Con questo dossier sul Congo inizia una collaborazione fra SettimanaNews e la rivista culturale J’écris, je crie, a cui collaborano alcuni confratelli dehoniani delle province africane.
Version française ci-dessous
Ancora oggi, l’est della Repubblica Democratica del Congo, e più precisamente il territorio di Beni nella provincia del Nord Kivu e nella provincia di Ituri, continua a essere vittima di massacri dei suoi abitanti. In queste zone, come in altre della Repubblica Democratica del Congo, la gente vive nella paura della morte.
Va detto che la morte è naturale quando arriva naturalmente, ma qui stiamo parlando di una morte che nessuno potrebbe augurare a un altro essere umano, una morte che è disumana. Come ha scritto Thomas Hobbes, «l’uomo è diventato un lupo per l’uomo. L’uomo uccide l’uomo, l’uomo massacra l’uomo». Le poche immagini che stanno facendo il giro dei social network la dicono lunga.
Di fronte a questa situazione, la nostra rivista J’écris, je crie rompe il silenzio e scrive per portare l’eco di un grido soffocato; scrivere per gridare con un popolo sofferente. E così, attraverso la parola scritta, gridiamo per rompere la volta che oscura i nostri sogni.
La parola scritta… un grido
I mostri sono qui. Si sono insediati nella nostra tenda: decapitando uomini a colpi di machete, sventrando donne incinte, sgozzando bambini e bruciando le nostre capanne e le opere delle nostre mani, seminano terrore e desolazione. Questa è la realtà: i nostri villaggi e le nostre campagne sono bruciati e abbandonati, le nostre strade trasformate in fiumi di sangue, le nostre città ridotte a campi per sfollati.
Il male è qui; tutto è fatto per morire, tanto che lo spettro della morte prematura incombe sui nostri sogni. Tutto è diventato più incerto che mai, ogni giorno più incerto del giorno prima.
Tuttavia, contro questo destino che ci è stato imposto, uomini e donne in cui la speranza grida forte si battono affinché le migliaia di sopravvissuti sprofondati nella miseria, nell’indigenza e nell’indegnità, possano mangiare e sopravvivere nonostante tutto.
Albert Camus non diceva forse che non possiamo convivere così facilmente con un mondo che sembra così spesso ignorare la dignità umana? Di fronte alla brutalità e all’animosità di questi eventi, come si può non provare sentimenti di odio, ingiustizia, incomprensione, sconforto e rivolta che salgono dentro di noi?
E, se Camus aveva ragione, come possiamo rassegnarci o rimanere indifferenti senza mostrare viltà o complicità? Inoltre, in una situazione di ingiustizia, tacere significa scegliere di stare dalla parte del carnefice…
Quindi dobbiamo parlare, denunciare e anche gridare, se possibile. In effetti, siamo arrivati al punto in cui non ci sentiamo più in colpa. Da una parte, si muore come in un campo di sterminio, mentre, dall’altra, si susseguono le serate di festa.
Solo noi sappiamo quanti sono i morti. Sono morti che non hanno valore agli occhi del mondo, funerali che non vengono celebrati, requiem per anime fuggite da un luogo dove la pace è diventata un’utopia.
I giovani oltre il destino
È per questo che i giovani, rifiutandosi di credere al destino e osando sperare in un miglioramento nonostante tutto, hanno trasformato la loro vita in una rabbia impetuosa: città morte, marce pacifiche e/o colleriche, manifestazioni di indignazione, sono il loro pane quotidiano.
Il loro attaccamento alla vita e la loro fiducia nel futuro li spingono a gridare più forte affinché il mondo senta finalmente ciò che vuole sentire. Qui le parole hanno lasciato il posto alle grida. Sono anime che gridano, sangue che grida vendetta, migliaia di innocenti che chiedono giustizia.
E quando l’esistenza è ridotta a urlare, io scrivo. Scrivo per portare l’eco di un grido soffocato; scrivo per gridare con un popolo sofferente.
Sì, scrivo! E così, attraverso la mia scrittura, grido per rompere il velo che oscura i nostri sogni. Così, almeno per una volta, si potranno perforare i timpani di orecchie assordate dall’insensibilità e dall’indifferenza. Gridare, gridare, gridare: questo è ciò che ci resta; speriamo di essere ascoltati questa volta…
Version française
Jusqu’aujourd’hui l’Est de la République Démocratique du Congo, plus précisément le territoire de Beni dans la Province du Nord Kivu et dans la Province de l’Ituri, continu à être victime des massacres de leurs habitants. Dans ces milieux tout comme dans d’autres en République Démocratique du Congo, on vit avec la mort à côté, on vit dans la peur.
Il faut le dire, la mort est naturelle quand elle vient naturellement, mais ici nous parlons d’une mort qu’aucune personne ne peut souhaiter à un autre homme, une mort, on dirait inhumaine. Comme le disait Thomas Hobbes, « l’homme est devenu loup pour l’homme. L’homme tue l’homme, l’homme massacre l’homme ». Les quelques images qui font des tours sur les réseaux sociaux en disent beaucoup.
Devant cette situation, « J’écris, je crie », brise le silence et écris pour porter l’écho d’un cri étouffé ; écrire pour crier avec un peuple longtemps meurtri. Et ainsi par l’écrit, nous crions pour casser la voûte qui assombrit nos rêves.
Les monstres sont là. Ils ont élu domicile sous notre tente. Décapitant les hommes à coup de la machette, éventrant les femmes enceintes, égorgeant les enfants et brûlant nos cases et business, ils sèment terreur et désolation. Le contexte est devenu celui-ci : nos villages et campagnes sont incendiés et abandonnés, nos routes transformées en fleuves de sang, nos villes réduites en camps des déplacés. Le mal est là ; tout est fait pour mourir, tant le spectre d’une mort prématurée plane sans répit sur nos rêves.
Tout est devenu incertain comme jamais, chaque jour plus incertain que la veille. Cependant, contre ce sort nous imposé, des hommes et femmes en qui crie haut l’espérance, se battent pour que mangent ces milliers des rescapés plongés dans la misère, l’indigence et l’indignité et ainsi, qu’ils survivent malgré tout.
Albert Camus, dans La Peste, n’estimait-il pas qu’on ne peut s’accommoder si facilement d’un monde qui semble si souvent ignorer la dignité humaine ? Devant la brutalité et l’animosité de ces faits, comment en effet, ne pas sentir monter en soi les sentiments de haine, d’injustice, d’incompréhension, d’abattement ou de révolte ?
Et si Camus avait raison, comment se résigner ou rester indifférent sans faire preuve soit de lâcheté ou de complicité ? Au fait, en situation d’injustice se taire est un choix pour le côté du bourreau…
Ainsi donc, il faut parler, dénoncer et même crier, si possible. En effet, on en est parvenu à ne plus s’apitoyer sur notre sort. L’on meurt comme dans un mouroir de ce côté, alors que de l’autre côté, les soirées festives se succèdent. Nos morts, nous seuls en connaissons nombre. Ce sont des morts qui ne valent rien aux yeux du monde, des funérailles non célébrées, des requiem des âmes évadées d’un lieu où la paix est devenue une utopie.
Voilà pourquoi des jeunes gens, refusant de croire à la fatalité et osant malgré tout espérer mieux, ont fait de leur vie un ras-le-bol : villes mortes, marches pacifiques et/ou de colère et manifestations d’indignation sont leur pain quotidien. L’attachement à la vie et la foi à l’avenir les poussent à crier plus haut pour que finalement entende ce monde qui entend ce qu’il veut entendre. Ici, la parole a cédé place au cri. Ce sont ces âmes qui crient fort, ce sang qui crie vengeance, ces milliers d’innocents qui crient justice.
Et quand l’existence se réduit au cri, moi, j’écris. J’écris pour porter l’écho d’un cri étouffé ; j’écris pour crier avec un peuple longtemps meurtri. J’écris oui ! Et ainsi par mon écrit, je crie pour casser la voûte qui assombrit nos rêves. Ainsi, au moins pour une fois, le tympan des oreilles assourdies par l’insensibilité et l’indifférence pourra être percé. Crier, crier, crier : voilà ce qui nous reste ; pourvue que l’on nous entende cette fois-ci…
Carissimo fratello Yanick Nzanzu Maliro,
un grande abbraccio a te, a tutte le persone sopravvissute alla violenza, le vittime sono tutte strette nel grande abbraccio del Padre di Gesù Cristo che odia da sempre il male e la violenza, aspetta da sempre che l’uomo smetta la violenza, la sopraffazione, la guerra. È da sempre dalla parte delle vittime e con le vittime, l’unico a prendersene veramente cura accogliendole nella sua tenerezza amorosa ed eterna. Il Padre ha dato già la sua risposta alla violenza con Gesù Cristo che si è lasciato inchiodare in croce. Risposta incomprensibile per noi che vorremmo che tutti i violenti fossero annientati in un colpo solo. Mi chiedo se così fosse quanti rimarremmo sulla faccia della terra. Sintonizzarci con Dio Padre di Gesù Cristo è fondamentale. È un Padre che odia la malvagità ma non odia il malvagio. Ci sono delitti efferati, ignobili, indicibili compiuti da esseri che hanno abdicato a qualsiasi dignità umana assumendo indignità subumana. Tante volte penso che l’unico a non mollarli del tutto in questa indignità è il Padre di Gesù Cristo. Per quanto riguarda noi protagonisti dell’esistenza sulla faccia della terra ci sarebbe molto da dire:
1. Per troppo tempo sono stati chiamati grandi, uomini protagonisti di guerre e violenze, invece di chiamarli col loro vero nome: “subumani”.
2. Come faccio a godermi la vita nella mia nazione disinteressandomi di tanta gente che in qualche altra nazione del mondo subisce violenze e soprusi?
3. La chiesa istituzionale quante volte si è disintonizzata dal vangelo e sintonizzata col potere? Quante volte, però, figure di uomini santi hanno continuato a riflettere la luce di Cristo?
4. Oggi un cardinale della chiesa, disarmato, mandato dal papa, si è avviato verso il teatro della guerra russo-ucraina, per una missione di pace: ecco la chiesa di Cristo. Penso che nulla è impossibile all’Amore del Padre. Sosteniamolo con la preghiera. È il “la” perché la musica della pace di Cristo arrivi fino in Congo e si spanda a cancellare ogni violenza dalla faccia della terra.
Merci beaucoup pour ce profond message. Ça me va droit au cœur. Nous espérons, avec avec la grâce de Dieu, que la paix pourra finalement régner dans cette partie du monde longtemps meurtrie…
Très cher frère, je t’assure qu’à partir de maintenant chaque jour dans la prière devant le Seigneur je me souviendrai de toi et de beaucoup de bons Africains mortifiés par l’oppression et la violence. Un gros et cher câlin.