Monaco di Bose, Alberto Mello per molti anni ha insegnato Antico Testamento presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. In particolare si è dedicato all’antica esegesi rabbinica, traducendo vari midrashim e commenti ebraici tradizionali. Questo commento esprime al meglio il retroterra scientifico di Mello, conoscitore dei midrashim (cf. Bereshit Rabbà) e dei commenti ebraici medievali (Rashi, Nachmanide ecc.). Recenti libri suoi sono Il Dio degli Ebrei. Riflessioni sull’Esodo (2023); Il Dio santo. Riflessioni su Levitico e Numeri (22023); Il libro della vita. Leggere i Salmi (2019).
L’autore segue la traduzione ufficiale CEI 2008, ma con attenzione al testo originale. Frutto dell’insegnamento impartito a Betlemme e a Gerusalemme, il testo ha un andamento sapienziale-narrativo, destinato a esse accolto da tutti i discendenti di Abramo.
Le riflessioni di Mello si snodano a partire dalle vicende di Abramo, Isacco e Giacobbe. Sono tre figure paradigmatiche dell’Antico Testamento. Sono modelli imperfetti di un’umanità in cui ogni uomo e donna, anche del nostro tempo, può trovare riflessa la propria.
L’autore non adotta un taglio esegetico-filologico, non segue alcuna teoria documentaria, ma, sempre aderendo al testo biblico, attraverso il taglio narrativo, invita a entrare in confidenza con l’umanità dei patriarchi. Egli commenta il testo con ricche note sapienziali, teologiche e innovative in quanto legate alla lingua originale.
I patriarchi affascinano per la loro ricchezza umana, non esente da debolezze e imperfezioni. Sono queste però le persone attraverso le quali il Dio unico e personale della Genesi si rivela con caratteristiche e modalità diverse.
Mello le rilegge nella prospettiva delle tre virtù teologali: fede, speranza e amore. Si può in tal modo provare un’esperienza di unità nella diversità, non confinata alla religione premosaica, ma con alcune affinità con la vita dell’uomo e della donna credente di ogni tempo, ma anche di ogni persona che si riconosca come parte della discendenza abramitica.
I Patriarchi, la storia e la religione
In un primo capitolo (pp. 11-26), Mello presenta le figure dei padri, mettendole in rapporto con la storia. Sono esaminate le migrazioni dalla Mesopotamia, i nomi, gli usi e i costumi nomadici, la religione. Questo avvalora la storicità delle loro figure.
Nei testi sui patriarchi ci sono degli anacronismi («aramei», «caldei», «filistei», i cammelli ecc.). Altri usi e costumi si avvicinano ai testi giuridici di Nuzi (XV-XIV sec. a.C.). «Questi anacronismi, almeno in parte, si stemperano quanto più noi adottiamo una datazione bassa per i Patriarchi “aramei”, sul finire del Medio Bronzo, quindi a ridosso dell’Esodo, e consideriamo la datazione di Genesi 15 come approssimativa per eccesso, indicante semplicemente un lungo soggiorno in Egitto prima dell’insediamento» (p. 13).
La religione dei Padri mostra di essere precedente alla rivelazione sinaitica, anteriore cioè allo jahwismo mosaico. «La religione dei Patriarchi, per dirla con Robert Moberly, è l’Antico Testamento dell’Antico Testamento. Israele l’ha conservata come una rivelazione essenziale, indispensabile, ma non la praticava più integralmente» (p. 15).
Prima di tutto, è lo stesso Nome divino rivelato a Mosè (il tetragramma JHWH) che i Padri non conoscevano ancora. Anche per i Padri non vi è che un unico Dio, ma si chiama El, o eventualmente El ‘Olam (Dio eterno), El Eljon (Dio Altissimo), El Ro’i (Dio della mia visione) e soprattutto El Shaddaj (Dio della steppa?), che è il Dio supremo del pantheon semitico occidentale. Quindi, sul piano religioso, «non esiste quasi nessuna distinzione fra i Padri e le genti presso le quali essi si sono installati» (ivi).
I Padri richiedono il timore di Dio, ma non conoscono il sabato o la purità alimentare. Hanno un’apertura ecumenica e non esclusivista come si ha nello jahwismo. «Tutto questo prova che i racconti patriarcali non possono essere stati inventati durante l’esilio, come si tende a dire oggi. Israele ha conservato questa differenza religiosa, ma non può averla creata o proiettata all’indietro nelle sue origini» (pp. 15-16).
Rispetto all’Esodo la tradizione religiosa dei padri non conosce YHWH ma El; non nomina Baal (che compare solo alla fine del II millennio); mostra la mancanza di mediatori (non ci sono sacerdoti e profeti); è assente il miracoloso; c’è il culto in diversi santuari locali: Sichem, Betel, Hebron, Beersheva, ma non Gerusalemme, che pure esisteva già in epoca patriarcale (cf. i documenti egizi del XIX sec. a.C.). La Genesi non compie però mai un’identificazione esplicita con il principale santuario nazionale (si menziona Salem e il monte Moriah).
La religione dei Padri non è istituzionalizzata, prevede un solo Dio, non tre dèi. La religione dei Padri è più evoluta di quella dei nabatei. «Il Dio dei Padri» non è anonimo, come il «Dio del Padre», ma ha il nome del Dio supremo El. «La Genesi conosce un solo Dio, talmente personale da rivelarsi con caratteristiche diverse nelle tre persone di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma pur sempre riconoscibile come lo stesso. Trinità dell’Antico Testamento» (p. 18), ben rappresentata dagli iconografi.
«Nella narrazione patriarcale, l’apparizione dei tre angeli ad Abramo costituisce, letterariamente, una mise en abîme, un racconto nel racconto, che riproduce in miniatura il significato teologico di tutta la storia» (ivi). Nella Genesi, Dio e l’Angelo sono praticamente sinonimi. «I tre angeli riconosciuti da Abramo come Uno solo, sembrano quindi ricapitolare il messaggio teologico della Genesi, l’Unità del Dio di Abramo, del Dio di Isacco e del Dio di Giacobbe» (p. 19).
«Ora, a questa triplice distinzione, nell’unità dell’esperienza di Dio, credo non sia estranea la determinazione delle tre virtù che noi chiamiamo teologali, proprio perché sono quelle più rivelative dell’agire e del vivere stesso di Dio: fede, speranza e amore» (ivi). Abramo può essere collegato alla fede, Isacco alla speranza, Giacobbe all’amore.
Abramo è il primo personaggio a cui è riferito il verbo “credere”, a cui risponde la giustificazione divina. Isacco mostra speranza nella provvidenza divina. Giacobbe è protagonista della storia di amore più avventurosa della Bibbia, con le sue magie, durezze, altezze e rovesciamenti. «Giacobbe è un uomo che si ricorda poco di Dio, non è esemplare nella condotta morale, ma sa amare con passione e senza risparmio» (p. 20).
Tutte e tre le figure sono esemplari non perché perfette, ma perché ci rispecchiano. È un’umanità di cui non possiamo fare a meno per andare a Gesù. Da queste figure possiamo imparare moltissimo. Pascal ricorda il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e dei dotti. Dio non è impassibile, ma cammina immerso nelle vicende della nostra umanità. Nel Regno di Dio siederemo a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe, e permarranno la fede, la speranza e l’amore. Abramo, Isacco e Giacobbe sono vivi in Dio, per il fatto che è il loro Dio. Fede, speranza e amore producono un’energia vitale esplosiva, che fa vivere la risurrezione fin d’ora. Gesù si rifà all’esperienza del roveto ardente per dimostrare la potenza della risurrezione.
Tre cicli
Vari studiosi moderni vedono in Gen due cicli dei Padri: Abramo (Gen 12–25) e Giacobbe (Gen 26–35). La storia di Giuseppe ha un altro genere letterario e non riguarda più i Padri.
Mello considera degno di menzione il ciclo di Isacco, anche per ragioni di struttura letteraria (costanti, ripetizioni, corrispondenze ecc.). Le asimmetrie possono far agganciare una storia a quella precedente o a quella seguente.
Mello individua la storia di Abramo (Gen 12–20, con la storia della moglie sorella come inclusione), quella di Isacco (Gen 21–26, con il patto di Beersheva che fa inclusione); quella di Giacobbe (Gen 27–33, in cui la benedizione rubata a Esaù fa pendant con la riconciliazione con Esaù). Secondo Mello, i cicli sono tre e caratterizzati rispettivamente dall’operosità fede, dalla tenacia della speranza e dalla fatica dell’amore.
«La Genesi si rivolge a una generazione ebraica che conosce l’esilio in terra caldea, nella Babilonia di qualche secolo più tardi, ed è invitata a uscirne, come Terach e Abramo» (p. 28).
Questo lo schema compositivo di Gen 12–33 proposto da Mello a p. 24. Accompagneremo il comento di Mello sulla figura di Abramo.
- Storia di Abramo (Gen 12–20)
a c. 12 Abramo in Egitto – la moglie sorella
b cc. 13-14 Lot in pericolo – Sodoma
c c. 15 Patto fra gli animali
d c. 16 Sarai e Agar
c’ c. 17 Patto della circoncisione
b’ cc. 18-19 Sodoma – Lot in pericolo
a’ c. 20 Abramo a Gherar – la moglie sorella
- Storia di Isacco (Gen 21–26)
a c. 21 Patto di Beersheva
b c. 22 Abramo e Isacco – il quasi sacrificio
c c. 23 La tomba di Sara
d c. 24 Matrimonio con Rebecca
c’ c. 25 Morte di Abramo
b’ c. 26 Isacco e Avimèlekh – espulsione da Gherar
a’ c. 26 Patto di Beersheva
- Storia di Giacobbe (Gen 27–35 [?corrige in 33?])
a c. 27 Benedizione rubata a Esaù
b c. 28 Fuga – apparizione in sogno
c c. 29 Inganno di Labano
d c. 30 I figli di Giacobbe
c’ c. 31 Patto con Labano
b’ c. 32 Fuga – lotta con l’angelo
a’ c. 33 Riconciliazione con Esaù
Abramo (Gen 12–20)
La vicenda di Abramo («padre eccelso») viene riassunta sotto la cifra dell’«operosità della fede» (pp. 27–106). Facendo giusti i conti, il padre Terach era ancora vivo quando Abramo partì da Charan (lo generò a 70 anni e Abramo lasciò Charan a 75 anni…). Ci sarà una storia familiare, segnata già in partenza da difficoltà e mancanze. «Abbandoniamo le origini favolose dell’umanità per entrare, come dice Alter, nel “regno pericoloso e cruciale della storia”, che è quello di tutta la Bibbia, e anche quello che noi stessi ancora viviamo» (p. 30).
Abramo si stacca dal padre, dalla sua protezione affettiva e dagli affetti familiari. Cammina in solitudine. A sua volta lascerà andare il figlio della promessa, Isacco, il Ridente. Lo accompagnano la moglie Sarai (sterile) e il nipote Lot (orfano).
Il racconto parte con l’esperienza della chiamata («Vai per te»). Un consiglio, più che un comando «“Va’ per te, nel tuo interesse”. Il dativo è etico: “È meglio per te che tu te ne vada”. Ti conviene. Rashi esplicita: “Per il tuo vantaggio e per il tuo bene”. Altrove, egli scrive: “Abram è senza figli, ma Abraham avrà molti figli. Sarai è sterile, ma Sarah potrà partorire”. Come dire che Abramo e Sarai non possono conseguire la loro felicità, la loro fertilità, finché rimangono nella loro terra d’origine» (p. 31). Molto determinato è cosa va lasciato, totalmente imprecisato è il guadagno da ottenere.
Da dove parla Dio? Dal futuro. Si narra una vocazione, la prima vocazione profetica della storia. La sua tensione rivolta al futuro. «È il percepire che, come scrive Michel de Certeau, “io non sono niente senza un avvenire che ignoro”» (p. 32).
Segue la benedizione: la vocazione di Abramo è un’esplosione dirompente della radice brk, “benedire”. Menzionata cinque volte, si contrappone alle cinque “maledizioni” della storia precedente, quella della torre chiamata «di Babele», confondendo la causa con gli effetti.
La storia delle origini si distacca dall’iniziativa di Abramo. Per la prima volta nella storia un autoesilio viene interpretato come una benedizione. Mello cita l’interpretazione data da Rashi alle tre benedizioni. La benedizione è ben più di figli, ricchezza e fama. È quasi un attributo divino che aderisce a una persona. La benedizione è un fatto personale, diffusiva per natura sua, senza limiti. «La nostra benedizione dipende dal riconoscimento del Dio che ha benedetto Abramo, Isacco e Giacobbe» (p. 34). Un midrash paragona Abramo a un vasetto di profumo, che, finché sta fermo, non fa sentire il suo profumo, ma una volta mosso spande dappertutto la sua fragranza.
Abramo l’ebreo
Segue la traversata del paese di Canaan. Dio farà scoprire poco a poco «la terra», «il paese», passando da nord a sud. La terra non è vuota. «La promessa è per il futuro, per una discendenza che ancora non c’è» (p. 36). Abramo lascia solo piccoli segni. «Punti di riferimento di una geografia interiore, nella quale si inscrive la promessa» (ivi). Gli altari di Abramo sono testimonianza della sua fede nel non ancora visibile, in quella parte della promessa che rimarrà sempre incompiuta.
La bellezza di Sarai fatta passare per sorella salva il mondo (Gen 12,10-20). Ella si presta al gioco e, in tal modo, tutela la benedizione e salva la vita ad Abramo. La benedizione di Dio si espande, percorrendo anche vie contorte e moralmente discutibili. La moglie bella e il re straniero è una “scena tipo” che si ripete due volte nella Genesi. Qui, però, è coinvolto il Faraone e la vicenda di Abramo anticipa quella del suo popolo, è una profezia dell’Esodo.
Gen 13–14 presenta Abramo come l’ebreo, con gli episodi della separazione da Lot (che essendo orfano e Abramo senza figli, era nipote e il più probabile erede di Abramo, che per questo lo prese con sé). Erede della benedizione è Abramo, non Lot. Le scelte di Dio non si possono sindacare, ma possono essere meditate nelle loro modalità di esplicazione. Abramo non sceglie «per sé», mettendo in pericolo la promessa o rinchiudendola in una prospettiva ristretta. Abramo guarda lontano, senza lasciarsi sedurre dal presente. È la differenza tra il credente e l’incredulo. Il «non scegliere per sé» diventa una precisa strategia, quasi un atto di fede.
Si mostra in seguito l’inattualità del credente (Gen 14,1-16), la sua giustizia e la figura di Melkizèdeq, del re di giustizia – re di Salem – che, in quanto anche sacerdote, benedice e omaggia Abramo (14,17-24). Un sacerdote cananeo venera il Dio Altissimo, creatore del cielo e della terra, come lo venera Abramo. Un brano di grande importanza ecumenica. Questo re-sacerdote diventerà in seguito una figura messianica.
Abramo è presentato come «ebreo» («passante», «che viene da oltre», cioè dalla Mesopotamia). Bereshit Rabbà da una ragione etnica (discendente di Ever, discendente di Sem); una linguistica, in quanto parlava la lingua ebraica (in realtà aramaica); la terza spiegazione è profonda e spiega l’essenza del giudaismo: egli è detto l’ebreo «perché tutto il mondo andava da una parte e lui andava dall’altra». È ebreo perché va controcorrente, e quindi esposto alla diversità e alla solitudine, a penosa inattualità in questo mondo.
Abramo fa giustizia, recupera i beni sottratti dai re ingiusti. Zedeq era il nome dell’antica divinità gerosolimitana. Ora la città si chiama Salem, Jeru-salem. Gerusalemme è nominata solo qui da Genesi: una città fondata sulla giustizia. Abramo offre al re-sacerdote la decima di tutto. Ci rimette del suo.
La fede di Abramo come giustizia
In Gen 15 Abramo è visto come un profeta e non un astrologo. Dio ricompensa la giustizia mostrata da Abramo dicendo che è il suo scudo e a lui darà una discendenza numerosa come le stelle del cielo. La ricompensa è ben protetta, sarà incredibilmente grande.
Il problema principale della storia di Abramo è la discendenza, e Sarai è sterile. Lot se ne è andato, ma il discendente non sarà il maggiordomo ma il figlio della promessa.
Abramo è fatto uscire dalla tenda, dalle sue convinzioni e sicurezze, a guardare le stelle, a fidarsi cioè della provvidenza di Dio. Ma Abramo non è un astrologo idolatra, ma un credente. Abramo deve uscire anche dal proprio futuro, pensato quale determinato dagli astri. Secondo il midrash, Abramo è invitato a uscire dal proprio destino, dal determinismo. Rashi dice di Abramo: «Tu sei un profeta, non un astrologo».
Abramo fa credito a Dio, gli fa un prestito, fidandosi della sua parola. Crede in lui: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». «Credette» (radice ‘mn) è la parola chiave di tutta la storia (cf. Gen 15,6). Essa illumina anche tutta la vicenda precedente.
Il sì di Abramo non è solo interiore, ma pratico, con risvolti economici e giuridici. È considerato un atto di giustizia da parte di una persona e l’altro si sente in obbligo verso di lui. Paolo parlerà della giustificazione indipendentemente dalle opere, ma parlerà anche della fede che si rende attiva mediante l’amore (cf. Gal 4,6). «Per dirla con la Genesi: la fede è un’apertura di credito, un’operazione di natura quasi commerciale, con tutti i rischi che questo comporta» (p. 54).
Qui la fede di Abramo è «inattiva»: in qualità di creditore, Abramo però non richiede un pegno a copertura del rischio. Circa la promessa interiore della discendenza, Abramo non chiede un segno. Lo chiederà per la promessa del possesso della terra, realtà da regolare con i popoli vicini. Per la realtà personale della discendenza, invece, si fida totalmente di Dio, senza chiedere nulla in garanzia e in contraccambio e questa è la sua giustizia. Per la terra egli chiede un segno. È legittimo farlo. Importante è riconoscerne la natura intermittente, occasionale e di subordinarlo alla fede, che va al di là e lo supera sempre.
Il segno è dato tramite un antico rituale. Si esprime con una fiaccola e un forno fumante che attraversa gli animali divisi a metà. Il forno fumante allude a tutte le sciagure che si abbatteranno sui discendenti di Abramo. Il patto di alleanza ha un prezzo molto alto. La fiaccola di fuoco è invece segno di speranza. Nonostante tutto, la promessa di Dio resterà sempre accesa.
Il segno dato ad Abramo è ambiguo. Della terra promessa non avrà un facile possesso, ma, nonostante tutte le tenebre, apparirà sempre una luce. La salvezza è il fragile segno che apparirà in mezzo al forno fumante, il male evidente. Questo fragile segno è affidato alla fede di Abramo. La profezia incastrata nel patto degli animali squartati afferma la vecchiaia felice di Abramo, non parla del possesso della terra, ma preannuncia che il suo possesso sarà differito di varie generazioni. Più probabile, secondo Mello, è l’indicazione di quattro generazioni, cento anni. Se i Patriarchi furono «aramei erranti», la loro migrazione in Canaan e in Egitto va situata nel XIV secolo a.C. e non prima. I quattrocento anni indicano un periodo lungo, non verificabile da una sola persona, per quanto longeva come Abramo.
Es 3,7 si può completare: «Dio seppe le sue sofferenze». Abramo profeta «sa» da Dio in anticipo la sofferenza del suo popolo. Dio «dà» la terra ad Abramo, nel presente. «Il dono della terra è già attuale, quattrocento anni prima, perché sempre attuali sono le sofferenze che lo rendono possibile» (p. 60).
Offrendo la schiava Agar ad Abramo perché gli doni un figlio, Sarai compie una scelta precoce, immatura, troppo in anticipo sui tempi divini. Una scelta inadatta, troppo umana perché nasca il figlio della promessa.
Dio è un Dio che mi vede (Gen 16), con la scelta di Sarai e il tema del vedere e dell’essere visti (Agar). Agar è la prima donna cui nella Bibbia appaia un angelo, una donna che «veda» Dio. Ella osa addirittura dare un nome a Dio: «Dio della mia visione». «Ho visto colui che mi vede». Nome di un luogo, ma soprattutto nome di un’esperienza. Il midrash rovescia l’ammonimento dell’Esodo: «Chi vede il volto del Santo – sia benedetto – non muore».
Abramo padre di molte genti
Gen 17 vede Abramo di novantanove anni che riceve da Dio Onnipotente la promessa di un figlio. Mello cita la bella interpretazione rabbinica «stiracchiata» del nome El Shaddai: «Dio che basta, El She-dai».
Abramo è descritto come futuro padre di molte genti, nostro padre, che può essere fecondo solo se sarà integro camminando davanti a Dio – non «con», come era per Noè –. Egli è uno che apre nuove piste nella routine del mondo. Il nome di Abram è cambiato e dilatato in Abramo (in ebraico si inserisce una h). Il valore numerico del nome è ora di 248, il numero delle membra umane. Il nome indica una certa perfezione fisica. Realizza il comando di «essere integro».
Abramo è un uomo di fede, ma moralmente perfettibile. Una certa integrità morale è necessaria perché si compiano le promesse di Dio. La benedizione della fecondità è espressa all’indicativo futuro, raddoppiata: una posterità biologica e una spirituale. Sarà padre degli ebrei e anche di molti gojjim, di molte nazioni. Adamo è progenitore del genere umano, Noè è il restauratore che lo ha preservato dall’estinzione, Abramo è padre di tutti i credenti.
Abramo conclude il patto con Dio tramite il segno della circoncisione; è la realtà stessa del patto con Dio, inscritto nella carne, un segno permanente (Gen 17,9-14.23-27).
Paradossalmente Abramo realizza la sua perfezione tramite una mutilazione fisica. È un segno che la perfezione si ottiene non per addizione, ma per sottrazione di qualcosa che possediamo.
Abramo riceve una «promessa quasi ridicola» (Gen 17,15-22, p. 74). Sarai deve cambiare il nome in Sara (una h finale al posto della i). Una nuova personalità permette la fecondità.
Ad Abramo è promesso un figlio ed egli gioisce interiormente ma forse manifesta anche qualche dubbio sulla fattibilità della cosa. Il Targum cambia «rise» con «gioì». Mello pensa a un «sogghigno di incredulità, per non dire di derisione» (p. 76), lo stesso espresso da Sara nel capitolo successivo (e per questo rimbrottata da Dio).
Quando nascerà Isacco, Jizchaq = «Riderà», rideranno tutti (compreso Dio)… È il sorriso di sorpresa di chi si trova spiazzato. L’inverosimiglianza dell’evento è davvero grande e fa ridere tutti, il lettore compreso. Dio si affida alla soluzione più semplice. «Il riso di Abramo e di Sara ci attesta in maniera irrefutabile che le promesse divine, nelle dinamiche concrete in cui si attuano, sono talmente diverse dalle nostre aspettative, e per lo più così semplici, da sembrarci quasi ridicole» (p. 77).
Dio si affida alla soluzione più semplice delle sue promesse, così diversa dalle aspettative umane nella sua modalità di attuazione da sembrare ridicole.
Tre angeli ma Uno
Gen 18 racconta dei tre angeli, tre in uno, seduti alla mensa di Abramo. Egli si rivolge a loro al singolare ed essi rispondono, singolarmente, al singolare. L’interpretazione cristiana vi vede un’allusione esplicita alla Trinità, mentre quella ebraica vi vede tre compiti degli angeli: consolare Abramo dopo la circoncisione, annunciare la nascita di Isacco, annunciare la distruzione di Sodoma. Si preserva la diversità delle persone. «…tre sono gli angeli apparsi ad Abramo, ciascuno con un suo particolare messaggio. Ciò non di meno, Abramo, che ne ha visti Tre, ne ha adorato Uno solo. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe è un Signore Uno!» (p.79).
Dopo un pranzo sontuoso, viene annunciata la nascita di un figlio. Dio è ingegnoso nel realizzare l’impossibile (Gregorio di Narek; Gen 18,9-15). Dio fa il miracolo di far ridere Sara e questo la rende giovane e feconda. Dio non è l’Onnipotente, ma l’Onnipossibile, perché non può tutto, ma trova sempre una soluzione. Non si accentua la potenza, ma l’ingegnosità.
Viene esposto il segreto dei profeti (Gen 18,16-21). Abramo non sa fino all’ultimo chi ha di fronte e i disegni di Dio. È un profeta che ha una conoscenza profonda delle cose perché le vive per esperienza, ma non è un indovino. Dio rivela ai profeti ciò che pensa e Abramo intuisce cosa pensa Dio su Sodoma, il suo ragionare tra sé e sé. Abramo capta la voce che parla a sé stessa nel silenzio (in Nm 7,89 Mosè ode una voce che si parlava – al riflessivo – da sopra il propiziatorio).
Due angeli vanno, mentre Abramo resta con YHWH. Ciò aiuta a capire come mai Abramo ne vedesse tre ma che ne adorasse solo uno. Egli sta davanti a Dio con coraggio, si avvicina a lui osando di resistergli e di opporglisi. Afferma Rashi: «Abramo utilizzò tutti questi mezzi: egli si avvicinò a Dio per rivolgergli dure parole, per riconciliarsi con lui, e per pregarlo».
Abramo lotta strenuamente con Dio (Gen 18,22-33). La preghiera è anche lotta e la scena riflette una disputa giudiziaria. Abramo è avvocato difensore della città chiamata in giudizio da Dio che vuole vedere di persona la verità della querela sporta contro Sodoma. Mello propone una traduzione libera, ma più comprensibile, per Gen 18,20-21: «Il grido di Sodoma e Gomorra è grande, e il loro peccato molto grave. Voglio scendere a vedere; se davvero fanno come ho sentito dire, le distruggerò. Se no, almeno lo saprò».
Abramo pone in termini assoluti il problema di giustizia ma egli è anche parte in causa perché a Sodoma abita il nipote Lot. Noè tacque all’annuncio del diluvio, Abramo invece lotta con Dio. Lotta perché Dio salvi anche chi non è giusto. «L’unico modo per essere giusti, cioè per non far morire i giusti, è salvare anche gli empi: così sostiene Abramo» (p. 88). «Non basterà: l’intercessione di Abramo non riuscirà a salvare Sodoma dalla distruzione. Però il suo coraggio e la sua umiltà hanno posto il problema in termini rigorosamente esatti, che non lasciano scappatoie neppure a Dio» (p. 89).
Sodoma e Lot in pericolo
In Gen 19–20 è biasimato il peccato di rifiuto dell’ospitalità prima ancora che quello della sodomia. È l’opposto dell’ospitalità abramitica: avarizia, incapacità di condivisione, ostilità verso gli stranieri, fino alla vera e propria violenza fisica o all’aggressione sessuale. C’è uno solo che si salvi, che pratica l’ospitalità degna dei figli di Abramo: Lot. La giustizia di Lot lo salverà, ma non sarà sufficiente a salvare tutta la città.
Si può pensare a un’insufficienza della preghiera di Abramo e della giustizia di Lot. Abramo si ferma a dieci, Geremia ha il coraggio di arrivare al numero uno. «Geremia, questo coraggio lo avrà: “Percorrete le vie di Gerusalemme, cercate nelle sue piazze se trovate un uomo, uno solo che agisca giustamente, e io le perdonerò” (Ger 5,1)» (p. 93).
Per essere giusti però non basta essere innocenti, ma è necessario esserlo «nella città», sporcandosi le mani per un impegno attivo, «politico». Così un commento ebraico. Lot salva a stento sé stesso e i suoi familiari, e non tutti. È pura grazia.
Lot è presentato come l’uomo del mattino, con la sua giustizia. Esita, ma è aiutato dagli angeli, dalla grazia di Dio, a sottrarsi a situazioni infernali che attanagliano anche noi. Occorre non guardarsi indietro, non lasciarsi attanagliare dalla nostalgia. Avere memoria è necessario, essere nostalgici è letale. Non bisogna guardare indietro, per vedere se il cammino fatto è stato corretto. Occorre guardare avanti, alla prosecuzione della liberazione che Dio ha iniziato. Non bisogna lasciarsi ingabbiare da nostalgia, autocompiacimento. La vita si isterilisce, diventiamo statue di sale come la moglie di Lot.
Sollecitudine mattutina. L’uso di tutta la terra
È necessario essere solleciti fin dal mattino (Gen 19,27-29). Nella tradizione ebraica la preghiera della notte è attribuita a Giacobbe, quella vespertina a Isacco e quella mattutina ad Abramo.
Abramo è l’uomo del mattino. Tre volte nella Genesi si ricorda che «si alzò di buon mattino» (Gen 19,27; 21,14; 22,3). Mostra così una particolare sollecitudine per qualcuno di caro: il nipote, la sposa Sara, il figlio Isacco. È l’uomo del mattino, perché vive intensamente la responsabilità verso gli altri.
Si ricorda l’incesto – l’uso di tutta la terra, ma non di Israele –. Genesi mostra una storia nazionale sotto le spoglie una storia familiare. La linea principale di Abramo-Isacco-Giacobbe è imparentata con le altre popolazioni, le «famiglie della terra». Abramo genera Ismaele, progenitore delle tribù arabe del deserto. Le figlie di Lot generano dal loro padre i popoli di Moab e di Ammon. Da Isacco nasce Esaù, eponimo degli Edomiti del sud della Trangiordania. Al tempo del narratore esistevano quindi legami di parentela fra ebrei e arabi.
Genesi ricorda quattro genealogie, segno di interesse per quei popoli: gli Aramei (gli attuali Siriani) dai quali discende il clan di Abramo; i Madianiti, discendenti di Chetura, terza moglie di Abramo (Gen 25,1-4); quella degli Ismaeliti (Gen 25,12-18) e degli Edomiti (l’intero c. 36). Tutte le popolazioni circostanti Israele sono imparentate fra loro e partecipi della benedizione di Israele. Mancano in Genesi le genealogie dei Moabiti e degli Ammoniti (cf. Dt 23,4).
Il motivo non è dovuto solo al fatto che non lasciarono passare Israele in uscita dall’Egitto, ma perché essi sono frutto dell’incesto delle figlie di Lot con il padre da loro ubriacato. Pensano, infatti, anche che non ci sia nessuno sulla terra, che non ci sia cioè alcun parente prossimo con cui prolungare la discendenza all’anziano padre. Pensano di agire correttamente. L’uso dell’incesto è costume dei cananei, ma abominio per gli ebrei (cf. Lv 18,7). Canaan vide la nudità del padre Noè ubriaco, e questo è considerato un peccato grave. Un’unica maledizione colpisce Cananei, Edomiti e Moabiti e forse per questo Lot sparisce dalla narrazione successiva.
Timor di Dio
Gen 20,1-18 torna la scena tipo della bella antenata e del re straniero. Si ricorda il timor di Dio mostrato da Abimelek, re della città filistea di Gerar, che, avvertito da Dio, non si accosta a Sara, dopo averla presa in quanto presentatagli da Abramo come sorella (poi egli chiarisce che era moglie e sorellastra).
Abramo temeva che lo avrebbero ucciso per prendere la bella Sara, perché pensava che in quel luogo non ci fosse il timor di Dio. Per la preghiera di Abramo, Dio guarisce dalla sterilità tutta la casa di Abimelek.
L’anacronismo storico (i Filistei si insediarono in Canaan non prima del XII sec. a.C.) rivela la distanza tra il tempo del racconto e quello del narratore, ma non obbliga a screditare tutto il racconto.
Che Abimelek fosse filisteo lo è detto esplicitamente nei racconti di Isacco. Egli mostra grande sensibilità morale e religiosa. Per la prima volta Dio si rivela in sogno a un non ebreo. Questo è collegato alla rettitudine della sua coscienza. Dio può rivelarsi a ogni uomo che abbia «un cuore integro e mani pulite».
Abimelek espia il quasi-peccato con la restituzione della moglie, le scuse e un’esorbitante somma di denaro. «Quello che si traduce, di solito, con “risarcimento”, è appunto un “velo sugli occhi”, velo che portavano le donne sposate: quindi una sorta di dichiarazione pubblica che Sara è sempre appartenuta a suo marito. Sara, in effetti, non ha subito violenza, ma ha patito un danno morale» (p. 104). Abramo impara che «in quel luogo il timore di Dio c’era già anche prima di Abramo, e ad insegnarglielo è stato proprio un re straniero» (ivi).
Il testo di Mello, che non possiamo seguire ulteriormente, è ricco di suggestioni interpretative, sollecitate spesso da citazione tratte dal giudaismo rabbinico e medievale.
Isacco (Gen 21–26)
Nella prospettiva del commentario di Mello, Isacco è rappresentativo della tenacia della speranza (pp. 107–156). Egli rappresenta il sorriso di Dio, che collega riso e speranza, là dove uno si trova, facendo anche alleanze con i filistei. «Il silenzio parlato tra padre e figlio»: così Mello titola il drammatico capitolo di Gen 22. Ci si incammina fra prova ed esperienza. Alla domanda di Isacco, Abramo risponde con la certezza che YHWH provvederà, e la sua giustizia sarà riconosciuta dalla voce dell’angelo per una seconda volta.
Isacco è un forestiero e residente (Gen 23). Abramo soffre della morte di Sara, si ritrova senza diritto di proprietà, con il solo possesso di un sepolcro, pagato a caro prezzo. Il matrimonio di Isacco è cosa che procede da YHWH. C’è un incontro per caso, tra il servo di Abramo e la giovane Rebecca, che decide intrepidamente di partire (Gen 24).
La terra promessa (Gen 25–26) vede la compresenza di Isacco, Ismaele e gli altri. Isacco riceve dal Signore la promessa che la terra produrrà il centuplo, ma una «semplice carezza» (Mello) mette in difficoltà Isacco nei confronti del re Abimelc al quale Rebecca è presentata come sorella di Isacco. Segue una guerra per i pozzi e un banchetto che sigla la pace.
Giacobbe (Gen 27–33)
La cifra con la quale Mello pennella la figura di Giacobbe è quella della «fatica dell’amore» (Gen 25-35; pp. 157 – 222). Gen 25 e 27 intrecciano semplicità e frode, sincerità e autenticità. Rebecca ama Giacobbe, Isacco prova un tremito ed Esaù un pianto sconsolato. Gen 28 vede gli angeli di Dio al lavoro. Si narra dell’andata e del ritorno del viaggio di Giacobbe in fuga da Esaù, il saliscendi degli angeli di Dio in un luogo che Giacobbe non sapeva essere «la casa di Dio»! Gen 29 è il lungo tempo per abbracciare, con l’amore di Giacobbe duro come la pietra, tanto ama Rachele.
Gen 30 oscilla tra vita e morte. Rachele cerca un figlio, altrimenti andrà incontro alla morte, preferibile alla mancanza di discendenza. C’è posto per un odore afrodisiaco e una forza esplosiva (Gen 30,9-43). In Gen 31 si mostra il volto furbo di Labano, con un «furto del cuore» (Gen 31,1-21), la presentazione del Dio di mio padre (Gen 31,22-42) e l’erezione di un mucchio di pietre (Gen 31,43-54) a sigillare la pace e la convivenza.
I cc. 32–33 del libro della Genesi sono drammatici. All’angoscia di Giacobbe per l’incontro con il fratello Esaù si somma la notturna lotta estenuante con l’angelo del guado dello Iabbok e il cambiamento del nome Giacobbe in Israele. A un cambio di identità (Gen 32,14-33) corrisponde un cambiamento di strategia (33,1-11). Giacobbe riuscirà a tornare a casa sano e salvo, nell’incontro pacifico col fratello Esaù (33,12-20).
Nelle pp. 223-224 Mello riporta le opere citate lungo il suo commento narrativo. L’autore si avvale della sua profonda conoscenza della lingua ebraica e dei commenti medievali alla Genesi, per far gustare il tenore originale di molte parole, espressioni e modi di dire. Il testo originale emerge in tal modo con le sue punte di novità illuminanti e toccanti per la loro ruvidezza e fascino poetico.
Il volume si presenta come un’accurata e affascinante cavalcata nel rapporto di fede, speranza e amore dei personaggi umani, i nostri Patriarchi, nei confronti del Dio vivo e vero, unico e salvatore, promettente e giustificante, alleato fedele ancorché esigente con i suoi partner.
Il racconto di Genesi 12–33 è illuminante per la vita del credente di ogni tempo e per ogni uomo e donna che voglia vivere alla luce di una speranza alta, che fa fiorire la vita oltre ogni grettezza e chiusura del proprio cuore. Una vita «divina» e fraterna.
Alberto Mello, Il Dio Abramo. Riflessioni sulla Genesi, Edizioni Terra Santa, Milano 2023 (prima ed. 2014), pp. 224, € 17,00, ISBN 9791254711859.