di antisemitismo.
Putin deve aver fatto qualche mossa molto preoccupante: ad esempio ha messo sotto speciale osservazione le agenzie e le associazioni ebraiche in Russia con quella legge che intende contrastare ogni ingerenza o influenza straniera. Il clima è tornato a non essere per niente sereno per gli ebrei in quel Paese. Basti dire che il rabbino capo di Mosca Pinchas Goldschmidt se ne è andato dalla Russia per le pressioni a cui era sottoposto ed ora sta facendo un’azione fortissima di sensibilizzazione in Israele contro il governo russo.
Ma va detto che anche in Ucraina il rinato nazionalismo ha comportato la riesumazione di figure che appartengono alla storia antisemita del Paese: è di poche settimane fa la notizia – preoccupante – della attribuzione di una via di Kiev ad un noto collaborazionista ucraino dei nazisti. Nonostante il presidente Zelensky sia ebreo, l’antisemitismo continua a soffiare anche in Ucraina.
- Quanto gli ebrei russofoni sono o si sentono effettivamente ebrei?
È una vecchia domanda dalla Aliyah degli anni Novanta da tutto il mondo ex sovietico. È noto che, anche per aumentare i numeri della demografia ebraica, i criteri per definire l’ebraicità delle persone siano stati assai laschi. Oggi è impossibile rivedere quelle scelte e neppure sarebbe giusto. Così sono migrate in Israele persone e famiglie la cui identità ebraica era impossibile da dimostrare, semplicemente perché, nel mondo sovietico, era pressoché impossibile essere ebrei, quanto meno «ebrei certificati».
- Cosa significa – anche elettoralmente – la presenza degli ebrei russi e ucraini in Israele?
Significa che in Israele sono entrati molti ebrei che, per storia e per vicende personali, non sono stati educati alla democrazia. Anche gli ucraini – dobbiamo dircelo – vengono da una esperienza ancora breve e fragile di democrazia. Ovviamente non è una colpa: è un dato di fatto. In Israele queste persone, anche giovani, cercano, in primo luogo, sicurezza e benessere, non la democrazia.
Sta di fatto che chi, più di tutti, ha rappresentato, nel recente passato politico, la comunità russa e russofona – il laico Avigdor Lieberman – è un uomo di destra che ha stretto alleanza con Netanyahu. L’alleanza è poi saltata a causa del rapporto sempre più preponderante di Netanyahu con i partiti religiosi. Molta parte di quell’elettorato si è ora rivolto verso l’attuale premier.
- È dunque l’elettorato russofono a condizionare le mosse del governo israeliano nei tempi della guerra?
Netanyahu è un politico astuto quanto spregiudicato. È sicuramente molto attento alla demografia e quindi all’elettorato del suo Paese. Le sue manovre – decisamente illiberali – sono attentamente calcolate nelle possibilità di riuscita. Penso quindi che abbia ben calcolato l’effetto di questo tipo di elettorato, innanzi tutto, per fini interni, cogliendo consensi sull’allargamento della espansione dei «confini» di Israele e sulla conquista di un crescente peso geo-politico nell’area medio-orientale.
Va detto poi che Netanyahu continua ad intrattenere ottimi rapporti personali con Putin e rapporti politici con la Russia, tanto da non prendere una posizione netta sulla guerra Russia–Ucraina. Non ha offerto a Zelensky le armi attese dall’Ucraina, pur concedendo qualcosa per tacitare la parte di opinione pubblica israeliana più occidentalizzata e quindi più schierata con l’Ucraina. Sta parlando il meno possibile della guerra. Del resto, anche il governo precedente – a guida di Naftali Bennett – ha adottato una linea molto prudente.
Il quadro geopolitico
- Stanno mutando le alleanze internazionali dell’Israele di Netanyahu?
Secondo la mia lettura, l’attuale politica di Netanyahu – nel rimarcare l’appartenenza religiosa ebraica e nella probabile intenzione di ampliare i confini di Israele – mette inevitabilmente in discussione il posizionamento internazionale dello Stato.
Il pensiero va, in primo luogo, agli Stati Uniti. Io non penso che Netanyahu voglia rompere, ora, i rapporti con gli Stati Uniti, ma non posso fare a meno di far notare che questi sono giunti ai loro minimi storici, se così si può dire: da quando si è insediato l’attuale governo, a fine del dicembre scorso, Netanyahu non ha incontrato una sola volta Biden. Tra i due c’è stata una sola telefonata a fine marzo. La diaspora degli ebrei d’America è esterrefatta: si trova in una situazione che non si è mai data in precedenza.
È ovvio che in ciò molto pesa la scelta degli Stati Uniti di volersene andare, soprattutto militarmente, dal Medio Oriente, per concentrare le proprie energie nell’indo–pacifico, verso la Cina, mentre sono ancora enormi i problemi che restano in interi Paesi del Medio Oriente, devastati: Siria e Libano per dirne solo due.
Ma gli Stati Uniti sono pur sempre i promotori degli Accordi di Abramo che erano parsi portare aperture degli Stati arabi verso Israele, persino da parte dell’Arabia Saudita. Netanyahu – presentandosi con un governo in cui siede una componente suprematista e decisamente antiaraba– sta richiudendo quelle aperture.
Parlo chiaro: agli Stati Arabi dei palestinesi e della causa palestinese non interessa nulla, ma questi non possono tuttavia ignorare il valore simbolico di questa causa fra le popolazioni arabe da loro stessi allevate a pane e antisemitismo. Pena: subire la concorrenza interna di fazioni estremiste come Al–Qaeda o altre viste in questi anni.
Del buon rapporto di Israele con la Russia di Putin ho detto. Non escludo che Netanyahu, col suo stile, lo stia abilmente sfruttando in chiave di relazione con gli Stati Uniti: sta in qualche modo lanciando un messaggio al nuovo mondo – multipolare – che si va ridisegnando, lasciando presupporre che, un giorno, Israele potrebbe persino passare «dall’altra parte». Questo è un messaggio in grado di preoccupare – e non poco – gli Stati Uniti.
- Israele ed Europa: come vedi il rapporto?
È di questi giorni la notizia che il noto ministro israeliano Itamar Ben Givr – suprematista, estremista antiarabo, più volte arrestato in precedenza, ora a capo proprio della polizia – non è stato accolto nel consesso annuale U.E.–Israele: l’incontro è stato annullato. Facile pensare che anche questo incidente diplomatico potesse essere previsto da Netanyahu che ha mandato Ben Gvir anziché il più rassicurante Eli Cohen, ministro degli esteri. L’episodio da sé rappresenta l’attuale stato dei rapporti con l’Europa.
- Perché Netanyahu non sta facendo nulla per evitare questi incidenti con gli occidentali?
Secondo me, sta testando una precisa strategia: nel mondo hanno governato tipi come Bolsonaro in Brasile e Boris Johnson in Gran Bretagna; negli Stati Uniti c’è stato Trump (e potrebbe ritornare); in Europa c’è Orban in Ungheria e Morawiecki in Polonia, dopo i Kaczynski; perché non potrebbe essere accettato, dal consesso internazionale occidentale, anche un Netanyahu illiberale in uno Stato meno democratico? Forse Netanyahu sta pensando proprio questo di sé stesso e di Israele. In fondo il mondo sta profondamente cambiando e tutto – lui probabilmente pensa – può cambiare.
Italia, Vaticano, Chiesa cattolica
- E il rapporto con l’Italia – col governo Meloni – come lo vedi?
Siamo realisti: il peso geopolitico dell’Italia è pressoché irrilevante, quindi anche per Israele. In passato non è sempre stato così. Ricordiamo la stagione in cui l’Italia ha avuto un ruolo nelle relazioni col mondo arabo. Il governo Meloni – stante l’irrilevanza dell’Italia – mi pare stia gestendo il rapporto in chiave politica più interna che internazionale, a motivo della storia da cui proviene.
Ho osservato due fatti. Il primo è il viaggio che il presidente del Senato La Russa ha fatto in Israele accompagnato dal presidente della comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi. Il secondo è il discorso che Giorgia Meloni ha tenuto alla presenza delle massime autorità ebraiche romane in un evento organizzato dalla stessa comunità ebraica romana per la festività di Hanukà: c’era la presidente della comunità Ruth Dureghello e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.
A me sembra che con questi fatti si ricerchi la legittimazione della propria forza politica – a cui appartengono sia La Russa che la Meloni – presso le comunità e gli ebrei italiani: cosa apprezzabile, anche se, dal mio punto di vista, ormai fuori tempo, visto il discredito di Netanyahu a livello internazionale.
- Vaticano: quale relazione oggi con Israele sulle questioni di cui hai parlato?
Ricordo che papa Francesco si era approcciato ad Israele, nel giugno 2014, con la preghiera per la pace, accanto al presidente Shimon Peres e al leader palestinese Abu Mazen, alla presenza del patriarca Bartolomeo, indicando una precisa direzione del pontificato appena intrapreso. Penso volesse davvero dare un contributo per la soluzione della vicenda israelo-palestinese, già ampiamente marginalizzata nel quadro politico internazionale dopo gli eventi tragici dell’11 settembre 2001 e quelli seguiti alle “primavere arabe”. Francesco aveva – e penso abbia ancora – ben chiara la portata simbolica, per le religioni mondiali, della vicenda storica di Israele.
Quel moto iniziale di Francesco si è tuttavia infranto contro la dura realtà che qui ho cercato di rappresentare e interpretare: i fenomeni di radicalizzazione si sono accentuati, sia nella parte palestinese che in quella ebraico–israeliana. Perciò io non vedo, in questo momento, una diplomazia vaticana in grado di incidere in maniera significativa per sedare i conflitti in terra d’Israele e per portare finalmente pace.
- La Chiesa cattolica e i cattolici che vivono in Israele come stanno oggi?
Nonostante il clima per le minoranze non sia favorevole, non penso che, al momento, esista alcuna minaccia per la popolazione cattolica dello Stato. Qualche giorno fa è circolata sui social la notizia che il governo israeliano avrebbe varato una legge per limitare la libertà religiosa, quindi anche quella dei cristiani. Si trattava evidentemente di una fake news. Netanyahu si è affrettato a smentire, perché non ha alcun interesse a toccare – neppure a sfiorare – le comunità cristiane.