A Davide Assael − filosofo, voce radiofonica di Radio 3 («Uomini e profeti») ed editorialista della rivista di geopolitica Limes −, appena tornato da Israele, abbiamo rivolto alcune domande per tentare di chiarire la situazione dopo il voto parlamentare di lunedì scorso, 24 luglio, con il quale è stata approvata la prima parte della riforma della giustizia proposta dal governo di Benjamin Netanyahu contro la quale si sono sollevate da mesi proteste in tutto il paese.
- Con il voto di lunedì 24 luglio scorso alla Knesset, Israele ha approvato la prima parte della contestata riforma della giustizia proposta dal governo Netanyahu. A che punto siamo? Che cosa è successo esattamente lunedì scorso? Quale significato politico ha la decisione e quali conseguenze sono prevedibili?
Lunedì è stata approvata la limitazione della cosiddetta «clausola di ragionevolezza» (in ebraico Ilat Svirut), che consentiva alla Corte Suprema di intervenire rispetto ad alcuni atti di amministrazione del governo o suoi componenti giudicati «irragionevoli». La clausola, a dire il vero, era da tempo molto discussa, persino dall’ex presidente della Corte Aharon Barak, che la introdusse in una sentenza del 1980. Nasce come elemento suppletivo rispetto alla mancanza di una costituzione, che in Israele non si è mai voluto scrivere per una serie di ragioni, fra le quali la principale è, a mio giudizio, ben sintetizzata dal vecchio detto non disturbare il can che dorme: aprire un dibattito coscienti che non si sarebbe potuto trovare un accordo è apparso esercizio inutile. Il tutto aggravato dal perenne clima di pressione a cui il Paese è da sempre stato sottoposto, vuoi per guerre o per attentati.
La modifica, però, non è di poco conto. Anzitutto per una questione di prospettiva: il voto della Knesset si inserisce in un più ampio quadro ideologico-politico di questa maggioranza, che ha nella Corte suprema, da sempre baluardo dei principi egualitari dello Stato, il principale ostacolo. Molti provvedimenti annunciati, che mirano a un’esplicita ebraicizzazione dello Stato, sono già stati ampiamente contestati dalla componente laica e liberale che ha nella Corte il suo principale riferimento.
In secondo luogo, il voto consente, in teoria, a Netanyahu di riammettere nel governo il leader di Shas Aryeh Deri, decaduto proprio in virtù della clausola che ha decretato l’incompatibilità fra i suoi doveri ministeriali e le condanne per evasione fiscale e frode già passate in giudicato.
Da ultimo, ma non per importanza, c’è il destino personale del Premier, a sua volta imputato in diversi processi: in caso di condanna e di pronuncia di incompatibilità, potrebbe disattendere il parere della Corte. Va aggiunto che Netanyahu ne esce totalmente vincitore. A fine marzo, in una serata che è già entrata nella storia dello Stato, era stato costretto a ritirare il provvedimento, questa volta è andato dritto e la legge è passata con tutti i 64 voti della sua maggioranza. Lui stesso, appena operato per installare un pacemaker e contro il parere dei medici ha, non a caso, voluto presenziare alla votazione.
- Le proteste hanno fatto il giro del mondo ed evidenziato l’esistenza di un movimento di opposizione significativo e piuttosto determinato, che ha coinvolto in modo inatteso anche l’ambiente dei militari. Che cosa potrebbe convincere Netanyahu a fermarsi?
Dopo settimane e settimane di proteste oceaniche del sabato sera, più altri cortei spontanei, blocco di strade, ferrovie, scioperi, marce della pace, persino rifiuto dei riservisti di rispondere alla chiamata di uno Stato non democratico (precedente gravissimo per un Paese minacciato come Israele), dialoghi, o presunti tali, con l’opposizione, mediazioni presidenziali, davvero non si capisce cosa possa far cambiare idea a Netanyahu.
L’unica ipotesi che appare plausibile è, appunto, quella di marzo, ossia che le pressioni della piazza inducano qualcuno della maggioranza − ne basterebbero 4-5 − a lasciare il premier al suo destino e a riallineare il Likud su posizioni a lui più consone di destra conservatrice ma inserita in un quadro democratico. Il voto di lunedì ha mostrato che, ad ora, questi volenterosi non esistono e Israele appare sempre più nelle mani di un premier assediato dai propri alleati, dai propri fantasmi e ora anche da problemi di salute.
- Netanyahu ha promesso che continuerà a organizzare colloqui «per raggiungere un accordo generale su tutto» entro la fine di novembre. Quale evoluzione possiamo aspettarci? Quali possibili scenari possono aprirsi?
Nessuno può credere a queste parole, chiaramente dette per cercare di lasciare il cerino nelle mani avversarie. Netanyahu non può fermare la riforma senza che il governo cada e senza rischiare in proprio con i processi che lo perseguitano da anni. La sua strategia è, da un lato, un imbarazzante silenzio cercando di sviare l’attenzione su fantomatici successi in politica estera (appena votato è volato in Vietnam da dove ha decantato partnership commerciali che darebbero chissà quale futuro al suo Stato). Dall’altro, è cercare di scaricare tutto sull’opposizione di piazza e di governo. Come se i numeri non dicessero che è l’intero popolo a mobilitarsi, l’opposizione di piazza è descritta come manipolo di anarchici eversori, la seconda – l’opposizione al governo – è dipinta come non disposta ad alcun tipo di compromesso.
Per quanto riguarda gli scenari futuri, siamo in territorio ignoto. Davvero troppe le opzioni possibili: da una permanenza nel quadro occidentale – anche con un Israele non democratico sulla scia di Ungheria, Polonia e anche Turchia –, al cambio di area geopolitica, con un Israele che guarda sempre più ad Oriente e alla Cina, che già ha fatto enormi investimenti nel Paese. Detto oggi – questo – appare fantascienza, ma in un mondo così caotico ed in perenne cambiamento ci si può aspettare davvero di tutto.
Naturalmente sarà da verificare la tenuta degli Accordi di Abramo, messi a rischio da un’eventuale politica discriminatoria nei confronti della minoranza araba e da politiche di annessione della Cisgiordania. Cose non da escludersi vista la composizione dell’attuale maggioranza. Resta valida l’opzione del fallimento totale: col governo che cade su pressioni indicibili già in atto e col fine corsa per Netanyahu e accoliti.
- Quale parte giocano i «religiosi» in questa crisi? Ci sono minacce per i cristiani?
Anzitutto, non parlerei di una lotta fra religiosi e laici. Il concetto di religione è assai diverso in Medio Oriente rispetto alle nostre latitudini, dove è ridotto a un fatto privato. Fra i manifestanti ci sono tantissimi religiosi e non è certo quello l’ostacolo alla convivenza. La linea di demarcazione è il rispetto di un quadro liberale fondato sulle libertà di ciascuno di scegliere la vita che crede e di rispettare il principio di separazione fra i poteri dello Stato, inteso come garanzia per i diritti di tutti.
I partiti religiosi al governo, ben diversi dalla religiosità di ciascuno, non accettano questi criteri base di convivenza, con la minaccia di trasformare Israele in un’entità finora sconosciuta. Sarebbe enorme anche la frattura con la diaspora, anzitutto americana. Un vero incubo per la maggioranza della popolazione israeliana.
Al momento non vedo minacce per la componente cristiana in Israele, ma se questa maggioranza procede nel suo percorso di trasformazione dello Stato nessuno potrà dirsi al sicuro, a cominciare dagli ebrei stessi non allineati. Qualche episodio di violenza sulle comunità cristiane da parte di gruppi di facinorosi − che ora sentono di poter alzare la testa − si è, purtroppo, già registrato.