Il processo sinodale in corso non può fare a meno di accogliere la realtà delle molteplici vulnerabilità dentro e fuori la Chiesa. È in fondo la provocazione che papa Francesco ha lanciato ai referenti sinodali e ai Vescovi italiani lo scorso 25 maggio: “Il Sinodo ci chiama a diventare una Chiesa che cammina con gioia, con umiltà e con creatività dentro questo nostro tempo, nella consapevolezza che siamo tutti vulnerabili e abbiamo bisogno gli uni degli altri. E a me piacerebbe che, in un percorso sinodale, si prendesse sul serio questa parola “vulnerabilità” e si parlasse di questo, con senso di comunità, sulla vulnerabilità della Chiesa. E aggiungo: camminare cercando di generare vita, di moltiplicare la gioia, di non spegnere i fuochi che lo Spirito accende nei cuori”.
Questo inciso sulla vulnerabilità lo ha espresso nella terza consegna: essere una Chiesa aperta. Riecheggia qui il suo monito di Evangelii gaudium: “La Chiesa è chiamata ad essere la casa sempre aperta del Padre” (n. 47). Fu proprio il gesuita K. Rahner a chiarire il significato di una Chiesa aperta in Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance (1972). Il teologo tedesco, alla luce del Vaticano II, riteneva impensabile un ritorno nostalgico a forme ecclesiali obsolete (il famoso indietrismo di cui parla spesso papa Francesco): “non possiamo rimanere nel ghetto, né vi possiamo ritornare” (K. Rahner).
Questa uscita dal ghetto non prevede un’identità ecclesiale liquida, bensì rinnovata nella sua indole sinodale perché le vulnerabilità – lungi dal diventare bersaglio – sono occasioni di incontro tra persone che hanno bisogno gli uni degli altri. Essere aperti vuol dire accettare il rischio di essere anche vulnerabili: camminare in atteggiamento di costante confronto senza sottrarsi alle sfide della storia.
La parola stessa vulnerabilità (dal latino vulnus, ferita) evoca la possibilità di essere feriti dalla realtà e dagli altri: l’essere vulnerabili ha a che fare con il bisogno stesso di cura che è racchiuso in ogni essere umano. Un bisogno che lo stesso Gesù ha voluto condividere assumendo, senza sconti, la natura umana con la sua carica vulnerabile: “Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma della sua debolezza” (D. Bonhoeffer).
Il processo sinodale non ha solo il compito di ascoltare le ferite dei delusi e dei lontani (a volte implicitamente allontanati), ma di ricostruire il senso di comunità a partire da queste ferite: affinché l’elemento relazionale nella Chiesa venga liberato da facili idealismi che le tolgono vita e dinamicità. La vulnerabilità costituisce allora la precondizione personale e strutturale della Chiesa sinodale che, se accolta, mi permette di vivere con serenità il bisogno dell’altro senza approcci o stili autoreferenziali.
Inoltre la vulnerabilità richiede di essere accolta quale dimensione essenziale della Chiesa che non vive per sé stessa, ma per il Padre e per testimoniare la sua stessa misericordia. In questo senso le vulnerabilità possono diventare occasioni di incontro e sentieri di umanizzazione tra i cristiani.
Fino a quando la vulnerabilità rimarrà ostaggio di una morale cristiana in prospettiva legalistica (che a volte degenera nell’ipocrisia), non ci sarà spazio per tutti nella comunità ecclesiale, ma le vulnerabilità saranno bersaglio continuo di fazioni, rancori e subdole vendette.
L’antropologo Stefano De Matteis si lascia suggestionare dall’aragosta per descrivere il valore trasformativo della vulnerabilità: “Il dilemma dell’aragosta sta proprio in questo: lasciare le proprie corazze, capire quanto sono provvisorie, smettere di trincerarsi in quelle certezze che oramai procurano solo sofferenze ed esporsi al rischio, avendo il coraggio e la forza di scegliere la vulnerabilità. Vulnerabilità che si rivela un momento di estrema e fondamentale forza. Un passaggio decisivo. Perché produce il cambiamento e prelude alla ricostruzione di una nuova vita” (Il dilemma dell’aragosta. La forza della vulnerabilità, p. 9, Stefano De Matteis).
A mo’ d’esempio, citiamo solo il caso presbiterale. Una Chiesa sinodale necessita l’integrazione della vulnerabilità nella teologia del sacramento dell’ordine e nel ministero presbiterale per superare definitivamente l’impostazione clericocentrica. Il modello sacrale e infallibile del prete, infatti, cela una considerazione da parte della comunità e dell’opinione pubblica altamente rischiosa, in cui non c’è posto per la vulnerabilità nel vissuto umano del presbitero.
Talora le attese delle comunità ecclesiali generano un modello presbiterale alieno da ogni debolezza, purché sia capace, sempre e comunque, di scelte chiare e di relazioni integerrime. Non c’è peggior omissione per la Chiesa che non accogliere la sfida della vulnerabilità: occasione sprecata negli incroci delle esistenze umane e nelle contraddizioni di ogni tempo.
Nella chiesa clericale il ruolo di mediazione spetta al prete, che rappresenta Cristo, e quindi la somiglianza porta a dire che il prete non sbaglia e non commette errori e peccati, invece in realtà il prete pecca e sbaglia ed ha bisogno del resto della comunità cristiana per camminare verso la santità. La vulnerabilità di ogni membro della Chiesa ci porta a dire che tutto il Corpo di Cristo, l’intera Chiesa celebra ed ha il ruolo di mediazione (CCC n.1140 e LG n.10). Certo ogni persona ha un ruolo diverso, ma la pienezza del sacerdozio appartiene all’intero Corpo di Cristo e non ad acune sue membra.