Con una concomitanza assolutamente casuale, sia in Italia sia in Francia si torna a parlare e a mettere a tema l’antigiudaismo cristiano. Ha suscitato reazioni, pur senza clamore, l’uscita nelle sale italiane del film di Bellocchio Rapito. Alla luce delle recensioni del film, il rabbino Di Segni ha sottolineato come quelle che cercavano di giustificare a tutti costi l’agire del papa nel caso del bambino ebreo battezzato e rapito fossero il segno di un sentimento antigiudeo ancora presente, che facilmente si salda con il pensiero antisemita.
Le polemiche, e anche le reazioni giustamente scandalizzate per un’azione che oggi appare impensabile, denunciano però la comune sottovalutazione, se non l’ignoranza, della svolta indicata dal Concilio Vaticano II. Ennesima conferma di una recezione tutta da compiere.
Il testo dei vescovi francesi
Nel frattempo, in Francia, è uscito in questo mese il libro Déconstruire l’antijudaïsme chrétien, pubblicato dalla Conferenza dei vescovi francesi nel febbraio 2021 con prefazione del Gran Rabbino di Francia Haïm Korsia e a cura del vescovo Éric de Moulins-Beaufort.
Prima di addentrarci nella presentazione del volume, è importante sottolineare il fatto: che si decida cioè di decostruire un sentimento antisemita di cui si riconosce la pervasività. Il volume, infatti, è rivolto a un lettore non specialista e si caratterizza per chiarezza metodologica e contenutistica.
Sono testimonianza dell’intento pedagogico le molte appendici dedicate a: lo sviluppo del magistero, la distinzione tra antigiudaismo, antisemitismo e antisionismo, e la breve cronologia storica «dell’antigiudaismo cristiano» (nostra traduzione), la dichiarazione Nostra aetate 4, i cambiamenti introdotti dal Concilio Vaticano II in ordine al tema e, infine, l’illustrazione dei rapporti tra Santa Sede e Israele. Questa varietà e ampiezza di temi testimonia che i vescovi francesi non hanno voluto tralasciare nessun aspetto in cui si può manifestare l’antigiudaismo cristiano.
I venti capitoli prendono l’avvio da alcune domande circa la lettura dell’Antico Testamento e il suo rapporto con il Nuovo. Sono le domande più classiche che ancora oggi si sentono fare. D’altra parte, sono anche luoghi in cui spesso la predicazione o è poco precisa o è, alla sua radice, ancora attraversata da forme di marcionismo, dottrina che rifiutava ogni interpretazione cristiana dell’AT.
I capitoletti sono brevi e hanno sempre una chiara conclusione. È scontato che non facciano affermazioni assolutamente nuove, soprattutto per chi in qualche modo è attento al tema. Tuttavia, la chiarezza e una certa attenzione a essere «forti» nella risposta aiuta davvero a intraprendere un cammino all’altezza del Concilio.
Deciso nell’anno di due attentati per mano musulmana e nell’anno della Fratelli tutti, il documento vuole essere un primo passo per una vita di vera fraternità tra i popoli e le religioni che «tenga insieme libertà d’espressione e rispetto fraterno dell’altro» (144).
La conferenza episcopale si è comunque sentita interpellata ad affrontare il tema dell’antisemitismo, che sta risorgendo in Francia (144). Il documento non approfondisce il legame, ma testimonia un atteggiamento: decostruire i luoghi in cui può radicarsi nel cattolicesimo un pensiero violento. Si tratta di «guarire dall’antisemitismo e dall’antigiudaismo» (145) per dare vita a una società veramente fraterna e universale (145). E la resistenza comincia prima di tutto a livello spirituale.
I capitoli più impegnativi
Nel primo capitolo, si affronta il tema della differenza del Dio dell’Antico Testamento che sarebbe violento a fronte del volto amorevole presentato dal Nuovo Testamento. Mentre sottolinea la continuità tra i due Testamenti, il documento afferma come sia presente un certo modo di leggere le Scritture che oppone, ancora, le due dimensioni.
Il testo dei vescovi francesi suggerisce l’importanza del metodo di lettura e si ricollega alla Dei Verbum. La Storia sacra va letta nella sua totalità; nessun passaggio può essere scartato e tutti trovano un riflesso nella nostra vita.
La presa di distanza da «un’esegesi antica, ma contestabile» è ripresa più avanti (35). Il testo esprime libertà di spirito, ma soprattutto attrezza il lettore, spesso tacitato in nome della tradizione (con la «t» minuscola).
Dopo aver affrontato la continuità tra la Torah, la Legge ebraica e l’atteggiamento di Gesù in ordine ad essa, il testo dichiara che accomplissement (= realizzazione) non significa achevement (= completamento) (29).
A partire dalla Pasqua di Gesù si comprende come egli porti a compimento, perché la morte di Gesù si compie all’interno della Legge di Dio. Questo compimento, però, non porta a termine la Legge, non ne chiude la storia. In particolare la conclusione del capitolo dedicato alla continuità della Legge dell’amore tra i due Testamenti ne sottolinea la centralità per i due popoli e conclude che «il legame fraterno con il popolo ebraico è un luogo di verifica della nostra comprensione della fede cristiana» (32).
L’alleanza e i testi presenti nell’AT che aprono la via al NT sono patrimonio comune. In questo capitolo troviamo un’affermazione che provoca il lettore: ricordando le fonti evangeliche delle parole della consacrazione pronunciate durante la celebrazione eucaristica, il testo sottolinea il ruolo della liturgia nell’unire «l’alleanza nuova e l’alleanza eterna» (quella di cui vive Israele, ndr).
L’incontro tra le due alleanze – «un dialogo all’interno della Chiesa tra la prima e la seconda parte della nostra Bibbia» – è occasione di un dialogo tra la Chiesa cristiana di oggi con il popolo di Mosè (39). La profondità di questo incontro è segnalata dal testo attraverso l’attenzione e il rispetto con cui esso indica le esigenze di santità che comporta l’elezione del popolo di Israele (42): la sua fedeltà ha consegnato a noi l’Antico Testamento. Ma non è solo un passato. Lo ricordava Giovanni Paolo II: «la fede e la vita religiosa del popolo ebraico, come sono professate e vissute ancora oggi, (possono) aiutarci a comprendere meglio alcuni aspetti della vita della Chiesa». È il caso della liturgia (66).
Così il dialogo tra cristiani e ebrei, più che interreligioso, è «interfamiliare» e la conoscenza dell’ebraismo e degli ebrei, così come essi si comprendono, è per i cristiani un compito umano spirituale e teologico (66).
Con realismo il documento non tralascia neppure l’accusa di deicidio. Se, da una parte, il testo riprende diverse affermazioni ebraiche e cristiane che ridimensionano il ruolo di tutto il popolo e che contestano la possibilità di rivolgere ai successori la medesima accusa, dall’altra, mostra con forza come mantenere l’accusa porti a scivolare in una posizione di vendetta del tutto inaccettabile.
Chiudere definitivamente con il passato
Alla luce del permanere di questa accusa lungo molti secoli, si rende necessario costruire un rapporto di riconciliazione. Il testo richiama la gravità di tante affermazioni antigiudaiche e di antisemitismo, ma soprattutto indica con forza le responsabilità del popolo cristiano. Benché la Chiesa francese abbia già chiesto perdono per la l’antisemitismo con la Dichiarazione di Drancy nel 1997, ancora nel 2023 i vescovi francesi si sentono in dovere di ritornare sul tema. È una questione certamente dolorosa. Si tratta di rispondere alla domanda: cosa hai fatto a tuo fratello? E deve diventare un incitamento a vivere la fraternità.
Dopo alcune pagine in cui si dà conto di letture esegetiche e storiche più avvertite dei passaggi in cui gli stessi testi evangelici danno l’impressione di accusare gli ebrei, il testo si sofferma sull’esigenza del dialogo tra i due popoli. Dialogo che non è una scelta, ma un dovere teologico (79), e deve essere fatto di reciproca e familiare testimonianza, lontana, da parte cristiana, da ogni forma di proselitismo e da ogni sostituzionismo.
Da qui può nascere una testimonianza comune che rispetti gli uomini e le donne, creati a immagine di Dio, affinché ci sia Pace.
Un testo dunque – quello dei vescovi francesi – che può aiutare i credenti a rispondere alle domande e alle letture di tono antigiudaico più diffuse e a scoprire ancora una volta le radici giudaiche della fede cristiana, e di Gesù stesso. Il libro invita a tradurre tutto questo in uno stile di vita cristiana, consapevole della storia del dolore dei fratelli e delle sorelle.
Leggiamo nella conclusione dell’opera: «Riconoscere questa fraternità ferita dall’antigiudaismo e dall’antisemitismo della Chiesa non è sufficiente. Il vangelo ci esorta a non sorvolare: “e se tu sai che tuo fratello ha qualcosa contro di te, vai prima a riconciliarti con lui” (Mt 4,23)» (20).
La storia della Francia rende ragione di un intervento così deciso a intaccare le radici dell’antigiudaismo. Ma non è l’unica storia. In Italia la coscienza della devastazione dovuta alle leggi antisemite è più debole e, di conseguenza, si è ancora troppo indulgenti con affermazioni di tipo antigiudaico.
Non ci si può che rallegrare di tale cammino di approfondimento da parte cristiana sul suo rapporto complesso e per certi aspetti ancora ambivalente con l’ebraismo. Resta da chiedersi (a mio avviso) quanto tale approfondimento incida realmente sulla sensibilità e il vissuto delle persone, sia innanzitutto tra i cristiani sia tra gli stessi ebrei. Ho impressione che molto resti a livello di dichiarazioni di principio e di pubblicazione di documenti (sulla cui reale diffusione e ricezione occorrerebbe pure interrogarsi). Ad ogni modo, si tratta (a mio avviso) di iniziative necessarie e opportune, specie se pongono le premesse di una reciproca e sincera conoscenza tra ebrei e cristiani