Ci sono figure note e meno note che hanno attraversato i tragici momenti del Novecento e che, da sole, ne hanno riscattato col sacrificio della vita gli esiti più distruttivi col ridare all’intero genere umano che li ha prodotti la possibilità di fare debitamente i conti con essi, anche perché, come ha avvertito Etty Hillesum, può non essere servito a nulla aver salvato il proprio corpo se non si è dato il giusto senso alle sofferenze subite col diventarne un «cuore pensante» (Etty Hillesum e Pavel Florenskij: il dono del loro essere “cuori pensanti”, 26 gennaio 2023).
Ricordarle ripercorrendone le dolorose vicende è sempre un’operazione necessaria oltre che doverosa anche se operazioni del genere andrebbero fatte per ogni singola persona vittima di vicende di per sé quasi inenarrabili. A tale impegno che può essere di qualsiasi natura, quasi inesauribile e nello stesso tempo impossibile, non ci si può sottrarre, come tentò di fare il protagonista de L’arpa birmana, un film che andrebbe rivisto continuamente per educarci alla pace, nel cercare di seppellire con le proprie mani i singoli corpi di innumerevoli commilitoni giapponesi lasciati insepolti come imponeva la tradizione birmana nei confronti dei corpi di nemici.
Bisogna farlo come scelse tale protagonista nel non tornare in patria e nel farsi monaco buddista con un sguardo «dal basso» verso dei corpi divorati dagli avvoltoi, accompagnato solo da uno struggente suono dell’arpa per motivare la sua scelta nei confronti dei compagni sopravvissuti sulla via del ritorno nel loro paese.
Guardare «dal basso»
Tale gesto, sia pure inserito in una commovente finzione filmica, ricca tuttavia di una non comune portata antropologica, può essere meglio compreso se si impara a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi. In una parola: dei sofferenti», come ci ha indicato in modo programmatico il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945). Una scelta di fede ben evidenziata in una particolare ricostruzione del suo percorso di vita da Roberto Fiorini in Dietrich Bonhoeffer. Testimone contro il nazismo (prefazione di Paolo Ricca, Gabrielli, Verona 2020).
Fiorini ci offre un percorso dove viene data direttamente la parola al teologo e pastore attraverso la strategica scelta di mettere nei titoli dei capitoli delle frasi, poi seguite da ampie citazioni, tratte dai vari scritti per capire innanzitutto le modalità del processo esistenziale che portò all’acquisizione di quella «certezza» rivelatasi determinante per «sostenere sino alla fine un siffatto caso limite», cioè l’arrivare ad opporsi con ferma convinzione al regime nazista sino a essere barbaramente trucidato pochi giorni prima del crollo definitivo.
Il volume di Fiorini, come evidenzia Paolo Ricca nella prefazione, «lo si legge tutto d’un fiato» in quanto si fa parlare direttamente Bonhoeffer, «più soggetto che oggetto», scelta che permette di partecipare direttamente al suo vissuto, di entrare nei momenti più cruciali delle non facili scelte compiute col dare la netta certezza che egli «non parli dal passato, ma dal futuro» per aver gettato «lo sguardo dal basso», dicendoci «ancora qualcosa sul difficile e rischioso mestiere di essere uomini e di essere cristiani oggi».
«Si legge tutto d’un fiato», pertanto, questo rivisitare Bonhoeffer da parte di Roberto Fiorini che, da prete operaio, impegnato nella rivista Pretioperai dal 1987 e autore di Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai del 2015 e con altri Servizio e potere nella Chiesa del 2013, lo ha fatto per «vivere» in quanto lo «stare in contatto con lui» permette di «avvicinare pensiero e vita, teologia e azione, obbedienza e responsabilità».
Da teologo a cristiano
«Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi» – scriveva l’amico del teologo tedesco Eberhard Bethge – sia per la situazione odierna delle Chiese cristiane e sia per il fatto che «oggi in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche» che rimandano a quei tempi presi dal vortice di «ipnosi collettive» (Come far fronte alle nuove forme di ipnosi collettive, 6 luglio 2023) e che stanno minando con strumenti sempre più sofisticati le democrazie, che per loro natura e strutturale fragilità hanno bisogno di una vigilanza continua.
Lo sforzo di Fiorini è quello di condurci nel mondo di Bonhoeffer che, per essere stato attraversato dall’«intelligenza della fede» e per essere stata messa in pratica nei momenti più tragici del primo Novecento, è ritenuto in grado di darci «uno strumento utile ad allargare la nostra consapevolezza e responsabilità», grazie al fatto che «ha affrontato “l’ora della tentazione”» con determinazione, sino a essere un «teologo che sfidò Hitler», come ha scritto E. Metaxas in un volume biografico del 2012.
Tale scelta è ritenuta il frutto dell’essere stato sin dall’inizio del suo percorso pastorale un «uomo per gli altri», con varie esperienze negli USA a fianco della comunità afro-americana ad Harlem, tale da far dire all’amico Bethge che in quegli anni ebbe inizio quel processo di conversione «da teologo a cristiano».
Diventò così, a fine 1931, pastore in un quartiere di Berlino, impegnandosi nel movimento ecumenico con una breve esperienza prima a Londra, subito dopo la salita di Hitler al potere, e di nuovo nel 1939 negli USA, da dove – pur potendo rimanere come docente di teologia – fece subito ritorno alla vigilia della guerra in quanto non poteva restare lontano dalla sua terra, anche perché si rendeva sempre più conto che gli stessi «tedeschi sono oggi un popolo sofferente» per il quale era necessario fare qualcosa mettendo in essere quello che ha chiamato «il caso limite, dato dalla necessità di violare la legge vigente».
«Resistenza attiva»
Fiorini, attraverso una minuziosa immersione nei molteplici scritti sia più di natura teologica come Sequela, Etica e La vita comune che nel ricco epistolario e negli articoli su La Chiesa di fronte alla questione ebraica, ci inoltra nelle ragioni di tale «caso limite» con l’inevitabile approdo alla «resistenza attiva» e con l’entrata a far parte dell’Abwehr dove erano presenti coloro che attentarono alla vita di Hitler, dopo essersi battuto nel rifiutare l’introduzione del «comma ariano» della legislazione nazista nell’azione della Chiesa.
Si analizza la conseguente lotta all’interno della Chiesa confessante che Bonhoeffer costrinse a prendere posizione col far capire che di fronte a un ubriaco che corre all’impazzata «il compito di un pastore» non deve limitarsi a seppellire le vittime e «consolare i parenti», ma deve giungere a «strappare il volante all’ubriaco», come disse a un compagno di cella che gli chiedeva «come giustificava da cristiano e teologo la sua resistenza attiva».
Ci viene così offerto un quadro articolato delle radicate motivazioni che portarono Bonhoeffer a ritenere che in quel particolare momento storico, come per tanti altri che si trovarono a fare scelte simili in contesti diversi in base ai propri convincimenti morali e ideologici, non poteva esserci una scissione tra l’impegno pastorale e la resistenza concreta al nazismo.
Tale scelta, o «caso limite», lo mise nelle condizioni di diventare durante il periodo trascorso in carcere, come si evince dalle lettere alla fidanzata e altri amici presenti in Resistenza e resa, un «cristiano senza Chiesa» che vuole «imparare a credere» come frutto della necessità di essere «uomini schietti e semplici», senza ambiguità, di superare lo stato dell’essere «stati testimoni silenziosi di azioni malvage» sino a porsi la cruciale domanda se come cristiani «possiamo ancora essere utili».
La polifonia della vita
Roberto Fiorini riporta poi le fondamentali riflessioni del teologo luterano sulla stupidità che dovremmo fare nostre; mentre nei confronti del male, se ben individuato, ci si può opporre, contro di essa invece «non abbiamo difese». Non «difetto congenito», ma che si presenta in «determinate circostanze [quando] gli uomini vengono resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali»; essa prende piede quando gli uomini perdono la loro «indipendenza interiore» e si piegano alla «schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza» di qualcuno come il «seduttore» Hitler.
La stupidità non può essere «vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione». Ma tale esito del percorso viene interpretato, sulla scia di Carl Friedrich von Weizsäcker, come un «viaggio verso la realtà» e la presa d’atto della «polifonia della vita» per le diverse situazioni in cui ci trova immersi e come piena aderenza e «fedeltà alla terra», attraverso un intenso e partecipato commento da parte di Fiorini a una lettera dal carcere all’amico Bethge che gli chiedeva aiuto di natura spirituale per la situazione che stava vivendo da soldato in Italia.
In tal modo si assiste quasi in diretta al modo, da parte di Bonhoeffer, di sentirsi «perseguitato» dall’«immagine della polifonia» di trovarsi in carcere, ma di voler essere a fianco agli amici più cari, di come «dolore e gioia appartengono alla polifonia di una vita… e possono sussistere autonomamente l’uno a fianco all’altro».
In questi momenti, per il teologo luterano, l’essere cristiani di fronte a un mondo «in frantumi», diventa un modo per porsi «continuamente in molte dimensioni della vita» e ci evita un «rischio maggiore [che, secondo Fiorini] è quello della riduzione del pensiero e dell’esistenza umana a un’unica dimensione», fatto di «una perfetta attualità nel nostro contesto odierno».
Responsabili
Come suo esito tale percorso sia teologico sia esistenziale non poteva non approdare per altre vie, ma segnate dalle sofferenze dal basso, e quasi ante litteram, a un percorso corredato di complessità col pullulare nelle pieghe della vita.
Il «caso limite» vissuto intensamente Bonhoeffer si rivela essere un processo di liberazione da portare avanti a più livelli a partire dal pensiero col rafforzarlo per tenere il più possibile lontano gli uomini dalla stupidità che prima o poi diventa merce preziosa per i seduttori di turno; e lo porta ad affermare perentoriamente e con una lucidità razionale non comune, lucidità che è venuta a mancare ad un’altra figura più nota del panorama culturale tedesco degli stessi anni, quasi come monito per il futuro e per noi sia credenti che non, che «bisogna strappare la gente al pensiero unilineare … Quale liberazione è poter pensare e conservare nel pensiero la pluridimensionalità … La vita non viene ridotta a una sola dimensione, ma resta pluridimensionale e polifonica».
Il continuo invito a sé stesso da parte di Bonhoeffer di voler «imparare a credere», abbinato alla scelta di vedere le cose del mondo «dal basso», è stata la chiave di volta di un percorso che ancora può dirci molto. Grazie a Roberto Fiorini possiamo avvicinarci a tale figura cogliendola tutta d’un fiato nel suo pieno spessore umano. Anche perché possiamo trovare in essa mutatis mutandis quelle indicazioni espresse da Romano Guardini e venute a maturazione quasi nello stesso tempo e contesto: «Non si possono congedare i problemi; chi li avverte deve applicarvisi, specialmente se è responsabile sul piano intellettuale e spirituale. La prassi autentica, cioè l’agire giusto, deriva dalla verità, e per essa bisogna lottare».
- Pubblicato sulla rivista culturale online Odysseo il 20 luglio 2023