Nel luglio scorso i Ministeri delle Imprese e del Made in Italy e quello dell’Ambiente hanno preannunciato l’aggiornamento della mappatura delle miniere italiane in vista della codificazione delle norme di riapertura delle stesse, al fine, dichiarato, di ridurre la dipendenza dalla Cina, in fatto di materie critiche fondamentali utili alla transizione ecologica. Chiediamo a Nicola Armaroli – chimico del CNR e coordinatore del gruppo di lavoro sull’economia circolare e i materiali critici della Società Chimica Europea – di chiarire il significato e la portata dell’indirizzo governativo.
- Nicola, cosa sono i materiali critici?
Gli organismi tecnici dell’Unione Europea definiscono critici quei materiali che entrano in un elenco redatto per la prima volta nel 2014. Per l’UE sono da ritenersi critici i materiali “più rilevanti per l’intera economia europea”, e “ad alto rischio di interruzione delle forniture”. I rischi possono essere ad esempio determinati dalle dislocazioni geografiche delle risorse, che sono le più varie in questo mondo in subbuglio.
All’interno dei 34 materiali critici attualmente indicati dall’Unione, 16 sono classificati anche come strategici ossia “fondamentali per le tecnologie rilevanti ai fini delle ambizioni verdi e digitali dell’Europa e per le applicazioni nel settore della difesa e dello spazio”. Non trascuriamo, dunque, questo aspetto: i materiali critici e strategici hanno molto a che fare anche con la sfera militare.
Gli elenchi, sia dei critici che degli strategici, non sono, quindi, fissi e immutabili. Dipendono dall’andamento dei mercati e dalla situazione internazionale in continua evoluzione. L’Unione Europea li aggiorna ogni 3 anni.
- Facci capire, concretamente, a cosa servono e perché sono così importanti questi materiali.
Posso fare qualche esempio. La roccia fosfatica – uno dei materiali classificati dalla UE come critici – serve per produrre i fertilizzanti al fosforo, quindi, in pratica, per sfamare il mondo. L’elio – un elemento chimico aggiunto all’elenco quest’anno – serve al settore scientifico e medicale per il raffreddamento a bassissime temperature (vicino allo zero assoluto!) delle apparecchiature che realizzano risonanze magnetiche per analizzare in dettaglio strutture molecolari e tessuti biologici.
Altre materie critiche servono all’industria metallurgica per produrre acciai e leghe particolari da utilizzare ad esempio nella meccanica e nell’elettronica: un settore, quest’ultimo, in cui l’Europa, come noto, si trova in netto ritardo rispetto a Stati Uniti e Asia.
- Hai citato l’elio, che è un elemento chimico. Ci spieghi cos’è la tavola periodica dell’abbondanza relativa degli elementi (qui sopra).
Nai 2018 – in vista dei festeggiamenti per il 150esimo anniversario della tavola periodica degli elementi, che fu celebrato nel 2019 – proposi ai colleghi del board della Società Chimica Europea di riprendere una tavola molto istruttiva che era stata pubblicata nel 1976 e poi quasi dimenticata. Lo abbiamo fatto, aggiornandola e inserendo nuove informazioni. Eccola qui, è una sorta di carta d’identità materiale della Terra.
Ogni casella di questa tavola periodica – molto diversa da quella che abbiamo studiato a scuola – è tanto grande quanto maggiore è l’abbondanza del relativo elemento sulla crosta terrestre o nell’atmosfera. La tavola ci spiega, per esempio, che la Terra è molto ricca di silicio, alluminio e carbonio ma, in proporzione, molto meno di elio, nichel e oro. Va sottolineato che la superficie delle caselle segue una scala logaritmica: alcuni elementi sono letteralmente miliardi di volte più rari di altri (ad esempio l’iridio rispetto all’ossigeno) quindi, se la scala fosse stata lineare, la loro casella sarebbe stata visibile solo al microscopio.
Ogni elemento è identificato inoltre da un colore. In verde sono rappresentati gli elementi che siamo sicuri di avere in abbondanza anche per il futuro. In giallo, arancio e infine in rosso sono indicati quelli per la cui disponibilità, alla luce dell’utilizzo intensivo che ne facciamo e delle limitate «scorte» sulla Terra, c’è crescente preoccupazione. Quelli rossi sono “a rischio estinzione” entro la fine del secolo, tra questi appunto l’elio.
Va però sottolineato che gli elementi (ad eccezione di una parte dell’uranio) una volta utilizzati non sono distrutti, né eliminati dalla faccia della Terra: “semplicemente”, se non sono adeguatamente riciclati, vengono dispersi nell’ambiente (ad esempio nelle discariche) in modo da renderne impossibile il recupero, per ragioni tecniche ed economiche. Infine abbiamo gli elementi colorati in grigio, la cui estrazione e commercializzazione sono legati a conflitti armati o addirittura ne sono la causa.
Questa tavola non è statica: attraverso la discussione scientifica, la aggiorniamo ogni anno, dopo aver adeguatamente interpellato i massimi esperti mondiale del settore. In questa ottica abbiamo fatto in questi anni convegni scientifici dedicati a Carbonio, Litio, Azoto e Fosforo e continueremo negli anni a venire.
La nostra tavola ha avuto un inatteso successo. Ne hanno parlato tra gli altri la BBC, il New York Times e il Guardian. Il nostro obiettivo era sensibilizzare il grande pubblico sulla limitatezza delle risorse minerarie del pianeta. Oggi la tavola si trova nelle aule di scienze di centinaia di scuole e università in tutto il mondo. Possiamo dire che il risultato è stato centrato.
Terre rare
- Tra gli elementi chimici, si parla spesso di terre rare. Che cosa sono esattamente?
Gli elementi che appartengono alle terre rare sono il gruppo dei 15 cosiddetti lantanidi più lo scandio e l’ittrio; tutti, tranne l’ittrio, sono inclusi nell’elenco dei materiali critici (i lantanidi in blocco, come due gruppi distinti: leggeri e pesanti). Sono impiegati per tantissime applicazioni che vanno dalla metallurgia all’elettronica, dalle tecnologie di illuminazione agli aerogeneratori eolici a molto altro. È curioso il fatto che il termine “rare” abbia un valore più storico che letterale.
Questi elementi infatti non sono particolarmente rari sulla Terra (sono molto più abbondanti di oro, argento e platino, ad esempio) ma sono raramente presenti sulla crosta terrestre a concentrazioni che ne permettano lo sfruttamento. Ad oggi, in pratica, i bacini di estrazione delle terre rare si contano sulle dita di una mano. Il più importante è in Cina ed è uno dei luoghi più inquinati al mondo, perché l’estrazione delle terre rare può avere un pesantissimo impatto ambientale.
Il litio e il cobalto – metalli di cui tanto si parla in merito alla transizione energetica – non sono terre rare, ma si trovano nell’elenco dei materiali critici. È doveroso un chiarimento terminologico perché, nella discussione comune, si confonde tutto.
- A proposito di litio e cobalto: se ne parla molto, perché?
Il litio e il cobalto sono elementi che si trovano nelle batterie di accumulo dell’energia elettrica, ad esempio nelle auto elettriche, nei dispositivi elettronici portatili e in un numero crescente di elettrodomestici.
L’elettronica di consumo - quella che si gioca nelle dimensioni “tascabili” – ha bisogno di alte densità di energia. Il cobalto, a tal fine, è particolarmente utile: dove c’è bisogno di batterie ad alta densità di energia c’è il cobalto. Mentre dove non abbiamo una tale stringente esigenza, il cobalto può esserci o non esserci: è già così per le batterie di grandi dimensioni, come quelle delle auto o quelle dello stoccaggio di energia negli impianti fotovoltaici ed eolici. Per sviluppare le energie rinnovabili il cobalto, quindi, non è – e sempre più non sarà – un elemento indispensabile.
Il litio – almeno per ora – è invece un elemento di cui non si può fare a meno, soprattutto per le batterie delle auto elettriche, mentre per l’accumulo dell’elettricità dal sole e dal vento – impianti meno esigenti dal punto di vista del contenimento dei volumi – cominciano a presentarsi alternative concrete come le batterie al sodio e, per i grandi impianti, le batterie a flusso.
- Dove si trovano, nel mondo, le miniere da cui attualmente vengono estratti il cobalto e, soprattutto, il litio visto che è così importante?
Il cobalto si trova soprattutto in Africa, nella Repubblica Democratica del Congo. Va sottolineato che il cobalto è quasi sempre un prodotto secondario dell’estrazione del nichel e del rame: le miniere di cobalto in realtà praticamente non esistono. Il litio, come minerale grezzo, proviene quasi esclusivamente dalle miniere dell’Australia e dai grandi bacini salini di superficie del Sud America (soprattutto dal Cile); la Cina è in terza posizione, notevolmente staccata.
- Immagino che debba esserci una lunga lavorazione dei metalli che dalle miniere giungono ai prodotti finiti che li contengono…
Certamente. Non basta disporre di miniere da cui estrarre minerali in cui sono contenuti gli elementi chimici ritenuti critici. C’è tutta un lungo processo – o, come si usa oggi dire, una “filiera” – tra le miniere e i prodotti finiti.
L’indubbio primato odierno della Cina sta certamente nel disporre di alcuni materiali critici in abbondanza (in particolare le terre rare), ma anche e soprattutto nell’aver saputo realizzare, in anticipo, l’intera filiera della produzione dei dispositivi necessari per la transizione energetica, dai pannelli fotovoltaici alle batterie, dagli aerogeneratori alle auto elettriche.
Anche la Cina ha importato e importa litio grezzo da Australia e da Sud America, pur disponendone in luoghi impervi del proprio immenso territorio. Però, ha anche gli impianti di raffinazione dei materiali, le industrie per la fabbricazione dei componenti (elettrodi, separatori e altro) e gli impianti per l’assemblaggio dei prodotti finiti. È in questo modo che ha realizzato il proprio dominio globale sulle batterie.
Possiamo lamentarci di questo, ma non serve a nulla. Dobbiamo realizzare in Europa un’industria delle batterie che sia tecnologicamente competitiva con la loro e più sostenibile dal punto di vista ambientale, perché l’elettrificazione del sistema energetico è un treno che non si ferma e per farla servono tantissime batterie. Ogni giorno sottratto alle lamentele per dedicarlo all’azione è un investimento sul futuro industriale dell’Europa, quindi un giorno dedicato ai nostri figli e nipoti.
Va sottolineato che il proposito di costruire nuove filiere in Europa, significa anche imbattersi in questioni geopolitiche spinose. Ad esempio, la Cina importa litio grezzo soprattutto dall’Australia, storico alleato degli Stati Uniti: ma questi ultimi non gradiscono il flusso verso un concorrente chiave.
In un quadro mondiale sempre più complesso, ogni nazione – o gruppo più o meno omogeneo di nazioni – tende a realizzare filiere autonome e meno a rischio di sconquasso geopolitico (con la consapevolezza che il quadro può cambiare da un giorno all’altro: si pensi alla crisi in atto in Niger e nell’intero Sahel). È quanto cerca di fare – seppure in ritardo – anche l’Europa.
Nel contesto che qui ho sommariamente descritto va letta l’iniziativa italiana sulle miniere.
Politiche ecologiche europee
- L’Europa – e nell’Europa l’Italia – ha davvero la possibilità di emanciparsi dalle attuali dipendenze per realizzare le proprie filiere di transizione energetica, “verde”?
Il tentativo va fatto, ma sappiamo che il nostro punto di partenza è debole: l’Europa non ha grandissime disponibilità minerarie e soprattutto ha un’elevata densità di popolazione, cosa che rende spesso l’attività mineraria molto difficile per questioni di accettabilità sociale.
Inoltre, tutti i Paesi che hanno grandi disponibilità minerarie non si accontentano più di vendere minerali grezzi a basso costo. Vogliono mettere insieme filiere articolate che permettano guadagni maggiori con la vendita di prodotti ad alto valore aggiunto. In questo contesto, l’Europa può però mettere in campo la forza della propria ricerca scientifica e la sua forte industria manifatturiera.
- Come valuti, dunque, il proposito del governo di riaprire le miniere? Ha un senso?
In Italia, come in tutta l’Europa riaprire le miniere è un’operazione che ha sicuramente senso, con la consapevolezza, tuttavia, che questo non potrà bastare, come ho detto.
In Italia e in Europa, sin dall’antichità, si sono sempre estratti minerali dal suolo e dal sottosuolo per le attività economiche. Da circa 100 anni però l’estrazione mineraria è sostanzialmente interrotta e “appaltata” altrove. Si tratta infatti di un’attività spesso invasiva e quindi tipicamente non gradita.
L’estrazione mineraria realizzata con criteri d’avanguardia ha poco a che vedere coi racconti sulle miniere di zolfo siciliane degli inizi del ‘900. Il lavoro in miniera resta però un’attività decisamente poco attraente, tanto più nell’Europa di oggi, ove le persone spesso rifiutano lavori molto meno pericolosi e gravosi: insomma, semplificando, da quando siamo diventati più ricchi, abbiamo fatto fare i minatori agli altri. Il fatto che il testo legislativo di riferimento italiano sulle miniere e le cave sia datato 1927 (regio decreto 1443/1927), dice tutto.
Una curiosità: è stato fatto notare che si tratta di un decreto talmente semplice e chiaro che ha resistito al passaggio del tempo e non ha mai avuto bisogno dei cosiddetti decreti attuativi.
- Cosa c’era nelle miniere italiane e cosa si potrebbe ancora estrarre?
A partire dall’unità d’Italia, abbiamo avuto nel corso del tempo circa 3.000 siti minerari operativi, in buona parte oggi abbandonati. Nel nostro Paese abbiamo estratto diversi metalli: ferro, zinco, piombo, e, in misura minore, rame, oro e argento. Molte miniere italiane sono attualmente riempite di scarti delle precedenti estrazioni che potrebbero essere, almeno in parte, processati per ricavarne elementi utili.
È bene sottolineare infatti che spesso le estrazioni minerarie portano in superficie più elementi per volta. Un tempo alcuni dei metalli che oggi sono diventati importanti erano dei sottoprodotti privi di interesse. In Italia, le zone potenzialmente più interessanti per la ripresa dell’estrazione metallifera (oggi totalmente abbandonata) sono Sardegna, Toscana e le zone alpine tra Piemonte e Lombardia, dove sono presenti anche riserve di rame e nickel. Ci sono poi, anche in altre regioni, attività di estrazione, tra cui del marmo (Alpi Apuane), talco, salgemma e di diversi minerali ceramici.
Le quantità che potranno essere ricavate dalle riserve del sottosuolo sono però, tutto sommato, piccole rispetto ai nostri fabbisogni. È un discorso analogo a quello del metano nazionale: i piccoli pozzi sparsi lungo lo stivale, con un ritorno economico limitato, non mutano i nostri destini di importatori.
- Perché distingui tra risorse e riserve?
Le riserve – ossia la quantità di minerali effettivamente estraibili alle condizioni tecniche ed economiche a un dato momento – sono sempre di molto inferiori alle risorse. Per capirci: possiamo individuare risorse minerali a 4.000 metri di profondità, ma probabilmente nessuno andrà mai ad estrarle perché costa troppo, quindi non diventano mai riserve. Il concetto però non è statico: una miniera può essere abbandonata perché non è più economicamente competitiva; una riserva torna, con ciò, ad essere solo risorsa. Naturalmente può accadere l’opposto: si possono, appunto, riaprire le miniere abbondonate: ciò che vorremmo ora fare in Italia e in Europa, convertendo risorse note in riserve sfruttate.
In Italia abbiamo riserve di vari materiali – anche critici – ma occorre stimare con precisione le risorse che si possono effettivamente ricavare con la riapertura delle miniere. Sicuramente saranno numeri diversi da zero, ma non sposteranno la nostra situazione di dipendenza dai bacini di estrazione minerale fuori dei nostri confini. In altre parole, si dovrà continuare la nostra tradizione storica di Paese che trasforma le materie prime importate e produce manufatti ad elevato valore aggiunto.
- In Europa ci sono Paesi che possano condividere con noi le loro riserve critiche?
Ci sono bacini promettenti, come la penisola iberica e la Scandinavia, favoriti anche da una bassa densità abitativa che, insisto, è uno dei fattori limitanti.
Riaprire le miniere in Italia?
- Quali possibili difficoltà intravvedi rispetto alla riapertura delle miniere?
In Italia i tempi di possibile riapertura delle vecchie miniere o di sfruttamento di nuovi bacini vanno dai 5 ai 15 anni: tra definizione delle norme, attività di prospezione e ricerca, richiesta e rilascio delle autorizzazioni per le estrazioni, ecc. Il governo vuole definire le procedure in tempi brevi. Francamente non sono molto ottimista, perché questo è un settore nel quale tendono a sovrapporsi competenze nazionali e locali, un ostacolo che spesso in Italia allunga i tempi di realizzazione.
Poi occorre trovare imprese interessate: come per gli idrocarburi, le riserve del sottosuolo appartengono allo Stato, che dà in concessione l’estrazione mineraria ad imprese private che operano sul mercato. Difficile prevedere quante e quali possano essere le grandi aziende estrattive internazionali interessate a investire in Italia per ricavare quantità presumibilmente piccole. Sarà forse più probabile l’interesse di qualche impresa minore italiana o europea, che non sono tante.
Immagino infine che le popolazioni potenzialmente interessate dalla ripresa delle attività estrattive non mostreranno, in diversi casi, particolare entusiasmo.
- Nonostante le difficoltà, tu pensi che almeno su questo ci si muoverà, insieme, come Paesi dell’Europa?
Il passo che sta compiendo l’Europa per una maggiore autonomia “verde” va nella giusta direzione. L’Italia non può che assecondarlo. Ma dobbiamo essere consapevoli che i benefici derivanti dalla riapertura delle miniere in Europa, da sé, saranno molto probabilmente limitati.
- Ritieni allora che l’Europa possa e debba lavorare per lo sviluppo della filiera successiva alle estrazioni?
Su questo possiamo giocarci molte più carte. Dopo l’estrazione c’è la fase di raffinazione dei minerali e quindi il loro impiego nella filiera produttiva della componentistica elettronica, ad esempio. Si tratta di una filiera del tutto in divenire in Europa: la possiamo e la dobbiamo costruire.
Non avendo a disposizione grandi quantità di materie prime, la manifattura italiana ed europea possono competere in questo ambito sul piano tecnologico. Serve però una legislazione adeguata. Se la decisione di riattivare l’attività mineraria continentale rientra in un quadro più ampio di rinascita industriale, è un’ottima cosa. Se invece resta solo un’iniziativa a sé stante, porterà benefici molto limitati.
- Abbiamo, specie in Italia, maestranze sufficienti e preparate per questo scopo?
Questa è una nota molto dolente. Purtroppo, l’insufficienza delle maestranze è uno dei fattori limitanti la transizione energetica ed ecologica, sia in Italia che in Europa: servono ingegneri, chimici, fisici, progettisti, così come elettricisti e termotecnici. Per riaprire le miniere servono geologi e minatori. Abbiamo carenza di personale in tutti questi ambiti. Molte imprese cercano profili professionali che spesso non trovano.
- Perché ci troviamo anche con questo problema?
Dobbiamo essere molto sinceri: il settore della formazione e delle imprese hanno fallito l’appuntamento. La transizione energetica – una necessità evidente oggi agli occhi di tutti – non è stata adeguatamente anticipata da nessuno e tuttora si continua a sottovalutare il problema. Il sistema scolastico – dalle scuole professionali alle università – non ha capito 10 anni fa quale domanda di professionalità stava nascendo. Anche il mondo industriale non ha colto in anticipo a quale rapida trasformazione doveva andare incontro.
L’esempio classico è quello della fine del motore termico a combustione per l’avanzata inesorabile della mobilità elettrica. Oggi assistiamo alla insensata difesa a oltranza del primo, con argomentazioni talvolta imbarazzanti, tipo il petrolio assurto a improbabile difensore dei meno abbienti e dell’industria europea. Per svegliarci dal torpore c’è voluta una pandemia e, ora, una guerra alle porte dell’Europa. Speriamo non sia troppo tardi. Ora però dobbiamo darci tutti da fare e correre.
- Mi pare di capire che servano molti giovani, tecnici, motivati, che studino e che lavorino per la transizione: ci saranno?
Dobbiamo fare di tutto perché ci siano, anche se la situazione in Italia – e non solo – non è incoraggiante. Continua l’esodo dei giovani dal sud del nostro Paese, ma anche dal nord Italia diversi giovani preparati se ne vanno, preferendo lavorare fuori dai nostri confini. Tutto questo è uno smacco per il nostro Paese e un’ipoteca negativa sul nostro futuro. Bisogna fare il possibile per offrire attraenti occasioni di lavoro ai giovani formati in Italia a caro prezzo. È chiaro che la politica deve fare la sua (grande) parte in tal senso.
- La politica, appunto: in un sistema liberistico, per non dire iper-liberistico – in cui ciò che conta sono i profitti – chi è in grado di determinare la transizione e di dettarne i tempi?
Anche in un sistema di questo tipo, il primo passo spetta sempre, secondo me, al legislatore. Faccio un esempio concreto, ben noto quanto contestato da più parti: l’auto elettrica.
Il legislatore europeo ha stabilito che, dal 2035, non si potranno più vendere in Europa auto a combustibili fossili: è stato un passo necessario per tante ragioni e fatto, una volta tanto, con un adeguato anticipo: dal 2022 al 2035 passano 13 anni! Eppure, quante resistenze ha suscitato e ancora suscita, il fatto che il legislatore abbia avuto una visione finalmente a medio termine per provare a governare un trend che sarà comunque inarrestabile. Già adesso, in Europa, le vendite delle elettriche stanno superando le diesel, con 12 anni di anticipo. A chi venderemo cilindri e pistoni nel 2035? Chi pensiamo di difendere?
- Riaprire miniere non è, in ogni caso, contraddittorio rispetto alla tesi della economia circolare?
Non lo è perché, in ogni caso, la transizione energetica richiederà un forte aumento della produzione mineraria. Però questo non deve distoglierci dal fatto che l’estrazione di nuove riserve minerali deve andare di pari passo con il reimpiego, il riciclo e la circolarità del processo: non un grammo di metalli dovrebbe finire disperso per sempre in discariche. Tecnicamente, possiamo a recuperare quasi tutto, in un’ottica, appunto, di circolarità e di reimpiego.
Ma – attenzione – anche il recupero e il riciclo hanno un impatto ambientale, specie quando i prodotti non sono stati pensati, sin dall’origine, per il disassemblaggio quindi per un recupero più facile dei contenuti. Su questo punto stiamo certamente migliorando, ma siamo ancora indietro: quasi nessun prodotto è stato concepito in questo modo. Oggi occorre quasi sempre triturare meccanicamente i dispositivi elettronici avviati al riciclo, per poi sottoporli a trattamenti termici e/o chimici, con elevato consumo di energia. Questo però non cambia il fatto che, ad esempio, un’auto elettrica, nell’intero ciclo di vita – compresa fabbricazione e smaltimento della batteria – consumi molta meno energia e produca meno CO2 di un’auto termica, anche in Cina e in India, nonostante abbiano là molte centrali elettriche a carbone.
Per realizzare una vera economia circolare bisogna fare molta ricerca e inventare. Si può fare, ma solo se c’è un contorno di regole e ci sono imprese all’avanguardia.
Economia circolare
- C’è qualcuno nel mondo che già realizza l’economia circolare?
Nel 2016 visitai in Cina un enorme impianto di riciclo dei rifiuti elettronici alla periferia di Pechino. Già recuperavano quasi tutto, e parlo ormai di parecchi anni fa. Qualcosa si sta però muovendo anche in Europa. La azienda belga UMICORE dichiara di recuperare oltre il 90% dei metalli contenuti nelle batterie per auto.
- Quando si arriverà alla piena circolarità, se mai ci si arriverà?
Il Rapporto Nazionale sull’Economia Circolare in Italia presentato nel maggio scorso stima la “circolarità” complessiva dei materiali nel mondo al 7,2%, mentre 5 anni fa si stimava al 9,1%; la media UE si aggira sull’11,7%, quella italiana si attesta al 18,4% contro il 20,6% di 5 anni fa. Il dato italiano è dunque, nel confronto, molto buono, ma tuttavia ancora basso e soprattutto in decrescita, come in tutto il mondo. Questo trend è sconfortante.
- Perché le imprese non si stanno dedicando più decisamente al recupero, specie delle materie definite critiche?
Per quanto riguarda pannelli fotovoltaici e batterie, siamo in una situazione un po’ paradossale. Questo si spiega col fatto che questi dispositivi – se non sottoposti a eventi disastrosi come grandinate eccezionali – durano molto a lungo, almeno 25 anni. Quindi al momento, manca letteralmente la materia prima da riciclare perché ancora troppo “giovane”. Qual è dunque l’imprenditore che intraprende un’attività che andrà a regime fra 15 anni?
Quindi l’industria del riciclo è tecnicamente possibile, auspicata e opportuna, eppure resta in buona parte al palo per ragioni economiche e commerciali. In questo caso, dovrebbe intervenire di nuovo il legislatore, anche con adeguati incentivi, per sfruttare quelle miniere urbane che sono già a nostra disposizione.
- Il legislatore non potrebbe o non dovrebbe vincolare i produttori al recupero dei materiali, sin dall’origine dei prodotti?
In Europa e in Italia vi sono legislazioni molto precise e severe. La legge europea sulla “responsabilità estesa del produttore” è applicata a diversi settori e vale ad esempio per le batterie delle auto elettriche. Queste, a fine servizio, debbono essere ritirate dalle case automobilistiche di origine, che possono eventualmente cederle poi a terzi, anche per usi ulteriori “di seconda vita”. Recentemente è stato approvato il nuovo regolamento europeo sulle batterie, che prevede la carta di identità per ogni singolo accumulatore, nella quale sono indicate tutte le informazioni sull’origine e la composizione chimica, in modo da facilitarne il riciclo.
Per quanto riguarda il fotovoltaico, la legislazione è progressivamente cambiata ed evoluta; sarebbe lungo entrare nei dettagli. Attualmente il proprietario di un impianto domestico inferiore a 10 kW paga per lo smaltimento al momento dell’acquisto e può – o dovrebbe poter – conferire senza ulteriori spese eventuali pannelli danneggiati o rotti ai normali centri di raccolta comunali.
Chiaramente questi non basteranno fra 20-30 anni e si dovrà provvedere a grandi strutture dedicate. Teniamo conto comunque che il 90% in peso del materiale da riciclare in un pannello è costituito dal vetro e dalla intelaiatura metallica di contenimento e protezione: un’operazione di riciclo non particolarmente sofisticata. Le parti più preziose sono le connessioni elettriche (in rame e argento) e gli strati di silicio cristallino che convertono la luce in elettricità.
Vi sono iniziative e consorzi sia italiani che internazionali che si occupano della gestione della filiera del riciclo, sia per le batterie che per il fotovoltaico. Mi piace sottolineare che queste industrie si stanno già occupando dei loro rifiuti, anche se di fatto arriveranno a regime fra 20 anni. Ve ne sono altre che non hanno ancora risolto il problema dei rifiuti che hanno generato 70 anni fa.
- Esiste davvero la miniera urbana?
Esiste eccome, ma, appunto, non è ancora sfruttata appieno: l’industria è ancora in una fase iniziale, specie in Europa. Potremmo dire, riprendendo le definizioni che abbiamo citato prima, che il suo contenuto di risorse è elevato, ma quello di riserve non è all’altezza.
In certi dispositivi elettronici la concentrazione di oro o rame, ad esempio, può essere così elevata da rendere il riciclo più conveniente dell’estrazione in miniera. Va però detto che c’è anche un problema di quantità in gioco: una cosa è recuperare 6-7 chilogrammi di litio da una batteria per auto, altra cosa alcuni millesimi o milionesimi di grammo di un metallo prezioso da una scheda o da uno schermo di un telefono cellulare: occorre processare grandi numeri per rendere tecnicamente ed economicamente fattibile il recupero. Nella miniera urbana occorre andare a “scavare” sempre più e meglio, per scavare sempre meno il sottosuolo di questo nostro pianeta già affaticato.
- Torniamo, per finire, alle miniere e alle grandi risorse del mondo: principalmente dove sono e come poterne beneficiare tutti?
La distribuzione delle risorse minerarie sulla crosta terrestre è quella che è: non possiamo cambiarla. Come mostra l’immagine qui sopra tali risorse si trovano concentrate in alcuni luoghi della Terra ben precisi: le risorse di idrocarburi si trovano principalmente tra la Siberia settentrionale e il Golfo Persico, il litio si trova principalmente in Sudamerica e in Australia, le terre rare sono concentrate in Cina, e così via.
Non che altrove tali risorse siano inesistenti, ma in questi luoghi la concentrazione è particolarmente elevata ed è quindi facile e soprattutto conveniente estrarle. Questa mappa ci dice in modo evidente che nessun Paese potrà mai essere autosufficiente in fatto di risorse minerarie. Siccome gli elementi chimici che ci servono sono tanti, potremmo allora dire che quasi tutti hanno quasi niente, quindi tutti abbiamo bisogno di tutti. Oppure anche, come dice papa Francesco, “nessuno può salvarsi da solo”.
L’unica risposta a questa situazione ineludibile si chiama cooperazione, se non vogliamo usare parole più impegnative come solidarietà. Lo ripeto da anni in lezioni e conferenze: non c’è alcuna alternativa alla cooperazione. Mi ha fatto piacere vedere che recentemente lo abbia sottolineato anche un giornale finanziario come il Financial Times.
La riflessione conclusiva mi sembra tutto sommato semplice: o ci mettiamo d’accordo, pacificamente, per condividere le risorse di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, oppure ci faremo sempre più una guerra senza quartiere per impadronircene. Questa seconda opzione è oggettivamente quella meno furba. Ma è spesso quella che percorriamo, purtroppo.
Condivido la chiarezza dell’articolo che ci porta dentro un “mondo” ai più non ancora conosciuto. Grazie per questo buon giornalismo. Nelle scuole e nelle parrocchie……
Bellissima intervista! Piena di spunti per il futuro. Andrebbe fatta studiare in tutte le scuole d’Italia