Ci troviamo in Bosnia ed Erzegovina, a quasi trent’anni di distanza dagli accordi che sancirono la fine della guerra che si consumò tra il 1992 e il 1995 in questa terra – gli accordi di Dayton – e per le strade della capitale, Sarajevo, tra il profumo dei burek e dei ćevapčići, tra i rintocchi delle campane delle chiese e il riecheggiare del richiamo alla preghiera delle moschee, tra i mille negozietti caratteristici e il vociare dei bambini che rincorrono i piccioni nella pizza principale, si respira ancora oggi l’odore acre del sangue e della distruzione, in un Paese in cui, nonostante gli sforzi, aleggia ancora il fantasma della guerra.
Passeggiando per la città, ci si rende conto di quanto il ricordo di quel periodo sia ancora vivo: facciate di palazzi scrostate e trivellate da fori dei proiettili e delle granate; cimiteri che si articolano per tutta la città, affiancandosi alle case, e in cui nonnine con foulard in fantasia si recano a porgere fiori freschi; le rose di Sarajevo, fori lasciati dai colpi di mortaio che hanno distrutto la vita di migliaia di persone e che sembrano rose sfiorite che i cittadini hanno dipinto di colore rosso affinché non passino inosservate… e si decide di fare un tour fuori città per recarsi tra le bellissime montagne bosniache, bisogna per forza farsi accompagnare da una guida esperta perché, se si esce dal tracciato, c’è il forte rischio di incappare in qualche mina antiuomo inesplosa.
Ma il fantasma della guerra non si aggira soltanto tra strade e spazi verdi, si trova soprattutto tra le persone e nella politica.
Per un turista che si reca a Sarajevo, a un primo sguardo, tra le viuzze dell’antico centro ottomano e i viali costeggiati da palazzoni, sembra spirare un clima di tolleranza e di serenità, dove i tre popoli costituenti: bosgnacchi, croati e serbo-bosniaci, coesistono pacificamente nonostante le differenze ma, se si presta un po’ più di attenzione, si può vedere come la situazione sia ben diversa.
A pochi chilometri dal centro cittadino, a circondarlo, si trovano case dalle cui finestre sventolano bandiere tricolore: rosso, blu e bianco, della Repubblica Srpska, che lasciano trasparire il clima di tensione che caratterizza la vita quotidiana bosniaca, in un paese in cui la divisione tra la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Repubblica Srpska, due entità che costituiscono lo stesso Stato, non si limita ad essere una divisione territoriale, ma diventa una divisione ideologica, politica, culturale e religiosa, accendendosi più che mai sul piano politico, come nel caso delle minacce portate avanti dal rappresentante serbo-bosniaco Milorad Dodik di ricostituire un esercito proprio dell’entità.
Mi sono recata in questo splendido e controverso Paese nel mese di settembre, poco prima che si tenessero le elezioni in cui i cittadini dell’entità della Federazione di Bosnia ed Erzegovina erano chiamati a votare: i membri della Presidenza, i membri del Parlamento Nazionale, il Parlamento dell’entità e le assemblee cantonali, mentre i cittadini della Repubblica Srpska erano tenuti a eleggere la Presidenza e il Parlamento dell’entità.
In questa occasione ho potuto notare come il sistema politico consegnato alla Bosnia dagli accordi di Dayton: un sistema di rappresentanza etnico-nazionale in cui la Repubblica Srpeska agisce come uno stato centralizzato e la Federazione di Bosnia-Erzegovina è suddivisa in dieci cantoni che godono di un’ampia autonomia, abbia portato ad un “sovraccarico politico” e ad una sfiducia, da parte dei cittadini, nel sistema.
Difatti, girando per le strade della città ci si poteva imbattere nei classici cartelloni di propaganda elettorale sui quali vengono stampati, in dimensioni giganti, le facce dei candidati, che in questo caso specifico riportavano, però, tutte facce diverse, dato che il numero totale dei candidati superava i settemila e questo, in un paese che conta poco più di tre milioni di abitanti, rappresenta sicuramente un problema.
La situazione politica e la conseguente sfiducia del popolo, sono una delle cause della crisi demografica del paese, che vede sempre più giovani abbandonarlo per non farvi più ritorno, alimentando così un circolo vizioso che incatena il paese ad un passato doloroso non permettendogli di evolvere e riscattarsi.
Le divergenze politiche tra l’entità costituita dai bosgnacchi e croati, che guardano a occidente, e quella costituita dai serbo-bosniaci, che rivolgono lo sguardo alla Serbia e alla Russia, anche dopo la pace del 1995 non si sono attenuate e sono ancora oggi motivo di scontro e di preoccupazioni sul piano internazionale, soprattutto alla luce di quanto sta succedendo in Ucraina e della posizione che la Serbia di Aleksandar Vučić ha assunto nei confronti della Russia.