Codice di Camaldoli. Nostalgie democristiane?

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Sergio Paronetto

Sergio Paronetto

Nel pomeriggio di venerdì 21 luglio si è aperto, presso il monastero di Camaldoli, un convegno, la cui rilevanza è evidenziata dalle personalità che vi intervengono.

Sotto la presidenza del vescovo di Arezzo, i lavori iniziano alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non ha tenuto un discorso, ma ha ricordato le ragioni della sua partecipazione in un articolo inviato a tutti i settimanali cattolici.

Le radici del Codice

La prolusione è pronunciata dall’arcivescovo di Bologna e presidente della CEI, card. Matteo Zuppi. La celebrazione della messa conclusiva, domenica 23 luglio, è affidata al Segretario di stato vaticano, card. Pietro Parolin.

L’incontro – affiancato da una mostra che espone documenti tratti dal ricco archivio del monastero – costituisce un’occasione importante per riflettere sulla cultura politica del cattolicesimo democratico del secondo dopoguerra. Vuole infatti ricordare il Codice di Camaldoli – comunemente ritenuto una delle sue matrici, se non la vera e propria radice – in occasione dell’80° anniversario dell’iniziativa che ne è all’origine. Il 18 luglio 1943 si svolgeva infatti, nel monastero aretino, la riunione da cui doveva iniziare il complesso processo di redazione del documento.

L’adunanza si inseriva nella tradizione delle “Settimane di cultura religiosa” che, partire dall’estate 1936, era organizzata dal Movimento dei laureati cattolici. Ma ne innovava lo schema. Non solo perché restringeva la partecipazione a un gruppo limitato di personalità dall’elevato profilo intellettuale – con una certa attenzione a limitare la presenza femminile ritenuta causa di distrazioni –; ma anche perché si proponeva di giungere alla pubblicazione di un testo in cui i problemi economici e sociali del momento fossero presentati alla luce di un’aggiornata riflessione teologica.

Il programma dei lavori era stato tracciato da Sergio Paronetto – il segretario di redazione di Studium, organo dei Laureati, che era anche a capo della Segreteria tecnica dell’IRI – e da Vittorino Veronese. Questi, in quanto segretario dei Laureati, aveva poco prima assunto la presidenza dell’Istituto cattolico per le attività sociali (ICAS). La Commissione episcopale per l’alta direzione dell’Azione cattolica lo aveva infatti posto alle dipendenze del Movimento.

Agli invitati venne recapitato un gruppo di testi su cui prepararsi. Si trattava di tre encicliche di Pio XI – Divini illius magistri (1929, sull’educazione cristiana della gioventù); Casti connubii (1930, sul matrimonio cristiano); Quadragesimo anno (1931, sulla ricostruzione dell’ordine sociale) – cui era stato aggiunto il Codice di Malines (una codificazione della morale sociale cattolica tratta dalla Rerum novarum, che era apparsa nel 1927 e aggiornata nel 1933 alla luce della Quadragesimo anno).

Tra mito e storia

A spronare lo sviluppo dell’iniziativa intervenne il radiomessaggio natalizio del 1942 di Pio XII. Pacelli invitava infatti i cattolici a una «crociata sociale», perché, una volta concluso il conflitto in corso, edificassero su basi cristiane un nuovo ordine della vita collettiva.

Le condizioni del paese – rese difficili dall’aggravarsi della guerra – vanificarono le attese dei promotori della riunione. Non arrivarono infatti a Camaldoli né gli economisti romani – lo stesso Paronetto e Pasquale Saraceno – né il gruppo dell’Università cattolica (Fanfani, Vito e Vanoni). Inoltre, raggiunti dalla notizia del bombardamento di Roma del 19 luglio, diversi partecipanti decisero di rientrare nelle loro abitazioni. Si giunse così ad una conclusione anticipata dell’incontro.

Dopo le fibrillazioni determinate dalla caduta del fascismo il 25 luglio e la firma dell’armistizio dell’8 settembre, su sollecitazione di Adriano Bernareggi – vescovo di Bergamo e assistente ecclesiastico dei Laureati – il gruppo romano, non senza tensioni con quello milanese, cominciò a lavorare sulle relazioni teologiche tenute a Camaldoli. Si trattava di integrarle con i temi economico-sociali, in modo da giungere a un testo di sintesi.

Una bozza fu presentata all’ICAS nel gennaio 1944. Superata la revisione ecclesiastica del p. Carlo Boyer, professore di teologia alla Gregoriana e segretario dell’Accademia san Tommaso, il documento fu pubblicato nella primavera del 1945 con il titolo Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale.

Il convegno odierno mira ad approfondire la produzione del testo, studiando il contesto storico in cui è nato, le fonti che ne sono alla base e le personalità che hanno contribuito alla sua elaborazione. Vuole anche misurarne gli effetti – in particolare l’impatto sulla Carta costituzionale –, senza rinunciare alla prospettiva di destrutturare il mito che ha accompagnato la memoria del Codice.

Soprattutto, però, le relazioni intendono approfondire i sei temi in cui, dopo un’ampia “Premessa sul fondamento della vita spirituale”, il Codice è articolato: lo Stato, la famiglia, l’educazione, il lavoro, l’economia, la vita internazionale.

Il sottotitolo del convegno “Tra mito e storia una vicenda ricolma di futuro” intende senza dubbio riferirsi all’incidenza di quel documento nella successiva vicenda del cattolicesimo democratico. Tuttavia sembra anche ammiccare ad un’altra questione, che, negli ultimi trent’anni, periodicamente si affaccia nel dibattito pubblico: la rinascita di un partito cattolico.

In fondo, un’analogia si potrebbe immaginare. Sulle premesse politico-culturali definite nel Codice, la Democrazia cristiana, che non aveva alcun retroterra, diventò in breve il partito maggioritario del paese. Riproporle non vuole anche dire colmare l’odierno vuoto politico dei cattolici italiani?

Ovviamente è necessario attendere gli atti per verificare se, all’opera storico-critica, il convegno aggiunge anche qualche prospettiva di ricostruzione politica. Tuttavia, per prevenire nostalgie e tentazioni, è opportuno ricordare il significato storico di un documento che, aiutandoci a capire il passato, mostra quanto sia distante dal presente e quanto poco possa dare alla costruzione del futuro.

Il Codice prendeva le mosse dalle acquisizioni degli anni finali del pontificato di Pio XI. Di fronte all’indirizzarsi del fascismo verso un modello totalitario, Ratti aveva chiaramente indicato le ragioni della sua incompatibilità con la dottrina sociale della Chiesa: l’uomo, in quanto frutto dell’atto creatore di Dio, era titolare di una dignità, da cui derivavano diritti naturali che lo Stato, lungi dal poter assorbire o limitare, era solo tenuto a garantire. Nella visione del papa si trattava, però, di diritti che non riguardavano la sfera politica e civile, bensì quella religiosa, educativa e economico-sociale.

Nostalgia di un partito cattolico?

Pio XII, dopo l’iniziale tentativo di trovare un compromesso con nazismo e fascismo, aveva ripreso l’orientamento del predecessore. Quando poi si rese conto dell’ineluttabilità della sconfitta dell’Asse, decise, con il radiomessaggio natalizio del 1944, un primo e timido allargamento dei diritti naturali anche all’ambito delle libertà civili e politiche. Ne fissava però un preciso limite: la democrazia era lecita solo se cristiana.

All’interno di un regime guidato da cattolici, di cui l’autorità ecclesiastica si ergeva a garante delle virtù pubbliche, si potevano riconoscere (e circoscrivere) alcuni di quei diritti dell’uomo e del cittadino che la tradizione cattolica aveva a lungo contrapposto ai diritti di Dio.

Qui sta il significato storico del Codice. Attraverso il richiamo all’universale dignità dell’uomo, basata sulla fondazione trascendente della persona, il documento prevede che tutti gli uomini debbano godere di uguali diritti politici e civili. In tal modo, pur senza esplicite indicazioni, la democrazia diventa il sistema politico più coerente con il cristianesimo.

Il collegamento con la dottrina cattolica avviene riprendendo in qualche modo la filosofia politica di Maritain: la legge naturale, di cui la Chiesa è depositaria e interprete, costituisce la suprema fonte che stabilisce e garantisce i diritti inviolabili e imprescrittibili di ogni persona.

Un dato testimonia la novità e il rilievo dell’operazione teologico-politica. Poco dopo la pubblicazione del Codice di Camaldoli, La civiltà cattolica ripubblica il Codice di Malines. I gesuiti vogliono così ammonire che la democrazia non è un valore in sé, in quanto ordinamento più consono a promuovere la dignità della persona. Lo può diventare. A condizione che la Chiesa ne fissi le regole. Riconoscere l’oggettiva importanza storica di quel documento, non vuol però dire ritenerlo ancor oggi portatore di futuro.

Attraverso il richiamo alla legge naturale, i cattolici hanno certo realizzato nel secondo dopoguerra un ingresso nella modernità politica che si è rivelato assai fecondo per l’intera collettività. Ma nell’età postmoderna, segnata dalla rivendicazione dell’autodeterminazione del soggetto in ogni campo, pensare ancora la politica in quei termini può solo costituire un ostacolo al rapporto del cristianesimo con gli uomini d’oggi.

Non a caso, papa Francesco ha ricordato che, nell’epoca di un cambiamento d’epoca, un’efficace presenza dei cattolici nella storia passa per l’applicazione di una scala di valori al cui vertice sta il Vangelo e poi, in un gradino subordinato, la legge naturale.

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Un commento

  1. Pier Giuseppe Levoni 23 luglio 2023

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