Prende il via con questo post la rubrica Iuvenes dum sumus, sui vizi e le virtù dei giovani. L’autore, don Armando Matteo, sacerdote della diocesi di Catanzaro-Squillace, è docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia università urbaniana. Dal 2005 al 2011 è stato assistente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI).
Parlare delle virtù dei giovani è cosa quanto mai semplice e immediata, in quanto lo stesso termine “giovane”, per molti aspetti, richiama alla mente l’etimologia stessa della parola virtù, che – com’è noto – indica potenza, forza, inclinazione allo sviluppo delle energie specifiche di ciò o di colui cui essa compete.
Ebbene, cosa significa esattamente essere giovane se non proprio il fatto che, nell’arco temporale che corre tra i 15 e i 34 anni, si possieda una straordinaria carica di forza e di energia innovativa?
Ascoltiamo la nostra lingua, vero deposito di ogni saggezza umana. Secondo una traccia etimologica abbastanza affidabile, la parola giovane deriverebbe dal latino iuven, strettamente legato al verbo iuvare. I giovani – suggerisce il vocabolario latino – sono coloro che “aiutano”, coloro che portano un sostegno, un giovamento alla società. E questo perché, proprio nell’età tra i 15 e i 34 anni, uno/una possiede il meglio della forza fisica, il meglio della forza riproduttiva e il meglio della forza intellettiva e spirituale. Un giovane, una giovane sono una straordinaria carica di energia, una vera e propria “cellula staminale”, capace di aiutare, di giovare alla società.
A questo poi si accompagna anche un senso di novità, di freschezza, di inedito: non è un caso che i greci, pensando al mondo dei giovani, usassero la parola neos, neoi che indica appunto nuovo, inedito.
Ciò che i loro occhi vedono nessuno l’ha mai visto prima: il giovane è quel famoso nano sulle spalle del gigante, che vede, proprio grazie alla sua posizione, in modo diverso dal gigante stesso. Tale diversità è novità, è freschezza, è un altrimenti possibile rispetto al già dato che arricchisce, allarga, i vissuti della collettività; una genuinità dello sguardo che è pure parente di genialità.
Essere giovane indica, in sintesi, la forza di una novità e la novità di una forza: una condizione psicofisica e spirituale che si realizza, per ogni essere umano, solo tra i venti e i trent’anni. Potremmo dire che il giovane è una “cellula totipotenziale”, ma proprio per questo dobbiamo affermare che la virtù del giovane, allora, non è la giovinezza: la virtù del giovane è la ricerca di quel punto/di quel “luogo” in cui poter spendere tutta quella forza e tutta quella novità che si porta dentro. La virtù del giovane è diventare adulto: cioè la condizione di chi sa spendersi per altro da sé. In questo si realizzerebbe la verità dell’essere giovane: nel suo, per nulla facile, cammino di diventare “cellula adulta” in grado di rinforzare, ringiovanire e rinnovare la società nella quale esso si trova a vivere.
Purtroppo ciò capita sempre di meno, almeno dalle nostre parti, e papa Francesco lo ha ricordato con una vivacità e amarezza molto particolari il 31 dicembre scorso; in quell’occasione ha affermato: «Abbiamo creato una cultura che, da una parte, idolatra la giovinezza cercando di renderla eterna, ma, paradossalmente, abbiamo condannato i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento, perché lentamente li abbiamo emarginati dalla vita pubblica obbligandoli a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono o che non permettono loro di proiettarsi in un domani. Abbiamo privilegiato la speculazione invece di lavori dignitosi e genuini che permettano loro di essere protagonisti attivi nella vita della nostra società. Ci aspettiamo da loro, ed esigiamo, che siano fermento di futuro, ma li discriminiamo e li “condanniamo” a bussare a porte che per lo più rimangono chiuse».
Qui, come avremo modo di vedere nel corso di queste brevi riflessioni sulle virtù e le tentazioni delle differenti età/stadi della vita, ci accostiamo alla grande questione odierna: quella della reale condizione di “minorità spirituale e umana” dell’attuale generazione adulta. Proprio nei confronti di quest’ultima – da identificare sostanzialmente con coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964 – emergono le tentazioni dei giovani. Ne indico due.
La prima è quella di adattarsi al nuovo status di rappresentanti del compimento dell’umano (“l’eterno giovane”), cui accennava il pontefice, con tutti i benefici immediati che questo comporta, da una parte, e il sostanziale disagio, dall’altra: la tentazione di accettare la loro condizione di semidivinità, in mezzo ad una massa di adulti che spudoratamente li venera e li invidia, coccolandoli sino a trasformare le famiglie in piccoli Lunapark, ma rendendoli sempre più dipendenti da loro e quindi azzerando ogni progetto di autonomia, che è la vera base di ogni autentica realizzazione di sé.
La seconda tentazione è quella di “giustificare” sin troppo i loro adulti di riferimento, di non cogliere la portata “politica” dell’agire di questi ultimi: di non cogliere, cioè, il fondo egoistico e individualistico di un’intera generazione oggi al potere, cosa che imporrebbe un’interpretazione più critica e dunque profetica della reale situazione in cui essi si trovano a vivere. Piuttosto che provare a cambiare le cose o almeno a chiamarle con il loro vero nome, molti preferiscono trasferire il proprio disagio all’estero e cercare lì ciò che il proprio Paese – ma in verità gli adulti che li hanno messi al mondo e tirati su – non è più in grado di assicurare.