In questi ultimi giorni la teologia si è sentita particolarmente interpellata da due fatti che mostrano, qualora ve ne fosse bisogno, quello che uno dei più grandi teologi del XX secolo, Henri Marie de Lubac, chiamava “il paradosso della Chiesa”.
Giorni or sono abbiamo appreso, non senza costernazione, il fatto che ad uno stimato collega, come Martin M. Lintner, dal Dicastero (che brutta parola per un organismo ecclesiale) per la Cultura e l’Educazione è stata vietata la nomina a preside dello Studio Accademico Teologico di Bressanone, per la quale era stato eletto dagli organi collegiali di quella istituzione.
Motivazioni e loro trasparenza non pervenute, se non in termini tanto generici quanto irrisibili. Ciò che dovrebbe far sorridere, ma di fatto inquieta, è il fatto che una tale sorte era toccata al neo-prefetto di quello che, alla luce della Praedicate Evangelium, si denomina oggi “Dicastero per la Dottrina della Fede”.
Infatti, gli era stata a suo tempo negata la possibilità di accedere al ruolo di Rettore dell’Università cattolica argentina, nulla osta successivamente concesso si ipotizza per intervento del primate di quella nazione: il cardinal Bergoglio.
Forse, i casi sono diversi, ma a nessuno sfugge l’analogia, che, come sappiamo, vede prevalere la dissomiglianza sulla somiglianza, mentre dà a pensare.
Il teologo e il dicastero
Di fronte all’irrompere di questa nomina, qualche teologo di corte potrebbe facilmente precipitarsi a conferire patente di accesso al nuovo superiore a fronte del fatto che qualche vaticanista si è fatto carico di evidenziare i limiti teologici e scientifici delle sue pubblicazioni, negandone appunto la congruenza.
Ma questo fa parte del girotondo mediatico, dal quale vorremmo prendere le distanze, offrendo qualche spunto di riflessione ulteriore.
In primo luogo, mi sembra di essere di fronte a persona che più che all’argomentazione concettuale fa ricorso all’intuizione, cui accompagna l’attenzione all’emozione: due dimensioni che la teologia occidentale ha spesso eluso e che, per una sorta di “risentimento”, tornano sul tappeto.
Ma a questo riguardo è interessante notare come, nelle due circostanze e figure evocate, la teologia di lingua tedesca incroci e incontri quella di lingua e cultura latino-americana, il che si è verificato anche agli albori della “teologia della liberazione” (pensiamo al suo rapporto col pensiero di Johann Baptist Metz).
A tal proposito, mi sembra necessario e urgente richiamare una chiave di lettura soggiacente a questa scelta del papa e alla figura dell’arcivescovo Víctor Manuel Fernández. Infatti, se è vero, e non ho motivo per dubitarne, che da teologo ha esercitato un ruolo decisivo in occasione della quinta Conferenza generale dell’episcopato latino-americano e dei Caraibi, tenutasi ad Aparecida nel maggio del 2007, lo studio attento non solo del documento finale, ma del processo che lo ha generato, ci pone di fronte a una metodologia tutt’altro che obsoleta.
Se, in un primo momento, la descrizione del contesto e della situazione dei popoli di quelle terre era affidata ad un’analisi di tipo sociologico, cui sarebbe seguita la riflessione teologica, la svolta si è verificata nel momento in cui il card. Bergoglio, coadiuvato dal teologo Fernández, hanno proposto una lettura della realtà, con quelli che, insieme a Pierre Rousselot, possiamo chiamare “gli occhi della fede”.
Del resto, non si da mai una lettura neutrale delle situazioni umane, che la comunità credente legge e interpreta a partire dall’Evangelo. Si tratta, come enuncia il documento, dello «sguardo sulla realtà dei discepoli missionari».
Tale prospettiva ha consentito di non perdere nulla delle acquisizioni della “teologia della liberazione”, inquadrandole nel contesto proprio della scienza teologica, che è la fede. Nessuna meraviglia quindi, se papa Benedetto, nella lettera del 29 giugno del 2007, ha introdotto e apprezzato queste conclusioni, con buona pace di chi vede in questa nomina una rottura fra i due pontificati.
Tornando all’oggi, la sfida dunque sarebbe quella di compiere un’operazione analoga, contribuendo alla riforma della curia e del “dicastero” ispirata dalla necessità di un cambiamento di rotta, che tuttavia non perda nulla del passato nelle sue espressioni più autentiche.
Lo sappiamo e lo diciamo da sempre: la salvaguardia non è quella delle formule dottrinali, ma della fede, per il semplice motivo che l’atto credente non si rivolge al dettato, ma alla cosa stessa, parola di Tommaso d’Aquino, che trova perfetta corrispondenza nella teoria dell’“assenso reale” di John Henry Newman. È qui il grande paradosso e la sfida che ci è di fronte: se la fede è un atto e un accadimento dinamico, come può essere custodita, se non riconoscendole tali prerogative?
A tal proposito l’avvicendamento fra figure apicali di un dicastero ovviamente non basta, piuttosto ci sarà bisogno di una squadra che sappia fare rete, perché il sogno di un Vangelo vivente nella Chiesa cattolica, di cui siamo figli, possa avverarsi.
Eu não acredito que a oposição à doutrina moral da Igreja possa gerar progresso doutrinal. Um legítimo progresso doutrinal é fruto de uma decantação que acontece com o tempo. Este progresso não deve conduzir o teólogo à uma relativização da doutrina moral da Igreja como se a doutrina fosse constantemente instável. Não. A doutrina moral da Igreja tem uma tradição sólida e respeitável graças à assistência divina. Um bom historiador sabe que algumas posições da Igreja do passado devem ser compreendidas dentro de um contexto histórico e que, somente o tempo fez com que fosse possível efetuar um discernimento e, depois de aprofundados estudos, chegar a um verdadeiro progresso doutrinal. Isso não significa que o Magistério da Igreja possa enganar-se habitualmente e também não significa que a doutrina da Igreja é fruto de uma opinião teológica instável entre outras. Além disso, é preciso verificar qual é o grau de autoridade das afirmações do Magistério, considerando a índole dos documentos, a frequente repetição de uma mesma doutrina e a própria maneira de se exprimir (Concílio Vaticano II: Lumen gentium, 25). Os ensinamentos não definitivos do Magistério também não são isentos de assistência divina e por isso o teólogo deve respeitar estes ensinamentos com “religioso obséquio de inteligência e vontade” (Cânon 752 do Direito Canônico; Catecismo da Igreja Católica nº 892). Alguns de seus colegas teólogos (por exemplo, o Sr. Andrea Grillo) propõem a abolição deste cânon 752 na intenção de libertar os teólogos daquilo que eles consideram uma arrogância do Magistério. Na realidade, quando o Magistério adverte um teólogo sobre algum desvio doutrinal (de fé ou moral), isso deve ser entendido dentro da correção fraterna (Mateus 18,15) porque a liberdade do teólogo tem um vínculo necessário com a verdade (João 8,32) que o Magistério da Igreja tem o dever de preservar e promover. Portanto, a liberdade do teólogo não justifica a relativização da doutrina moral da Igreja e nem uma licença para trair seu juramento de ofício que inclui respeitar as diretrizes objetivas da doutrina católica que o Magistério apresenta. Em relação ao processo sinodal, ele não é uma autorização à indisciplina em vista de um progresso doutrinal, mas deve estimular um diálogo respeitoso entre as partes. Além disso, o Sínodo não busca opinião de uma maioria, mas o discernimento à luz da Palavra de Deus. Como diz São Paulo : “Não vos conformeis com este mundo, mas transformai-vos pela renovação do vosso entendimento, para que experimenteis qual seja a boa, agradável e perfeita vontade de Deus” (Epístola aos Romanos, 12,2). Nenhum Sínodo excluirá o dever da Santa Sé de proteger e promover a Fé. O próprio Papa Francisco já renovou os documentos dos dicastérios, respeitando o dever de vigilância (Constituição Apostólica Predicado Evangelho do Papa Francisco: art. 72 §1, §2; art. 161 §5 e Constituição Apostólica Veritatis gaudium do Papa Francisco: art. 18).