Hilarion Capucci, un cuore per la Palestina

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Era nato nel 1922 ad Aleppo, la seconda città della Siria, oggi tristemente in prima pagina come una delle comunità più gravemente colpite dal conflitto che dilania il Paese, e ha vissuto sperimentando in prima persona tutte le difficoltà di quella terra, anzi si può ben dire dell’intero Medio Oriente.

Perché mons. Hilarion Capucci, morto a Roma il 1° gennaio a 94 anni, sacerdote dell’ordine basiliano della Chiesa greco-cattolica melchita dal 1947, nel 1965 era stato nominato vicario patriarcale di Gerusalemme e arcivescovo di Cesarea. Nella sua veste di superiore generale dei basiliani aveva partecipato al Concilio dove si era distinto per le sue argomentazioni in tema di dialogo ecumenico e di laicato.

Il processo

Nel 1974 l’evento che ha sconvolto la sua esistenza: mentre era in viaggio da Beirut a Gerusalemme (ma altre fonti indicano tra Gerusalemme e Nazaret) viene fermato ad un posto di blocco dalle forze di sicurezza israeliane che rintracciano nella sua Mercedes 4 fucili Kalashnikov, 2 pistole e diverse munizioni (e oltre 220 libbre di dinamite) destinati con ogni probabilità all’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Non fu arrestato subito per via del suo status, bensì 10 giorni più tardi con l’accusa di fungere da collegamento con le truppe di Al Fatah, la fazione dominante all’interno dell’OLP, e le cellule della guerriglia in Cisgiordania (a queste si aggiunsero le accuse di contrabbando di oro, whisky e apparecchi televisivi attraverso il confine).
La verità dei fatti non venne mai accertata con certezza: al processo mons. Capucci negò ogni addebito, ma il tribunale, respingendo la richiesta di immunità diplomatica per mancanza di relazioni tra Israele e Vaticano fino al 1993, il 9 dicembre 1974 lo condannò a 12 anni di carcere per contrabbando d’armi (in realtà il favoreggiamento verso l’OLP non venne mai provato). Narrano le cronache giudiziarie che, al momento della condanna, Capucci si fosse rivolto alla corte in lingua araba dicendo che se Gesù fosse ancora vivo, avrebbe pianto amaramente con lui. Il suo trattamento in carcere fu però di riguardo: una cella singola, il mantenimento delle sue vesti clericali, la possibilità di celebrare e il permesso di visite, tra cui, frequente, il patriarca latino di Gerusalemme.

Tre anni più tardi, il 6 novembre 1977, per intercessione personale di papa Paolo VI su richiesta del patriarca Maximos V Hakim, il suo rilascio per motivi umanitari, ma con obbligo di esilio. Da quel momento ha vissuto a Roma, anche se inizialmente inviato in America Latina – per coincidenza fino alla Giornata mondiale della pace per cui si è sempre battuto – continuando però a viaggiare per incontri e conferenze, non senza qualche «missione necessaria» – com’era solito chiamarle – in Medio Oriente incurante dei rischi (al momento del rilascio la Segreteria di Stato si era formalmente impegnata a che non fosse più designato in Medio Oriente).

Hilarion Capucci

Roma 1990. Rino Malcontenti, uno degli ostaggi liberati dall’Iraq, stringe la mano all’arcivescovo Hilarion Capucci durante una conferenza stampa (AP/Broglio).

Una vita intensa

Una figura controversa quella di mons. Capucci – per alcuni un fiancheggiatore dei guerriglieri palestinesi, per altri un eroe della loro causa – che certamente verrà ricordato per il suo impegno politico e in particolare il coinvolgimento per la causa del popolo palestinese cui si può dire ha dedicato la vita. Non si conoscerà mai il ruolo giocato dai servizi di sicurezza d’Israele nella vicenda, che di fatto l’ha tolto di mezzo, e soprattutto di quello americano (proprio alla vigilia delle dimissioni del presidente Nixon a seguito dello scandalo Watergate).

Di certo Capucci non è mai stato tenero nei confronti dell’amministrazione americana di qualunque colore (anche se in questi ultimi anni aveva mostrato apprezzamento per la presidenza di Barak Obama), come pure di quella dello Stato d’Israele – per ben due volte, l’ultima nel 2010, si era unito agli attivisti palestinesi sulle navi che tentavano di rompere il blocco della Striscia occupata di Gaza – tuttavia si era esposto in prima persona per diverse missioni diplomatiche a favore di alcuni cittadini americani (condizione degli ostaggi, rilascio dei corpi delle vittime). Nel 1990, si era recato nell’Iraq allora di Saddam Hussein per aiutare il rimpatrio di 68 italiani cui era stato impedito di lasciare il Paese dopo l’invasione del Kuwait.

Figura controversa

Secondo gli investigatori israeliani, che, si è scoperto al processo, lo sorvegliavano da tempo, l’arcivescovo era stato anche coinvolto in un piano, per fortuna sventato, per sparare razzi Katyusha in direzione di Gerusalemme durante una visita nel maggio 1974 del segretario di Stato americano Henry A. Kissinger. Altre voci assicurano di aver segnalato la presenza di Abu Jihad, un militante conosciuto con questo nome di battaglia, e un altro dell’OLP a casa di parenti dell’arcivescovo.
Per il New York Times, che il 2 gennaio ha dato la notizia della sua scomparsa, Capucci «è stato il pastore cristiano di più alto rango che sia mai stato incriminato dallo Stato d’Israele con tante imputazioni e il cui arresto aveva creato tanto scalpore, tanto che Yasser Arafat, allora presidente dell’OLP, aveva definito il fatto “un terribile crimine”».
A lui era andato anche il plauso di diversi leader del mondo mediorientale, a cominciare dal discusso leader iraniano, l’ayatollah Khomeyni, allora guida suprema dell’Iran. Il suo nome tornò alla ribalta dal carcere il 28 giugno 1976, quando un aereo Air France in volo da Tel Aviv a Parigi venne dirottato a Entebbe, in Uganda, chiedendo a Israele il rilascio di 40 prigionieri, tutti palestinesi o sostenitori della loro causa, tra i quali l’arcivescovo Capucci (una settimana dopo un commando israeliano compì un raid notturno portando in salvo gli ostaggi).
Nel gennaio 1979, sfidando tutti, Vaticano compreso, era andato a Damasco per partecipare a una riunione del Consiglio nazionale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, di cui era membro onorario. Dieci anni più tardi ha guidato una delegazione di religiosi e intellettuali in Iraq in una dimostrazione di solidarietà contro le sanzioni delle Nazioni Unite.
Allo scoppio del conflitto in Siria si era subito schierato dalla parte del presidente Bashar al-Assad con l’intento di riportare la pace.

Il sogno di una Gerusalemme libera

Alla notizia della sua morte, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ha ricordato l’arcivescovo Capucci come «un combattente per la libertà», un religioso che ha dedicato la sua vita per «difendere i diritti del popolo palestinese».
Nella camera ardente a Roma gli hanno reso omaggio anche l’ambasciatrice di Palestina Mai Alkaila, il presidente della comunità siriana in Italia, Jamal Abo Abba, e le rappresentanze dei movimenti per la Siria. Tra i messaggi di cordoglio, quello di Gregorio III Laham, patriarca di Antiochia.
«Rendo omaggio alla fermezza di tutti i prigionieri palestinesi che difendono il diritto del loro popolo di vivere in pace, senza più occupazione e sofferenza. I miei saluti a tutti i prigionieri in sciopero della fame che combattono contro i loro torturatori e oppressori della libertà, della dignità e dell’umanità», scriveva in un documento del 2015 che rappresenta un po’ il suo testamento morale insieme a una solenne promessa: «Ritornerò alla mia Gerusalemme molto presto. Ritornerò in una Gerusalemme libera. A Gerusalemme, la città della convivenza, della pace e dell’unità sociale, dove la bandiera palestinese verrà alzata contro la politica di ebraicizzazione, deportazione, arresti e colonizzazione».

Dal suo esilio romano, l’arcivescovo Capucci ha continuato a lottare per l’indipendenza della Palestina e per la pace in Siria (porta anche la sua firma la richiesta – non accolta – alle Nazioni Unite per dedicare il 2017 alla causa palestinese). Impegnato fino all’ultimo, era frequente incontrarlo – oltre la celebrazione domenicale nella basilica di Santa Maria in Cosmedin – a diversi eventi nella capitale. Il suo ultimo intervento era stato lo scorso novembre al Convegno «Damasco, prisma di speranza. Prospettive educative, attese e speranze del possibile ritorno alla città simbolo di un conflitto esteso a tutto il Medio Oriente», organizzato dal Pontificio istituto orientale in occasione delle celebrazioni del centenario di fondazione.

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