La quarta monografia 2023 della rivista Presbyteri è dedicata alla pesantezza nella gestione dei beni da parte dei preti. «Tale pesantezza è certamente dovuta a molteplici fattori che vanno da un’impostazione giuridico-ecclesiale complessa alla difficoltà di trovare criteri per l’uso e l’amministrazione dei beni fino a una mancanza di competenze». La monografia si propone di «individuare nella Scrittura, nella Tradizione della Chiesa e nei documenti magisteriali alcuni criteri di discernimento spirituale che possano essere utili, riflettendo anche sulle finalità per cui la Chiesa ha e amministra i suoi beni e cercando di intravedere strade per il futuro». Pubblichiamo di seguito l’editoriale del numero.
Il tema della gestione dei beni è una delle cause non marginali che creano difficoltà e pesantezza nella vita del presbitero.
Il senso di oppressione, che talvolta si manifesta anche come rifiuto psicologico di coinvolgersi in questa dimensione, è dovuto a molti fattori: da un’impostazione giuridico-ecclesiale complessa (basti pensare al compito della “legale rappresentanza” che spesso impone dei carichi da 90 sulle spalle dei presbiteri), alla reale difficoltà di individuare dei criteri per l’uso e l’amministrazione dei beni (che a volte possono sfociare in conflitti profondi all’interno della comunità), per arrivare ad una percezione di totale inadeguatezza per mancanza di competenze in questo ambito.
È importante più che mai intravedere una strada per un futuro molto prossimo, se non per il presente, che necessariamente passa attraverso la corresponsabilità laicale e, probabilmente, anche attraverso la valorizzazione di alcune ministerialità specifiche.
Quando l’affanno “gestionale” soffoca le relazioni
La gestione dei beni materiali, e con essa tutte le modalità operative e concrete che un presbitero in servizio pastorale è chiamato a svolgere, può diventare una notevole fonte di affanno e preoccupazione, oppure può essere percepita come una sorgente di reale gratificazione, dove toccare con mano, nel concreto, il frutto del proprio operare.
Questo non è altrettanto verificabile nell’ambito dell’annuncio e dell’evangelizzazione.
«Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?» (Lc 10,40). Il dialogo tra Gesù e le sorelle di Betania, e in particolare con Marta, è una provocazione a una verifica su sé stessi, quando ci si trova impegnati sul fronte operativo. Ciò che Gesù rimprovera a Marta, lo sappiamo bene, non è la sua generosa disponibilità, quanto piuttosto l’impossibilità di trovare tempi e spazi per relazionarsi personalmente con lui[1].
«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,41-42).
Già nel racconto di Genesi, all’uomo Adamo, signore di ogni cosa creata, manca un “tu” con cui intrecciare una relazione. Anche un presbitero, come tutte le persone, ha bisogno di relazioni vere e profonde. Per il proprio carattere, per la formazione ricevuta e per mille altri motivi, spesso i presbiteri si trovano a privilegiare dei ruoli operativi e gestionali, pure importanti, ma spesso anche delegabili, piuttosto che appassionarsi nel coltivare un vero e profondo tessuto di relazioni. Ciò vale sia per la vita comunitaria che per la crescita in fraternità di un presbiterio.
Ruoli e identità
Tanti sono i modi per vivere e interpretare un servizio nella Chiesa. Esso, coinvolgendo a fondo chi lo vive, può prestarsi ad una trasparenza che lascia emergere la carica di umanità che lo sorregge o favorire un’opacità che privilegia il “ruolo” stesso, nascondendo la vera identità di chi lo incarna.
I ruoli, soprattutto quelli gestionali e operativi, per loro natura sono ambivalenti. Possono tendere ad una reale ricerca di efficacia o impaludarsi in forme di ostentato efficientismo onnipotente e onnipresente, che cerca solo una personale visibilità. Possono esprimere una carica di umanità e di intimità che qualifica le relazioni di un presbitero e di qualsiasi persona o possono isolare in un mondo solipsistico e individualista. Possono proiettare in forme di disinteressato servizio oppure divenire uno stile di vita segnato dal narcisismo e teso a garantirsi un successo personale. Evidentemente queste polarità si collocano agli estremi di qualsiasi esperienza di vita e sono poi mediate dalla storia personale di ciascuno oltre che dai contesti in cui si vive e si opera.
C’è un ulteriore aspetto a cui i ruoli operativi e concreti si prestano. Talvolta essi divengono un paravento, una maschera, una dinamica difensiva che nasconde un’identità personale povera di motivazioni e carente sul piano dell’umanità.
Si corre il rischio di salire sul predellino del “ruolo operativo e gestionale”, senza curarsi di essere in sintonia con il cammino della propria comunità cristiana. Che cosa può aiutare i preti ad essere uomini non solo di parole ma soprattutto della Parola? Ad essere uomini di comunione e non di faziosità contrapposta? Ad essere uomini capaci di fare dono di una moneta che non si svaluta, di un abito bianco che copra la nudità dell’uomo proprio fratello, di un collirio che curi gli occhi e aiuti a vedere con nitidezza il valore della vita? (cf. Ap 3,18).
«Non c’è esperienza d’infinito sulla terra, non esperienza di vita riuscita, di vita bella, lontano dalle relazioni umane. E quando accogli l’altro nello spazio della tua bontà, fra i tuoi beni, “fra le tue cose care” (Gv 19,27) allora, solo allora, ritrovi la bellezza del mondo e la bontà di tutte le cose»[2].
Gestione dei beni e stili di comportamento
In un articolo di Luca Bressan si delinea una cornice di riferimento per una riflessione su questo aspetto che non sia solo impostata in un’ottica giuridica o economica.
Certo, siamo di fronte a questioni complesse, come complessa è la vita stessa.
«Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata». È un aforisma di George Bernard Shaw attuale per tutte le problematiche che emergono a livello ecclesiale e pastorale e per molte altre ancora[3].
Recenti studi culturali e antropologici hanno messo in luce che la gestione dei beni può essere assunta come uno strumento per “dire” la propria identità, per rivelare chi siamo e per manifestare il nucleo profondo della nostra fede e della nostra visione del mondo[4].
È un rapporto che si concretizza in stili e comportamenti diversi, facendo riferimento ad un quadro ideale, ispirato ai criteri evangelici e tenendo conto di un vissuto quotidiano delle comunità cristiane, che è assai più complesso e intricato di quanto il riferimento ideale possa proporre. Non si può neppure prescindere dall’influsso che esercita l’attuale cultura e società, con la sua organizzazione e strutturazione economico-assicurativa e la spinta del mondo dei “social”. L’immaginario collettivo che ne risulta influenza i comportamenti pratici, con ricadute molto differenziate nel modo di vivere e di esprimere l’esperienza della fede cristiana nella comunità ecclesiale.
Attingendo ulteriormente all’indagine proposta da Luca Bressan, il rapporto con la gestione dei beni e del denaro permette al prete di sublimare le grandi domande antropologiche che lo abitano come uomo (lasciare una traccia di sé, mostrare il proprio valore, compensare radici latenti di disistima) e, allo stesso tempo, di convivere con le proprie paure (il domani, la malattia, la solitudine). Sono domande e paure spesso non tematizzate, perché raramente c’è l’opportunità di confidarsi e di parlare di questi aspetti. Molti ostacoli ad una pastorale d’insieme, ad una reale pastorale integrata, sono attribuiti dai preti alla difficoltà di superamento di questa soglia, alla fatica di riuscire a condividere non solo l’effettiva gestione dei beni, ma anche soltanto un discorso, una riflessione su come impostare il rapporto prete-beni temporali[5].
«Ci siamo ingolfati in affari terreni, e altro è ciò che abbiamo assunto con l’ufficio sacerdotale, altro ciò che mostriamo con i fatti». È una affermazione di san Gregorio Magno (Omelie sui Vangeli, 17), che mantiene intatta la sua attualità. «Quando il presbitero è appesantito dalla gestione dei beni ecclesiastici, rischia di perdere di vista l’essenziale o, comunque, di vedersi sottrarre tempo ed energie a danno di una serena attività apostolica»[6].
Ogni presbitero è chiamato a vivere l’amicizia con il Signore vigilando su una pervasiva concezione consumistica della vita, che nulla ha a che vedere con la sequela. Le incombenze connesse al ministero non possono prendere il sopravvento e trasformare il sacerdote in un burocrate o un funzionario: anche l’amministrazione e la gestione di enti e beni della Chiesa, infatti, devono essere affrontate come un esercizio di responsabilità pastorale, da vivere con “sobrietà ed essenzialità”.
Occorre avere la pazienza di lavorare, dentro i nostri presbitèri, non soltanto per educare e sviluppare discorsi morali sul rapporto prete e denaro, prete e gestione dei beni temporali, quanto piuttosto per favorire l’immaginazione di una figura di prete che, nella costruzione della propria identità, possa tener conto delle dimensioni fondamentali che il rapporto con queste incombenze viene a toccare: la dinamica della sequela personale e comunitaria, il compito pedagogico e sacrale nei confronti della gente, la nuova grammatica economica e civile che si fa strada, con sempre maggiore forza, anche dentro la vita ecclesiale[7].
In tutto ciò c’è un punto fermo di riferimento: il rapporto sia con la gestione dei beni che con il denaro stesso, è una testimonianza unica e privilegiata della serietà e coerenza con cui la Chiesa assume e vive il Vangelo di Gesù. Esso propone, con semplicità e immediatezza, il modo di prendere sul serio la fede cristiana.
Ci sono di incoraggiamento le parole di papa Francesco: «Così come è necessario il coraggio della felicità, ci vuole anche il coraggio della sobrietà»[8].
[1] Cf. N. Dal Molin, «Editoriale», in Presbyteri 56(2022) 6, 403-409.
[2] E. Ronchi, commento a Lc 12,13-21, 1° agosto 2004.
[3] G.B. Shaw (1856-1950) è uno scrittore e drammaturgo irlandese. Nel 1925 vinse il Premio Nobel per la letteratura, «per la sua opera carica di idealismo e umanità, la cui satira stimolante è spesso infusa di un’originale bellezza poetica».
[4] L. Bressan, «Preti, denaro, identità», in Tredimensioni 7 (2010), 238-246.
[5] Questi elementi dell’identità del presbitero italiano sono analizzati da Luca Bressan nei contributi all’inchiesta curata da Franco Garelli, Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, il Mulino, Bologna 2003.
[6] Segreteria Generale della CEI (a cura), Lievito di Fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2017, 43-51.
[7] S. Guarinelli, «Il prete, il denaro, la povertà», in Tredimensioni 1 (2004), 253-266.
[8] Papa Francesco, Messaggio per la XXIX Giornata Mondiale della Gioventù, 13 aprile 2014.
non è questione di preti o laici, di fatto per esperienza decennale un parroco (un uomo) gestisce i soldi come vuole in modo personale, e capita spesso che il primo farà l opposto del secondo e il terzo farà ancora cose diverse, la parrocchia non avrà una coerenza economica
Io ho fatto il volontario in parrocchia e proprio adesso mi sono allontanato, credevo che un laico potesse crescere come cristiano con un servizio “ora et labora”, invece ho scoperto che vige il “labora e poi le esigenze di crescita”. Così oggi penso che troppo viene chiesto al parroco (e in cascata ai volontari), di cose che finiscono per distoglierlo dal suo ministero oltre che gravarlo di stress. Grazie
Ho avuto esperienze in quattro piccole parrocchie venete: posso dire che per la gestione patrimoniale ed economica dei beni ecclesiastici per il parroco esiste anche la dimensione del servizio. Molto dipende comunque anche dai collaboratori che trovi e da come i predecessori hanno gestito quest’ambito (conti e manutenzioni in ordine o debiti, degrado, abbandono…).
Questo è un problema veramente difficile da affrontare.
Il prete non può essere un amministratore.
Delegare il tutto ai laici?
Soluzione in apparenza semplice ma sostanzialmente insostenibile.
In prospettiva un prete che non ha il controllo dei beni è anche un prete ricattabile.
La libertà passa anche attraverso l’indipendenza economica.
Come potrà il parroco esercitare la propria funzione se il consiglio economico parrocchiale può decidere contro di lui come indirizzare le risorse economiche?
Si arriverebbe al parroco scelto dai parrocchiani e poi lo stesso potrebbe accadere anche ai vescovi….
Insomma attenzione.