Il 1943 è stato sicuramente uno degli anni più caotici e drammatici della storia italiana: l’intensificarsi dei bombardamenti sulle città italiane, lo sbarco degli alleati in Sicilia, la destituzione di Mussolini, il crollo del fascismo e quello dello stato, l’inizio della guerra civile.
Mentre la storia consumava le sue tragedie, qualcuno cominciò a immaginarsi il dopo di un’Italia libera e democratica. Parte da qui il mito del Codice di Camaldoli, vicenda che sa andare al di là dei crudi fatti, svoltisi dal 18 al 24 luglio 1943, per trasformarsi nel paradigma di una nuova stagione. Erano una sessantina le persone invitate a quel convegno, molte delle quali giovani o giovanissime. I disagi della guerra fecero sì che solo metà dei partecipanti riuscisse a raggiungere il monastero camaldolese e altri furono costretti a ripartire quasi subito. I lavori si protrassero nei mesi successivi fra le enormi difficoltà di un’Italia divisa e ferita.
La primavera del 1945 portò alla Liberazione e alla pubblicazione del testo che prese il titolo di «Per la comunità cristiana»: voleva essere un contributo «aperto a osservazioni, rilievi, critiche, proposte», un semplice «schema di orientamento e di studio», come si legge nell’avvertenza dell’opera.
L’idea iniziale, poi abbandonata a causa della difficoltà nel reperimento della carta, era addirittura quella di inserire un foglio bianco a fronte di ogni pagina del testo, così da incoraggiare i lettori a inserire integrazioni. Un testo quindi nato fra peripezie e difficoltà, ma in grado di far incontrare i principi della Dottrina sociale della Chiesa con le sfide poste da una nuova Italia democratica. «La visione di Camaldoli – ha affermato il cardinal Zuppi nella sua prolusione – aiutò a preparare quell’inchiostro con cui venne scritta la Costituzione».
Nostalgie da evitare
Il Codice di Camaldoli ci riporta alle vicende più drammatiche della nostra storia e a figure quasi mitiche del cattolicesimo democratico italiano: Paronetto, Vanoni, Saraceno, Gonella, Moro, Andreotti, La Pira, Taviani… Ecco perché il rischio più grosso, di fronte a ricorrenze come questa, è abbandonarsi all’idolo della nostalgia.
Tanto più che la democrazia oggi non se la passa per niente bene e che guerra e autoritarismi stanno nuovamente bussando alle porte dell’Europa. Basta poco a perdere l’equilibrio e a lasciarsi andare alle lamentazioni sull’irrilevanza dei cattolici in politica o alle pie illusioni di ricostituzione di un partito unico.
Va però dato il merito al professor Tiziano Torresi e agli altri organizzatori di aver evitato il pericolo, affidandosi invece a una ricostruzione storica approfondita e non anacronistica. Le sessioni di lavoro hanno focalizzato gli ambiti presenti nel Codice, offrendo una lettura fedele e stimolante. Il «mito» di Camaldoli è stato insomma studiato per ciò che è, evitando di proiettare in esso ciò che vorremmo fosse.
Lezioni di metodo
A ottant’anni da quelle giornate, quali lezioni possono arrivare per il nostro contesto culturale e politico? Credo, sulla scorta di quanto affermato da Marta Cartabia nel suo intervento, che il messaggio più significativo riguardi le modalità di azione dei cristiani nella sfera pubblica.
Gli estensori del Codice di Camaldoli partirono dai principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa, ma quelle furono per loro «solo» le fondamenta. Se, inizialmente, si immaginava di proporre un semplice aggiornamento del Codice sociale di Malines, ben presto si fece strada l’idea di costruire un documento completamente nuovo. Il rischio che si voleva a tutti costi evitare era fare «poesia di vecchio stampo», come si legge negli appunti preparatori. Coloro che si misero al lavoro erano infatti consapevoli che il momento storico richiedeva concretezza e novità di approccio.
Il vescovo Adriano Bernareggi, assistente del gruppo di giovani intellettuali impegnato a Camaldoli, nel gennaio 1943 aveva esortato i laureati cattolici ad agire: «I cattolici devono scendere dal puro mondo concettuale e dall’astrattezza dei principi, per applicare questi alla vita. Devono uscire dalla torre d’avorio della verità posseduta per andare incontro a quanti cercano la verità». E lo stesso Bernareggi, quando a Camaldoli giunse la notizia del bombardamento di Roma, spiegò che il convegno si sarebbe svolto «senza alcuna astrazione dal dramma dell’Italia» e «in vista del futuro, del dopoguerra». Camaldoli doveva essere «la fornace nella quale si prepara l’ordine nuovo». La richiesta del vescovo era quindi quella di avere coraggio, esplorare nuove strade, confrontare il pensiero sociale della Chiesa «rimasto sinora in gran parte fermo» con «le realtà presenti».
Una seconda lezione viene dalla necessità del confronto dialettico. La Chiesa di oggi viene rappresentata – spesso a ragione – come fortemente spaccata sui temi sociali e politici. Ma tutto questo era forse ancora più forte negli anni Quaranta. Non possiamo dimenticare che una parte della gerarchia aveva visto di buon occhio l’affermazione del fascismo, che tanti popolari e lo stesso don Sturzo erano stati messi da parte. Era una Chiesa che non aveva ancora fatto una scelta chiara in favore della democrazia e che vedeva con sospetto alcuni caratteri tipici degli stati liberali. Accanto ai movimenti più innovativi, resisteva l’idea di una Chiesa come societas perfecta a cui il mondo doveva semplicemente uniformarsi.
Non era per niente facile mettere insieme queste diverse concezioni e ne era consapevole anche Sergio Paronetto che, in una lettera a Bernareggi, confessava il rischio che la costruzione del Codice rischiasse «di dividere, più che di unire uomini e dottrine del nostro ambiente». Le spaccature erano numerose, tanto che Paronetto finiva per chiedersi se fosse «meglio dedicarsi a problemi meno spinosi, sui quali è più facile l’incontro, o prendere di petto queste difficoltà per cercare di superarle».
Venne scelta la seconda strada, con lo sforzo però di portare a unire le diverse sensibilità. Fu un esercizio fondamentale, non a caso alla base del successo di un partito vario e per certi versi contraddittorio come la Democrazia Cristiana. Ma fu anche il contesto in cui dovettero operare i padri costituenti cattolici, costretti a cercare soluzioni condivise con le culture social-comunista e liberale.
Un coraggio da ritrovare
Penso non sfugga la forte connessione tra questi stimoli e le strade che siamo chiamati a percorrere oggi. E la presenza di autorità come il presidente della CEI Zuppi e il Segretario di Stato vaticano Parolin indicano che la Chiesa avverte con forza la necessità di questo impegno. «Oggi – ha affermato il vescovo di Bologna – la democrazia appare infragilita e in ritirata nel mondo. Ecco un campo in cui i cristiani devono applicarsi, interrogandosi su come deve essere la democrazia del XXI secolo, vivere quell’amore politico senza il quale la politica si trasforma o si degenera».
Da dove partire? Anche su questo il cardinal Zuppi è stato abbastanza esplicito: «Uno dei problemi di oggi è il divorzio tra cultura e politica, con il risultato di una politica epidermica, a volte ignorante, del giorno per giorno, con poche visioni, segnata da interessi modesti ma molto enfatizzati».
Il punto di partenza è quindi un ambito che potremmo definire prepolitico o, più semplicemente culturale. La necessità è quella di coltivare un campo in cui possano maturare carismi, sensibilità e magari anche opinioni diverse. Questo campo è stato trascurato negli ultimi decenni e ha bisogno di essere nuovamente dissodato. «I credenti – sono ancora parole di Zuppi – devono avere il coraggio, nel rispetto delle diverse sensibilità, di interrogarsi dialogando e ascoltandosi, che vuol dire ispirarsi al Vangelo nella costruzione della comunità umana».
La sfida immediata è questa: creare luoghi di dialogo e di incontro, di formazione e di pensiero. Abbiamo bisogno di aiutare la politica, e con essa tutta la comunità civile, a ritrovare visioni ampie e a lungo termine. Senza paura di intaccare quel velo di silenzio (spesso ipocrita) che caratterizza le nostre comunità quando si tratta di politica e sociale. Perché altrimenti la conseguenza non è solo la nostra irrilevanza, ma soprattutto il venir meno alla carità: come il buon samaritano, siamo chiamati a piegarci per curare le ferite della nostra società.
Credo non esistano, in questo senso, parole migliori di quelle utilizzate da Sergio Paronetto, giovane dirigente IRI e regista del Codice, morto poco più che trentenne prima di vedere la Liberazione e la pubblicazione del testo:
«Mi par nettissima la nostra posizione, la nostra vocazione: è dalla parte del fare, con la croce, se vogliamo, dell’azione, non con l’irresponsabilità e la comodità mentale di chi sta a guardare. Saremo dalla parte della barricata, dove si opera sugli uomini. Saremo fra quelli che verranno discussi e giudicati perché faranno, non fra quelli che giudicheranno e discuteranno. Saremo con quelli che sbaglieranno, non con quelli che troveranno a ridire, perché si è sbagliato; con quelli che avranno sempre torto, perché ci sarà sempre qualcuno che potrà dire: “così bisognava fare, così io avrei fatto”. Posizione scomoda, forse. Ma guai a fuggire: bisogna impegnarsi, finché si può».
Federico Covili è presidente del Centro culturale Francesco Luigi Ferrari di Modena (qui)
Abitare di nuovo il terreno della cultura, del prepolitico: questa la priorità, si afferma. Appello apprezzabile, ma sarà accolto concretamente? E’ lecito dubitarne, data la condizione attuale di un laicato frammentato e per decenni orientato su altre priorità: volontariato sociale spicciolo, culto della Scrittura,ecc. Senza la spinta di uomini di Chiesa di alto profilo e culturalmente avveduti, come Montini e Bernareggi, capaci di non limitarsi agli appelli ma di stimolare percorsi anche organizzativi efficaci, l’impresa appare disperata.