Abbiamo chiesto ad Anna Zafesova, giornalista de La Stampa, una lettura politica dell’atto di trasferimento dell’icona della Santissima Trinità di Rublëv dallo Stato al Patriarcato di Mosca, con le prime conseguenze rilevate.
- Anna, quanto è importante l’icona della Trinità di Andrej Rublëv in Russia, da un punto di vista puramente laico?
L’icona della Trinità è considerata l’apice della maestria della pittura religiosa russo-ortodossa, quindi della pittura russa in quanto tale. Si tratta di una acquisizione relativamente recente, assunta nel corso del XX secolo.
Sino alla rivoluzione di ottobre l’icona si trovava nella cattedrale della Trinità del monastero di San Sergio di Radonez – la lavra di San Sergio – centro della religiosità russo ortodossa dal tempo del rinascimento russo seguito alla invasione dei tartari, come magistralmente mostrato dal film di Andrej Tarkovskij, Andrej Rublëv, appunto.
Per qualche secolo è stata esposta ricoperta – come era consuetudine del tempo – da una pesante decorazione d’argento, da cui affioravano solo i volti e le mani dei tre angeli. In cattedrale, la tavola del dipinto è stata per lunghi anni sottoposta quindi a notevoli “aggressioni” fisiche, da stress climatici, fumi dei ceri, dallo stesso respiro dei fedeli.
Solo all’inizio del XX secolo è stata “liberata” dal rivestimento e restaurata per decisione delle autorità comuniste sovietiche. Si può dire che solo allora sia iniziato lo studio serio dell’arte religiosa russa e la sua valorizzazione in chiave nazionale e – diciamo – laica.
Dal 1929 l’icona è esposta alla Galleria Tretyakov di Mosca.
- Sta dunque avvenendo la restituzione dell’icona-simbolo, dallo Stato laico alla Chiesa?
Indubbiamente – da quasi cent’anni – il Patriarcato rivendicava l’icona per riportarla alla sua sede storica, nella cattedrale di San Sergio. La decisione del Presidente – peraltro arbitraria dal punto di vista della stessa legge russa – marca la risposta dello Stato all’istanza della Chiesa e sembra così chiudere il dibattito in corso da molti anni, in Russia, circa la legittimità dello Stato a custodire opere d’arte nate per il culto religioso.
Questa è la risposta – direi quasi personale – che Vladimir Putin ha voluto dare in questo momento: un’opera religiosa non può che stare in una chiesa, per essere esposta al culto dei fedeli, anche se ciò comporta toglierla dalla vista e dalla ammirazione di un pubblico ben più ampio di cittadini e di turisti da ogni parte del mondo; e, probabilmente, comprometterne lo stato di conservazione.
- Qual è il problema di conservazione che lei vede?
Nella Galleria Tretyakov l’icona è tuttora esposta in una teca sigillata a parametri (di temperatura, umidità, ecc.) controllati, come avviene per tutte le grandi opere da conservare nel migliore dei modi.
Dal 1929, una sola volta, nel 1941, l’icona della Trinità è uscita dalla Galleria, insieme agli altri tesori, per l’evidente ragione di sottrarla agli invasori nazisti.
Ma già l’anno scorso il Patriarcato aveva trovato soddisfazione, almeno in parte, alle proprie istanze: nell’anniversario della canonizzazione di San Sergio, l’icona è stata esposta per 6 mesi nel monastero per volere del Cremlino, contrariamente al parere della direzione del museo. L’opera è rientrata, secondo gli esperti, con 61 danni rilevanti, tanto da dover subire un “ricondizionamento” prima di essere nuovamente esposta per i visitatori della Galleria.
Molti specialisti sostengono dunque che un’opera così antica e così delicata non potrà “sopravvivere” a lungo nell’ambiente climatico della cattedrale, anche se la gerarchia ecclesiale si sta affrettando a dire che l’icona sarà certamente ben conservata, con le giuste tecniche.
Il provvedimento che determinerà il trasferimento è del tutto singolare anche per la legislazione russa: neppure il Presidente avrebbe potuto disporre, a sua discrezione, di un patrimonio artistico che è di tutti i russi. Ma ormai Putin può permettersi qualsiasi cosa. Immagino ci sia comunque qualche questione legale da sistemare.
Il decreto presidenziale prevede che l’icona sia dapprima esposta al culto dei fedeli, per un mese, in cattedrale, quindi posta nella sua sede definitiva. Tale sede dovrà essere, nel frattempo, preparata.
Il sarcofago di Nevsky
- L’icona della Trinità di Andrej Rublëv è l’unico caso?
Lo stesso decreto presidenziale riguarda il sarcofago di Alexander Nevsky che passerà dalla proprietà pubblica alla proprietà del Patriarcato. È conservato all’Ermitage.
È un’opera di grande valore, se non altro perché si tratta di una tonnellata e mezzo di argento puro. Ha valore artistico perché è un’opera molto elaborata, di gusto barocco europeo, ma ha soprattutto un valore religioso perché ha contenuto le reliquie, appunto, di Alexander Nevsky, proclmatao Santo dalla Chiesa ortodossa.
- Perché Alexander Nevsky è così importante?
Sono una politologa laica e mi limito a considerazioni di tale natura: non so dire della santità di Alexander Nevsky. Certamente è una figura molto funzionale alla visione del mondo russo – del Russkij Mir – coltivata sia dal Patriarca sia dal Presidente in Russia.
Nevsky è il simbolo del guerriero combattente della resistenza russa alla invasione degli europei; è l’eroe nazionale che ha respinto i cavalieri teutonici al di fuori dei limiti della nazione nascente, il precursore delle conquiste delle terre finlandesi e svedesi da parte di Pietro I, imperatore. Il periodo sovietico ha reso ad Alexander Nevsky un culto molto laico, se così si può dire. Quello religioso si è concentrato – dai primi anni del XVIII secolo – a Pietroburgo, nell’altra importante lavra, quella dedicata, appunto, ad Alexander Nevsky.
Icona merce di scambio
- Qual è la lettura politica complessiva che lei dà delle due donazioni?
La lettura è piuttosto evidente: si tratta di uno scambio di favori tra il Presidente e il Patriarca.
Come noto, il Patriarca Kirill ha scelto di sostenere, senza riserve, la guerra di aggressione della Russia sull’Ucraina – contro l’Occidente – voluta dal Presidente Putin. Tutti i discorsi e le preghiere pronunciate dal Patriarca – dal febbraio dell’anno scorso ad oggi – vanno nella stessa direzione, senza tentennamenti.
L’intesa – anche personale – è evidentemente molto forte. La guerra in atto viene presentata, da entrambe le figure, come una guerra inevitabile, giusta e persino santa, per difendere i valori tradizionali dei russi in opposizione ai costumi corrotti dell’occidente.
- Secondo lei, al di là della opportunità politica, come la pensa Putin in fatto di religione?
Posso esprimere un parere del tutto personale, senza uscire troppo dal mio ambito di competenza: secondo me, nell’uomo Putin – inseparabile dall’uomo politico Putin – c’è una componente di religiosità arcaica, semplice e popolare che, dal mio punto di vista, non può che toccare la superstizione.
Ricordo che persino Stalin, nel momento di massima difficoltà della guerra, nel 1942, si è in qualche modo appellato alla Chiesa russa (restituendo chiese e monasteri) e forse – chissà -, anche lui, si è rivolto al “cielo”. Secondo me, qualcosa di simile – ma in maniera molto più evidente – sta avvenendo in Putin. In questo senso, l’atto di donazione, denota il momento di grande difficoltà – personale e politica – che Putin sta vivendo.
- Putin non ha alcuna difficoltà a mostrare la sua religiosità in pubblico
Sicuramente: Putin manifesta in maniera – direi – crescente una religiosità di stampo credente ortodosso, quale difensore dei valori cristiani tradizionali.
Più volte l’ho sentito pronunciare, in questi anni, frasi del tipo “Dio mi ha sempre guidato”. In una intervista di qualche tempo fa, alla domanda classica del giornalista della propaganda che gli chiedeva se avesse qualcosa di cui rimproverarsi, ha risposto che “Dio lo ha sempre guidato sulla strada giusta”.
- Nella decisione di restituire alla Chiesa l’icona della Trinità c’è, dunque, qualcosa di più di un atto opportunistico?
Nel decreto, Putin ha posto una motivazione: “per rispondere alle molteplici richieste dei credenti”. Non posso affatto escludere che egli stesso si senta tra questi credenti, nel momento della difficoltà di una guerra che sarà probabilmente persa; anche lui si sta rivolgendo, a suo modo, al “cielo”.
- Questo atto nega la laicità della Federazione Russa?
È esattamente ciò che ho messo in evidenza in altri interventi. Questo atto segna, secondo me, una svolta nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Russia, mettendo radicalmente in discussione la laicità della Federazione dichiarata dalla costituzione.
Anno dopo anno, i benefici della Chiesa ortodossa incrementano, la Chiesa sta entrando sempre più nelle scuole e nelle università, sono state istituite cattedre di teologia nelle accademie militari, c’è una presenza ormai costante, fisica, dei sacerdoti ortodossi accanto al Presidente – specie quando si tratta di inaugurare mezzi e ordigni militari -, i cappellani sono capillarmente presenti nelle formazioni militari; il discorso politico è sempre più intriso di atteggiamenti religiosi di sola parte ortodossa. Questi sono dati di fatto.
Religiosità russa
- Tanta manifestazione di religiosità fa effettivamente presa sulla gente? Motiva alla guerra?
Poco meno di un mese fa – l’abbiamo visto – Putin si è recato al fronte, in Ucraina, tra i soldati a corto di munizioni. È arrivato con una piccola icona del Cristo Redentore. L’ha baciata e l’ha donata ai militari.
Da allora – così almeno dicono le agenzie di stampa – l’icona viene portata al culto dei soldati accovacciati nelle trincee, alla vigilia, peraltro, della annunciata controffensiva ucraina. Putin non è andato al fronte con le munizioni (che evidentemente non aveva), bensì è arrivato con l’icona, per motivare i soldati a combattere: secondo lui, questo poteva avere effetto.
Cerco di calarmi poi nella religiosità o nella credenza del popolo russo. È capitato anche a me, in passato, di vedere code chilometriche di fedeli in attesa di entrare nella cattedrale del Redentore di Mosca per rendere culto alle reliquie dei santi.
La loro religiosità è, oltre che molto tradizionale, molto semplice e – direi – molto fisica, pragmatica, almeno dal mio punto di vista: questi fedeli toccano e baciano gli oggetti di culto con la convinzione di ottenere qualcosa. Dobbiamo pensare, del resto, a ciò che è sopravvissuto a 70 anni di comunismo: una religiosità ben poco – teologicamente e culturalmente – informata.
Un effetto – almeno in una parte della popolazione – evidentemente c’è. D’altro canto, penso pure che ci sia un effetto opposto, di irritazione: molti soldati aspettavano certamente le munizioni, non l’icona.
- Lei lo ha ricordato lei poco fa: in Russia ci sono tante appartenenze confessionali e religiose. Al fronte non ci sono soltanto soldati russi ortodossi. Qual è la reazione dei musulmani piuttosto che dei buddisti?
Certo, al fronte c’è una forte componente di militari musulmani e buddisti. I buriati sono buddisti e i ceceni sono musulmani.
Alcuni leader religiosi di queste comunità avevano avuto modo – in passato – di esprimere perplessità e riserve circa la propaganda del mondo russo cristiano ortodosso e, poi, sulla guerra in Ucraina. La domanda viene da sé: perché queste comunità dovrebbero aderirvi ed andare a combattere senza appartenere appieno a questo mondo, con la conseguenza, sempre più certa, di essere considerate comunità di cittadini di seconda o di terza categoria?
Nell’impero dei Romanov le nazionalità venivano attribuite su base religiosa e gli ebrei – se volevano essere russi – dovevano convertirsi alla ortodossia cristiana. Le minoranze non possono che temere il ritorno a quel passato, insieme a gran parte della popolazione della Russia moderna che certamente non condivide questi arcaismi.
- I leader delle comunità religiose minoritarie non stanno, tuttavia, contestando il mondo russo e la guerra. È così?
Certo. I leader ufficiali sono allineati: non potrebbero altrimenti rimanere al loro posto. Tutti i leader sono sottoposti alla tradizione sovietica – o semplicemente alla tradizione autoritaria – di controllo delle confessioni e delle appartenenze religiose. I rabbini ebrei più critici, ad esempio, se ne sono andati e sono stati sostituiti da altri più allineati; la stessa cosa si può dire di diversi muftì musulmani.
Ma ciò non vuol dire che non esistano tensioni interreligiose, che la guerra, peraltro, sta amplificando. Alle minoranze viene chiesto di omologarsi e di sottomettersi ai russi. Questo non può non produrre tensioni.
- Tra le diocesi ortodosse della Russia, in tempo di guerra, sta circolando una icona di San Giorgio. Perché proprio San Giorgio?
La mia risposta, ancora una volta, non è e non vuol essere di natura religiosa o teologica. Per rispondere, faccio l’esempio del monumento memoriale della vittoria sul nazismo, uno dei luoghi chiave della narrazione “putiniana”: ebbene, in questo luogo molto laico, costruito ancor prima che Putin si insediasse al Cremlino, c’è un’icona classica di San Giorgio e il drago, di dubbia qualità artistica, ma soprattutto di discussa idoneità al contesto. San Giorgio – probabilmente suo malgrado, non lo so – passa per un santo bellicoso, molto adatto al culto in tempo di guerra.
Non mi stupisce, quindi, che una sua icona stia circolando per diocesi e parrocchie: corrisponde alla guida e al controllo che il Patriarcato sta esercitando sulle chiese.
Resistenze
- Ha notizie di nuove sospensioni di preti e di diaconi dagli uffici religiosi, tuttora?
Anche recentemente, qualche sacerdote è stato sospeso, perché, ad esempio, si è permesso di mutare qualche termine – «pace» anziché «vittoria» – nella preghiera composta, allo scopo, dal Patriarca.
Voglio qui citare – per inciso – la figura coraggiosa di padre Andrej Kuariëv, un intellettuale ortodosso che sta sviluppando una critica molto puntuale (e molto sgradita al Patriarcato) attraverso la rete. È stato quindi bollato quale “agente straniero” dalle autorità secolari; naturalmente è stato sospeso e interdetto dagli uffici religiosi.
Ma il caso più recente e, per me, davvero eclatante è quello del padre Lionin Kalinin, ed ha a che fare proprio con la vicenda della icona della Trinità. Padre Kalinin – figura altolocata della gerarchia – capo del consiglio di esperti d’arte del Patriarcato, si è espresso in maniera critica circa il trasferimento della tavola di Rublëv in assenza delle dovute garanzie di conservazione. Ebbene – è notizia di pochissimi giorni fa – il padre è stato rimosso dal Patriarca, sia nel ruolo tecnico che stava rivestendo, sia, soprattutto, dall’ufficio religioso presso la parrocchia di San Clemente presso cui prestava il suo servizio.
L’aspetto, a mio giudizio ancor più paradossale e grave, è che padre Kalinin abbia formulato – o abbia dovuto formulare – una sorta di dichiarazione di pentimento nella quale afferma che “il Patriarca, come un’aquila, vede più lontano perché ha visto che il popolo, in questo momento, ha bisogno di questa icona”, come che sia, confermando, convintamente o meno, una visione religiosa che, per quanto mi riguarda, sfiora il paganesimo.
Questi e molti altri segnali mostrano, secondo me molto chiaramente, un deciso allontanamento da quello che era a tutti apparso, nel primo periodo post-sovietico, il modello seguito anche dalla Russia, nel verso di una distinzione netta dei poteri, secolare e spirituale. Mentre ora il modello torna ad essere soltanto quello del lontano passato.