Formuliamo in questo articolo alcune proposte per ripensare i cosiddetti corsi di teologia per laici e, più in genere, per chiarire il ruolo che la ricerca e la didattica teologica possono svolgere nel cammino sinodale della Chiesa.
Saremmo lieti se il presente scritto accendesse un dibattito serrato on line inducendo gli attori interpellati a esprimere il loro eventuale disaccordo attraverso obiezioni puntuali e dirette oppure suggerendo vie originali di superamento degli ostacoli di volta in volta denunciati.
Adotteremo a tal fine un linguaggio comprensibile e una forma espositiva non gravata da pesanti rimandi bibliografici. Il riferimento a esempi reali o ipotetici offrirà al lettore una forma narrativa adatta – speriamo – per attuare un adeguato discernimento.
Diversificare i docenti: l’interdisciplinarità
La figura tipica del docente di teologia “per laici” in Italia corrisponde attualmente, per quanto ci consta (ricordiamo che stiamo generalizzando) al titolare di insegnamento in un Seminario, un Istituto di scienze religiose, un Ente pontificio o una Facoltà teologica. Con sintetica ironia, i suoi tratti specifici, se si volesse istituire un parallelo con gli WASP del potere USA (bianchi, anglo-sassoni protestanti), potrebbero dirsi i seguenti: bianco, maschio, italofono, cattolico, prete, celibe. Data questa sua estrazione, il docente è solitamente avvezzo a esporre le sue tesi a un uditorio già ideologicamente selezionato.
Si dà il caso, però, che le tematiche più rilevanti, da cui prendere spunto per l’aggiornamento teologico, richiedano competenze diversificate (del pluralismo diremo tra un attimo).
Esemplare è in tal senso l’interdisciplinarità della bioetica: senza una conoscenza biomedica aggiornata e addestrata in Istituti di ricovero e cura, senza una preparazione filosofica, senza una finesse psicologica atta a cogliere la specificità umana di un caso clinico, la sola conoscenza storica delle scuole di teologia morale e l’informazione sui pronunciamenti magisteriali in merito non bastano, dato che la bioetica è la giustificazione razionale (ratio è intesa qui nel senso allargato proprio della teologia) delle valutazioni morali in ambito biomedico.
Altro esempio. Sono state respinte alcune proposte, formulate a presidi di Facoltà teologica, di istituire corsi in teologia del cinema. Sono sorti in tutto il mondo dipartimenti in Film Studies and Religion e almeno in Italia sono uscite alcune importanti pubblicazioni in materia. Il film è assai apprezzato come “strumento” formativo in parrocchie, associazioni culturali, convegni umanistici, persino nei seminari vescovili.
Ma tant’è, i presidi replicano che il curriculum studiorum è già troppo congesto per inserire un’altra teologia-di. E poi mancherebbero docenti strutturati, che siano adeguatamente competenti in una materia letteraria embricata come questa. La replica dei presidi non ci convince, ma accusa giustamente il colpo: il cinema e il suo linguaggio vanno conosciuti, per poterne fare una teologia, senza prendere abbagli, come già è capitato.
Noi restiamo comunque fermi sul punto. O la docenza si connota di caratteri interdisciplinari (naturalistici, come nel caso della bioetica; umanistici, come nel caso del cinema), oppure il discente laico riceverà un’introduzione teorica alquanto astratta rispetto alla sua vita personale e spirituale.
Evitare l’autoreferenzialità istituzionale
Quando si tratta di indicare chi debba svolgere il ruolo di docente nei cosiddetti corsi “per laici”, si dovrebbero evitare i rischi di attribuire pregiudizialmente tale ruolo solo a chi sia semplicemente già titolare di insegnamenti teologici in altre scuole. Infatti, il “buon” teologo non coincide con il professore di teologia in enti religiosi.
Così come è capitato che autorevoli scienziati di fisica nucleare fossero stati bocciati, da studenti, in tale materia, così la storia della teologia (soprattutto di quella riformata) ha riconosciuto il contributo provenuto da soggetti (laici e laiche, parroci, religiosi e religiose, filosofi, uomini di cultura, artisti e artiste) privi di ufficiale abilitazione didattica e che, ciò nonostante, grazie alle loro intuizioni, furono rapidamente invitati a tenere lezioni per contratto nelle sedi ufficiali.
Le istituzioni, si sa, una volta costituite, sono lente, vischiose, refrattarie ai cambiamenti. Eppure, sono proprio i cambiamenti che risultano interessanti per chi si iscrivere a corsi di formazione “sul territorio” e non ha per obiettivo quello di fare carriera accademica in scuole pontificie, ma di seminare nella vita quotidiana (familiare e professionale) i contenuti di verità appresi nell’incontro con testimoni sensibili ai “segni dei tempi”. Perché lì si rivela l’evangelo e lì si gioca la missione al mondo.
La riduttiva autoreferenzialità, di cui stiamo parlando, si manifesta anche nel modo in cui un nuovo volume è accolto. Ferisce il fatto che un testo venga snobbato senza commenti oppure che esso, pur riconosciuto carico di significativi apporti culturali, sia tout court dichiarato non di teologia, senza precisare in dettaglio quale teologia sia privilegiata dal recensore (liberale? dialettica? rahneriana? esistenziale? neo-scolastica?).
Il che rafforza il sospetto di autoreferenzialità: dato che le nuove “teologie-di” pretendono di delineare una nuova cifra per parlare del Dio di Gesù Cristo, il conservatore non entra nel merito della proposta, ma la denuncia semplicemente come extra-territoriale rispetto al modo in cui la sua agenzia culturale tradizionale intende il lavoro teologico, promuovendo a docenti solo coloro che militano in tale orientamento.
La teologia del cinema, per tornare all’esempio, è una forma di teologia narrativa in cui Dio (il Dio di Gesù Cristo, narratore-narrato) è pensato come il “principio” del narrare-per-immagini, cioè come la verità di senso che i racconti, anche non d’argomento religioso, desiderano portare a rappresentazione. Dio si lascia narrare, anzi è interessato a venir narrato per simboli e icone visive legate da una trama unitaria d’interesse umano. Perché questa non sia teologia, lo deve dire e argomentare il critico recensore. Se non lo fa, si mette dalla parte del torto, automaticamente.
Allargare i soggetti decisori e “personalizzare” la proposta
Chi decide perché, come e quando organizzare i corsi introduttivi alla teologia? I teologi, ovviamente, verrebbe da rispondere considerando quel che accade. Ma ci si sbaglierebbe! Il fruitore ecclesiale ha il diritto/dovere non solo di esprimere un parere e dare il consenso finale in merito all’iniziativa, ma di ideare e contribuire a delineare un ciclo d’insegnamenti teologici adatti alla propria comunità.
Penso in particolare al ruolo dei consigli pastorali ai loro diversi livelli, nei quali è rappresentato il laicato, a cui i corsi vorrebbero indirizzarsi prevalentemente. Penso anche alle redazione dei bollettini parrocchiali, luoghi delicati di riflessione e discussione intraecclesiale.
Un esempio. Un insegnante in pensione apprende dagli avvisi parrocchiali che sono previste serate e giornate “teologiche” che si snodano lungo alcuni anni. Essendo interessato alla cosa, esprime al parroco la propria disponibilità a concorrervi con le sue competenze, se ritenute utili.
Egli aveva infatti pubblicato alcuni scritti sulla nozione di Rivelazione in Jean-Luc Marion. Il parroco prende atto ma risponde a malincuore – testualmente – di “non aver voce in capitolo”, poiché della cosa si occupa un teologo accademico, molto “bravo”, residente in Seminario. L’uso del gergo di diritto canonico (“in capitolo”) mostra già il vistoso fraintendimento istituzionale: il pastore raccomanda la frequenza a lezioni programmate altrove, quasi a scatola chiusa, prendere o lasciare.
Le conseguenze di non avere o di non voler aver voce “in capitolo” si fanno naturalmente sentire a livello di forma e contenuti, risultandone corsi depersonalizzati, astorici e astratti dalla vita di comunità. Una deriva illuministica affligge le buone intenzioni educative. Le attese, i desideri, le frustrazioni, gli impasse, le speranze concrete legate alle vicende di una determinata parrocchia o decanato vengono disattese o neglette.
Peggio ancora, le voci originali di una storia di fede non vengono neppure sollecitate a farsi sentire. Il format (cito testualmente da una conversazione: ormai il linguaggio televisivo spadroneggia) prefissato motu proprio dagli organi accademici con ampio anticipo temporale ostacola la possibilità di cogliere le novità storico-culturali sopraggiunte nel frattempo, anche quando esse siano teologicamente rilevanti (i primi casi di suicidio assistito in Italia, la guerra in Ucraina, un’esortazione apostolica, un caso di enigmatica “bocciatura” di un teologo come quella di Martin M. Lintner allo Studio teologico di Bressanone).
Altrettanto bizzarra e idealistica è la riproduzione del medesimo impianto formativo in parrocchie e decanati così distanti geograficamente tra loro, così diversi per vicissitudini, così difformi per composizione, censo, abitudini, etnie rappresentate, eccetera, da rendere implausibile una ricaduta positiva e pertinente sul piano della vita ecclesiale.
I responsabili della pastorale non dovrebbero abdicare preventivamente e sistematicamente dalla possibilità di delineare obiettivi e metodi di un corso di formazione, poiché senza una loro preliminare istruzione delle questioni aperte, non si saprebbero come indicare le piste specifiche di un successivo approfondimento teorico, che volesse rispondere in modo idoneo alle domande provenienti dalle singole coscienze credenti e dalle comunità nel loro insieme.
Come si sa, Dio educa non tanto dalle cattedre scolastiche, quanto a partire dalla vita dei singoli, dalla storia dei gruppi, dagli incontri/scontri tra/con credenti e non credenti. In effetti, ciò che stupisce, soprattutto in materie calde e concrete, come quelle di etica sessuale, è il silenzio dei pastori, stretti tra a) una malintesa obbedienza passiva alle indicazioni generali del Magistero, b) un tacito uso del “buon senso” casistico e c) un’inspiegabile delega ai teologi, i quali non riescono di fatto a dire molto di rilevante se le altre fonti vitali dello spirito ecclesiale si chiudono, più o meno a malincuore, la bocca.
In realtà è nella vita quotidiana di chiese, oratori, gruppi che emergono i tratti fenomenologici decisivi per descrivere il vissuto di chi, davanti a un dilemma decisionale, chiede che gli vengano forniti gli strumenti e le condizioni di un approfondimento teologico. Il teologo “di mestiere” impara dalle forme sorgive dell’esperienza di fede.
Ampliare l’uditorio
Suggeriremmo la sostituzione del termine corsi di formazione teologica per “laici” con quello di corsi di “introduzione” alla teologia e auspichiamo il corrispondente ampliamento dell’uditorio a tutti quanti, laici e non, vogliano giovarsene.
L’espressione “per laici” è infelice sia perché induce a pensare a corsi “di serie B” o riservati a classi “problematiche” (un tempo si sarebbe detto “differenziali”) i cui obiettivi formativi andrebbero (ahimè) ridimensionati, sia perché sono finiti i tempi in cui poteva essere teorizzata sul piano ecclesiologico una separazione tra laici e chierici in funzione di una subordinazione di uno dei poli all’altro invece che a un reciproco servizio.
“Di principio” non ci sono ragioni per cui lo stato di consacrazione speciale debba rappresentare una condizione necessaria per raggiungere verità teologiche più alte e profonde. “Di fatto” poi il livello della competenza teologica di sacerdoti e religiosi/e è a macchie di leopardo, esattamente come quella dei laici nella Chiesa odierna.
Si va da esemplari figure di studiosi, in grado di dialogare anche in seno alle accademie (filosofiche e teologiche), a situazioni di approssimazione conoscitiva, che sono alquanto deludenti. Mi ricordo un’espressione del card. Tettamanzi, vescovo di Milano, che espresse la sua irritazione per il carattere “bolso” (fiacco, noioso) di omelie mal preparate. I fedeli si accorgono perfettamente quando un vetusto clericalismo paternalistico (tipo: ego ipse dixi) prende il posto del dialogo argomentato, dell’esegesi accorta, del riferimento ad autorevoli pensatori cristiani.
I sacerdoti e i/le religiosi/e dovrebbero riservarsi un tempo stabile e continuativo per l’aggiornamento teologico in setting adeguati! Conosciamo lo stress di presbiteri schiacciati da incombenze burocratiche e manageriali. La supervisione attenta e comunitaria della loro iniziale formazione e dei loro primi passi nel ministero durano solo per pochi anni dopo l’ordinazione, cosicché i singoli sacerdoti sono poi, per così dire, lasciati a sè nel decidere che cosa e come studiare e in che modo affrontare sul piano psicologico e spirituale le alte difficoltà relazionali e sociali cui essi sono esposti.
Conseguenze? Molti fedeli lamentano non solo la difficoltà materiale di reperire confessori disponibili, ma soprattutto che le funzioni di management impediscano ai religiosi una coltivazione costante della prima iniziazione morale, col rischio che i pastori si trasformano in operatori freddi sul piano affettivo, che cercano di colmare i vuoti emotivi con qualche mirabolante iniziativa edile o organizzativa, trattando i laici come il loro braccio operativo.
Non disponiamo di dati statistici adeguati per documentare quanto stiamo dicendo, ma crediamo che, in via preventiva, potrebbe forse essere utile in certi casi instaurare un sistema di formazione permanente, come accade per i medici (ECM è l’educazione continua in Medicina), conferendo dei “crediti” per ogni evento formativo cui un soggetto, laico o religioso, abbia partecipato superando un test finale.
Se qualcuno ha proposte migliori, lo ripetiamo, si faccia avanti e le formuli pubblicamente, in modo da sanare l’insopportabile iato comunicativo esistente fra teologi e pastori, tra Facoltà e Parrocchie, tra ricerca scientifica in ambito religioso e vita di fede individuale o associativa.
È possibile che i pastori sentano il bisogno e avvertano il desiderio di momenti regolari (tipo: una giornata alla settimana) per una formazione permanente in teologia, scienze bibliche e scienze umane. Analogamente, alcuni di loro apprezzerebbero la possibilità di fruire annualmente di un breve ciclo di psicoterapia individuale a indirizzo psicoanalitico. Perché non aiutarli?
Addestrare al pluralismo
La carenza di contraddittorio usura progressivamente le capacità argomentative. Un corso introduttivo alla teologia potrebbe vantaggiosamente acuire il confronto prospettico, la disamina dei pro e dei contro e l’innesco di un dibattito costruttivo tra posizioni diverse dentro e fuori la Chiesa.
Un aneddoto. Ci è stato riferito che un apprezzato sacerdote sia stato pubblicamente interrotto, durante l’omelia di una messa festiva (il vangelo era la pericope dell’adultera da lapidare), da una parrocchiana interessata alla teologia “femminile”, che fece notare: “né lei né l’evangelista fate menzione dell’uomo, adultero, che trasgredisce la legge. È una presentazione tutta al maschile”. Tra il mormorio dei presenti, pare che il celebrante abbia gentilmente risposto riconoscendo la verità della critica e invitato chi avesse dubbi a incontrarlo in sedi più riservate, per non interrompere il rito.
Comunque la si pensi, questi episodi si diffonderanno, poiché il cittadino abituato a discutere temi etico-politici in contesti pluralistici, non tollera la carenza di un dibattito paritario, uno stile, del resto, che san Tommaso amava intensamente (sed contra, respondeo).
Una volta stavo anch’io per alzarmi durante la predica di un energico sacerdote che, senza preparazione adeguata e improvvisando frasi a effetto con tono stentoreo, sosteneva tesi pro-life estremistiche a proposito del caso Welby. Quello che penso in materia l’ho scritto nel volume Estetica nell’etica, Bologna, EDB, 2010, parte seconda “Welby, l’etica e Dio”: aiutare qualcuno nel morire (interrompendo trattamenti divenuti sproporzionati per eccesso) non significa farlo morire, cioè causarne colpevolmente la morte.
Torniamo al racconto. Uscito sul sagrato, chiesi a uno sconosciuto, un gentile, magro signore in giacca e cravatta, che cosa pensasse della predica. Mi guardò con tenerezza e allargò le braccia sussurrando: “lui la pensa così”. Ci riflettei. Non raggiungerò mai una tale umiltà nell’esprimere il dissenso.
La Chiesa non è abituata al contraddittorio e nemmeno lo è la teologia. Ci si aspetterebbe che nei Seminari e nelle Facoltà teologiche (e anche nelle università d’ispirazione religiosa) ci si allenasse sistematicamente (discenti e docenti) a una vera disputatio. Ma le cose non vanno così, come se una sottile pavidità paralizzasse la dialettica del confronto pubblico, aperto, trasparente. Mi è sempre piaciuta l’espressione che ho imparato da un amico teologo morale: si deve rispetto (meglio, prossimità) alle persone, non alle loro idee, se queste ultime sono (se si ritengono cioè) idee sbagliate: in questo caso “rispettarle” impone di contestarle, esibirne le contraddizioni interne, proporre una prospettiva antinomica.
Osserviamo, invece, certe collane teologiche: a un articolo introduttivo (che apre un libro collettivo) seguono contributi che reciprocamente si ignorano e in cui ciascun autore esibisce il proprio punto di vista, glissando su ogni contestazione che si sarebbe potuta formulare o ricevere tra colleghi.
Ci domandiamo, c’era bisogno di un convegno e di un libro, per collezionare articoli che ciascun autore, solitariamente, avrebbe potuto inviare al curatore dal proprio studiolo? A loro volta, alcuni editori cattolici sembrano presi dalla smania dell’unanimismo e si guardano bene dal “lavare i panni sporchi in piazza” (come una volta mi suggerì un redattore). Forse si lega a questa reticenza la modalità frequentemente silenziosa con cui un manoscritto viene respinto dalla casa di pubblicazione: all’autore non si chiariscono le ragioni del rifiuto.
Il filosofo Alasdair MacIntyre pensava in tutt’altro modo all’accademia e pretendeva che essa costituisse un luogo di dissenso forzato, di obbligata partecipazione al conflitto, di educazione al confronto argomentato e, se occorre, al cimento tra linee di ricerca diverse, tra scuole di pensiero rivali, anche se unite da un’unica fede. MacIntyre aggiungeva che si doveva garantire, sul piano istituzionale, un’effettiva libertà di espressione anche a minoranze di pensiero che rischiano di venire schiacciate dal main stream del pensiero religioso.
Bizzarrie? No! MacIntyre non faceva che attualizzare l’università del XIII secolo, in cui agostiniani e aristotelici portavano avanti, con fierezza di discussione, le rispettive linee di ricerca (A. MacIntyre, Enciclopedia, genealogia, tradizione, Milano, Massimo, 1993, p. 322).
Un linguaggio comprensibile
Quella che pare un’avvertenza ovvia si scontra con l’evidenza solare che purtroppo anche alcuni teologi di indiscusso peso accademico adottino un lessico gergale, esoterico, incomprensibile ai più. Un laureato in filosofia con interessi religiosi capisce ben poco, anche a una seconda lettura, di ciò che viene affermato.
Tali autori, ospitati con troppa facilità da importanti collane teologiche, senza che un lavoro redazionale conferisca una forma giustificativa rigorosa e verificabile alle tesi sostenute in volumi inutilmente ponderosi, si mostrano spesso, paradossalmente e fortunosamente, arguti conferenzieri, come se l’oralità restituisse loro l’alito idoneo per emettere suoni non cacofonici.
Questa dissociazione riflette bene la schizofrenia interna all’ecclèsia: un teologo che parla solo a sé, un vescovo che tollera tale vezzo, i pastori che sussurrano riservatamente le loro insoddisfazioni, il popolo di Dio che interrompe la lettura (di testi consigliati dall’alto) dopo i primi vani sforzi.
Un corso di formazione teologica dovrebbe prendere distanza da questo tipo di sortite, che non solo penalizzano la disciplina in sé, ma non svolgono il dovere di aiutare la comunità a pensare la propria fede.
Prendiamo ancora il caso della bioetica. Ho sempre apprezzato l’atteggiamento di quei teologi che mostrano di sentire rivolte a sé le domande casistiche più delicate e che cercano di rispondervi con lealtà e coraggio. Sei contrario all’agevolazione del “suicidio”? Sempre? Perché? Sei favorevole alla maternità sostitutiva “altruistica”. Sì, no, non so, raccontami la vicenda: non ci sono altre chances.
Occorre, certo, ripensare nel frattempo il linguaggio argomentativo, ma non possiamo attendere secoli futuri in cui si parlerà un’altra lingua teologica. Il caso è serio adesso! La bioetica salvò la vita di una filosofia meta-linguistica esasperata e sta salvando quella di una teologia che si arrampica senza successo sui vetri, evitando, per ragioni extra-scientifiche, di prendere posizione. Sei favorevole a conservare i gameti di giovani coppie che hanno un’intenzione procreativa ma di cui un partner dovrà subire un’invalidante chemioterapia?
Per quali motivi pensi che ci siano due sessi soltanto e come li identifichi e distingui? Questioni simili andrebbero discusse in sedi scientifiche e formative anche quando impattano con la politica: è giusto o ingiusto che un cattolico, la cui patria è invasa da un ingiusto aggressore, che si è macchiato di crimini di guerra, reclami un presunto diritto morale di non prendere le armi (per obiezione di coscienza), dicendosi contrario sempre e comunque a ledere la vita altrui? E perché?
L’obiettivo di un’introduzione alla teologia per chierici, religiosi e laici (dato che tutti ne hanno un bisogno impellente) non è quello di trasmettere un sapere, ma di aiutare la comunità discente ad approfondire il suo punto di vista, esprimerlo e difenderlo nelle istituzioni ecclesiali e in quelle civili, dovendo noi cristiani essere sempre pronti a rispondere e offrire le ragioni della speranza che è in noi (1Pt 3,15).
Ad esempio, se un lettore trova in un ponderoso testo manualistico l’affermazione teologica che la morte è condizione «costitutiva dell’uomo» e che quindi non è la «morte temporale» quella che è «entrata nel mondo» per l’«invidia del diavolo» (affermazione diligentemente, ma – secondo noi – erroneamente basata sui testi di Genesi e Sapienza), tale lettore, che milita invece (supponiamo) in una prospettiva “immortalistica” ha il diritto di replicare (al suo avversario “mortalista”) che Dio non ha creato la morte e ha fatto l’uomo a-mortale.
Ciò che col peccato è andato perduto è (tra l’altro) proprio l’impossibilità di cibarsi dell’albero della vita, grazie al quale il progenitore riceveva forza di sussistenza. Il Catechismo della Chiesa cattolica parla di una natura umana «indebolita» nelle sue forze e sottoposta alla sofferenza e al «potere della morte», e non solo di una natura divenuta incline al peccato. Il pensatore immortalista anti-dualistico rifiuta appunto di scindere i due aspetti: l’uomo perde a causa del peccato sia la virtù dello spirito, sia la robustezza corporea.
Ciò che sarà escatologicamente redento (lo diciamo con qualche semplificazione) è l’intero corpo vissuto, che “all’origine” spontaneamente godeva di una condizione sana e felice. Lottare per combattere le patologie e per superare la tendenza usurante che ci fa invecchiare e ci conduce alla morte, non è la folle presunzione di qualche peccaminoso trans-umanesimo, ma parte del compito di “ri-creazione” che Dio ogni giorno consegna alle mani dell’uomo.
Esponendo questa tesi in conferenze e seminari, è capitato che l’uditorio si dividesse. Niente di più fecondo. Questa è appunto l’utilità di una teologia che aiuti a pensare la propria fede. Qualcuno potrà offendersi se io definisco “dolorista” chi presume di dar senso a ogni patimento (anche allo straziante dolore da cancro) considerandolo come una benefica “prova” come furono i 40 anni passati dal popolo eletto nel deserto.
Io giudico fallimentare sul piano cristiano questo tipo di giustificazione del negativo. Il male è assurdo. Punto. Va combattuto. I teologi e i fratelli nella fede, che mi contestano, hanno perfettamente il diritto di contestarmi, ma non quello di ironizzare, insultare o bypassare il problema con qualche formula criptica, umiliante o beffarda di auto-rassicurazione clericale.
Concludiamo: teologia per teologi
La teologia fa bene a tutti, se fatta bene, anzitutto ai teologi. Dunque a tutti, teologi compresi, andrebbero rivolti corsi di aggiornamento teologico condotti, come abbiamo auspicato, con spirito interdisciplinare, laico, pluralistico. Della teologia infatti non si può fare a meno, poiché chi cerca di prescinderne – anche se è un vescovo santo, un prevosto attivista, un’integerrima badessa, un laico oblativo – fa una cattiva teologia.
Il sacerdote che registra in video on line il proprio commento al lezionario festivo, dovrebbe rendersi conto che, per quanto egli si prepari su testi esegetici autorevoli, il suo modo di interpretare e di esporre risente di una precomprensione teorica, di una cifra teologica magari inconsapevole, che influenza la performance mediatica.
Purtroppo, capita talora che biblisti dotti sul piano storico-critico siano pericolosamente deboli su quello filosofico; così come sfortunatamente viene a volte promosso un ideale di “discernimento” (altra parola inflazionata) che si basa su un grande impegno empatico, invece che analizzare i presupposti teologici (le nozioni di giustizia cristiana, le immagini di speranza evangelica, il tipo di fede del Dio di Gesù Cristo) delle forme e dei contenuti dell’ascolto, della comprensione, dell’interpretazione di storie di discepolato.
Di conseguenza, viene purtroppo raccomandato un paradigma di sequela cristiana operosa ma superficiale, incapace di rispondere alle domande dell’uomo d’oggi e carica di nostalgia per un tempo antico (in realtà mai esistito) in cui il cristianesimo pareva governare in modo univoco e trionfale la vita di popoli e individui.
L’articolo evidenzia bene, io credo, la criticità fondamentale del parlar di Dio a noi oggi. Al di là’ della bella disamina su chi è a chi sia utile oggi parlare e sentir parlare di Dio, nel testo emergono con forza due idee forse implicite ma dirompenti: chi parla di Dio lo fa forse da dotto , ma risulta inutile alle orecchie di coloro che han dentro domande cui non si fornisce ne risposta ne percorso per cercar risposta. Credo anch’io che occorra pluralità di figure e dibattito sincero poiché’ gli ascoltatori han pluralità di estrazioni e di domande. Occorrerebbe anche un linguaggio accessibile ma preciso e tanta testimonianza di esperienze umane ragionate e lontane dal divenire esempi o paradigmi. Belli gli incontri di formazione per giovani catechisti che promuoveva Martini in diocesi e dopo di lui ancora vivi: pochi fronzoli e schiettezza nel fornire modi di rispondere ai ragazzi alle domande vitali da loro poste. L’adulto potrebbe aver bisogno di teorie? Forse, ma credo abbia bisogno soprattutto di essere educato al dibattito umile ma sincero al fatto che per aver risposte occorra farsi ulteriori domande invece che arroccarsi in ciò che dice di pensare l’ecclesiastico cui si e’ affezionati in quel periodo. Infine: coi limiti che conosciamo, viva l’online! Inclusivo e accessibile il contenuto online stimola il dibattito è si lascia correggere facilmente prescindendo dall’oratore a vantaggio delle idee…
Testo profetico questo scritto di Paolo Cattorini.
Prima di arrivare ad essere “teologi” molti laici che si presentano e si sentono tanto esperti
dovrebbero avere almeno le basi della conoscenza della fede cattolica. C’ e’ tantissima ignoranza di base , sono ignorati proprio i fondamentali . E così abbiamo i”laureato in teologia” come Murgia che si scopre ha fatto solo un corso annuale per insegnanti di religione. Come dice un personaggio di Verdone nel film”Un sacco bello’ : manco le basi.
Sarebbe come chi saltato a pie’ pari sei anni di medicina generale ,volesse diventare d’ amble’ neurochirurgo.
Fra tutte le molteplici questioni poste dall’articolo mi sembra di poter sottolinearne una che viene completamente disattesa: rimane valido il detto: “se vuoi insegnare a Pierino, prima devi conoscere Pierino”. Voglio dire: il desiderio di addentrarsi nello studio della teologia non nasce spontaneamente, almeno tra i nostri cristiani, tranne che per qualcuno che ha avuto un’infarinatura da altre fonti; questo desiderio va anche alimentato e promosso. Ma mi domando: quanti operatori pastorali sono davvero convinti che questa materia non è soltanto facoltativo? Operatori che, essi stessi, considerano la pastorale un’affare manageriale e si sono accontentati di spigolare qua e là dei commenti o riflessioni magari per preparare qualche omelia? Domandate a parroci o altri operatori se è passato loro per la mente di sondare il terreno tra i fedeli su questa questione oppure la ritengono un problema marginale. Io rimango sempre più sconvolto dalla superficialità e impreparazione (l’interdisciplinarietà? Non ne parliamo) soprattutto tra i giovani presbiteri.
Il commento di V. Costantini mi colpisce per la franchezza e mi risparmia di tornare sull’argomento. Aggiungo solo che la “manovalanza pastorale” (altro nome per indicare un fare manageriale etc.) da una parte, non è interessata alla formazione teologica (un perditempo a cui magari ci si è dovuti sottomettere durante la formazione seminaristica), dall’altra, però, invoca il sapere (della teologia o del magistero) quando deve agire o decidere su questioni a cui non ha mai dedicato tempo e letture. In questi momenti vuole sapere “come stanno le cose” (in campo morale o dogmatico) al fine di “applicare” (gergo orribile ma ancora in uso) questo sapere (norme, idee) nel concreto. E così, una fonte centrale della conoscenza teologica, ovvero l’ESPERIENZA (che è già “sapere”) va a farsi benedire, dal momento che i primi che non ci credono davvero all’esperienza/concretezza della vita sono proprio (ovviamente non tutti) coloro che ritengono la prassi pastorale più importante del sapere teologico.
L’ultimo grande teologo/a cattolico/a si chiama Flannery O’Connor. Una parola nuda, senza sofismi. Un realismo cristiano disarmante e scandaloso. Una continua coscienza del numinoso che ci sovrasta e al contempo ci attira a sé, disperatamente. Un dieu caché in ciò che ci disturba e ci repelle. Francesco che abbraccia il lebbroso. Altro che Mancuso & co…Una lettura imprescindibile per molti nostri cicisbei in cattedra.
La lancio come una provocazione: ma siamo davvero sicuri che questo tipo di discorsi abbiano un pubblico di “ascoltatori”? Forse, se si escludono gli addetti ai lavori e qualche laico più o meno engagé, non sono poi molte le persone davvero interessate alla formazione teologica come proposta dalla Chiesa cattolica
Plaudo alle considerazioni svolte dall’autore dell’articolo. Sono molteplici i focus tematici affrontati. Ritengo che soprattutto in Italia – o meglio nella Chiesa italiana – la riflessione teologica sia ritenuta un “lusso” da non permettersi. Si assiste a una “pastoralizzazione” pervasiva di ogni tema con una disaffezione alla riflessione. Si è impegnati a “confezionare” proposte di fede a la page che solletichino l’emotivismo e il sensazionalismo. Si assiste alla disaffezione per la speculazione e ci si adagia su proposte à la carte, assecondando gusti e bizzarrie del momento.
Si ritiene che la teologia sia per addetti ai lavori e che il ciclo istituzionale di formazione teologica sia un ticket obbligatorio per quanti devono accedere al ministero ordinato, pronti ad abbandonare per sempre ogni approfondimento teologico dopo l’ordinazione.
La stessa formazione dei presbiteri è ostaggio di un’ossessione per l’umano troppo umano. Si dimentica che con l’umano più scavi e più tocchi il fondo. La vocazione del cristiano – e di ogni uomo – non è forse quella di elevarsi?
Altro tema su cui soffermarsi è la distinzione dei percorsi di formazione teologica in Facoltà e Istituti di Scienze Religiose. Distinzione che genera una teologia del doppio binario: per preti e per laici. Paradossalmente in tempi in cui si parla di formazione congiunta tra presbiteri e laici, di sinodalità, di corresponsabilità, si continua a tenere in piedi tale distinzione.
Tema altresì urgente è quello della didattica della teologia. Presso la quasi totalità delle facoltà statali ci sono corsi di didattica delle diverse discipline, solo nelle Facoltà teologiche e negli Istituì di scienze religiose mancano corsi di didattica della teologia.
E come non rendersi conto poi dell’afasia della teologia nell’agone culturale contemporaneo? Questioni teologiche messe in campo da pensatori fuori dei nostri recinti che riescono a catalizzare la discussione su questioni emergenti con più acribia di tanti titolari di cattedra delle nostre Facoltà teologiche.
Inoltre, il sintagma “chiesa in uscita” temo che stia assumendo il significato paradossale di “chiesa in uscita”, cioè fuori dalla temperie culturale contemporanea. Si tratta allora di cimentarsi per una “chiesa in entrata”, cioè una chiesa che sappia prendere la parola nelle questioni scottanti del mondo. E questo è possibile solo con una teologia che sia sempre più capace di un approccio multidisciplinare, interdisciplinare e transidisciplinare, come ben evidenziato dalla Veritatis gaudium. E soprattutto abbia l’orecchio attento agli areopaghi contemporanei dove si affrontano le domande che attanagliano l’uomo contemporaneo.
Sono solo alcune considerazioni a caldo scaturite dalla lettura dell’articolo.
Grazie a Paolo Cattorini per questo articolo. Le questioni toccate sono tante, e ancora molte altre potrebbero essere aggiunte.
Ho l’impressione però che almeno un’altra questione va nominata: una certa disistima di cui sempre più soffre la teologia nella Chiesa cattolica, a tutti i livelli. Certo, sulla base dei fatti esposti in questo articolo si potrebbe dire che questa disistima è in parte meritata. Però quanto meno l’effetto è un circolo vizioso: più la teologia viene accusata di essere lontana dalla vita (diciamo così per semplificare), meno viene cercata, più rimane isolata e si allontana ancora di più dalla vita. Ma ciò comunque ha una notevole conseguenza sul problema affrontato da Paolo Cattorini: mi chiedo quale normale parrocchiano, interessato o impegnato, si possa sentire oggi spinto a frequentare un corso di una materia che spesso sente qualificata (all’interno della Chiesa!) come rischiosa o inutile o velenosa per la fede o colpevole delle divisioni tra cristiani ecc.
Dall’altra parte, però, la teologia entra nello spazio pubblico. Ad opera di chi? I primi nomi che mi vengono in mente sono (in ordine alfabetico) Cacciari, Galimberti, Mancuso, Murgia, Recalcati, Vannini. Cioè: o non credenti, o credenti per un motivo o per l’altro «marginali». Mettendo tra parentesi qualsiasi altra considerazione, ciò mi pare che dimostri che un interesse sociale esiste: paradossalmente la teologia gode di migliore fama fuori la Chiesa che dentro.
Mi chiedo allora se ciò che dice Paolo Cattorini (e cose analoghe che possono essere dette) non possa diventare lo stimolo non ad ingaggiare battaglie di incertissimo esito per cambiare i «corsi di teologia per laici», ma a creare luoghi di studio e diffusione della teologia diversi sia da quelli ecclesiastici, che coinvolgano coloro che vogliano (e abbiano le forze per) contribuire ad un progetto di ricerca e di confronto: da un punto di vista cattolico, protestante, ortodosso e anche non credente.
Ho appreso proprio oggi che nella diocesi in cui risiedo da quest’anno accademico 2023-24 i laici possono essere ammessi al Corso teologico istituzionale (cioè, quello fino allo scorso anno riservato ai seminaristi).
Indubbiamente gli insegnanti saranno gli stessi che già sono docenti nei seminari. Si può ben comprendere allora che la casta vuole assicurarsi la conservazione della poltrona, una volta venuto meno un congruo numero di alunni del seminario che giustifichi la loro presenza in cattedra. E pensare che ci fu un tempo nel quale un santo voleva svuotare l’università di Parigi e dare la possibilità ai professori di essere evangelizzatori di terre lontane. A quando una Chiesa davvero in uscita?
Premesso che per me la dicitura “teologia per laici” è aberrante, come se ci fosse un teologia di seria A e di serie B, condivido quanto espresso dall’autore in questo articoletto. Non ho mai peraltro capito come mai solo in Italia ci siano gli Istituti di scienze religiose: altrove non c’è, anzi nelle Università cattoliche di tutte le nazioni c’è una Facoltà di teologia, cosa del tutto assente e neanche prevista/prevedibile nel nostro Paese. Tuttavia a mio avviso questi articoli, seppur inquadrano bene la problematica seria e grave della teologia in Italia (dato che si fa riferimento alla “teologia di”, io penso alla mia teologia del gioco: https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2021/07/teologia-del-gioco.html), non dicono una cosa fondamentale: dietro a tutto questo c’è un problema di carattere economico. Se la teologia è insegnata dal prete ad ogni livello, problemi non ci sono: tanto c’è l’otto per mille!! Se è insegnata dal laico … chi lo ricompensa??? Quando deve prendere?? Il cambiamento passa anche da qui. Anche perché un laico può portare il suo plurale vissuto nella teologia che non è il vissuto dell’accademico del prete x il cui compito – senza offesa per nessuno – è studiare dal lunedì al venerdì in seminario e nel week-end magari aiutare in una qualche parrocchia/comunità pastorale.
P.S. Di omelie bislacche ne ho sentite: l’ultima nella solennità dell’Assunta un prete polacco ha sparato a zero contro le unioni omosessuali. Per fortuna che era la solennità dell’Assunta!!!!
Guarda un po’ che eccentricità: un prete cattolico che fa il prete cattolico!
Magari sparare a zero no. Ma forse è meno bislacca di certe omelie in cui si proclama che Dio non è onnipotente ed altre amenità consimili.
Egregio Tobia, le omelie dovrebbero essere intonate al mistero celebrato… in questo caso l’Assunzione di Maria. Cosa c’entrano le unioni omosessuali con l’Assunzione di Maria lo sa solo lei e il prete polacco!! Personalmente non vedo alcun nesso logico/teologico/liturgico. Se essere prete cattolico vuol dire aprire bocca su cose che non hanno a che fare nulla con la liturgia celebrata, allora di preti cattolici ce ne sono pure troppi!!!
Non so quale nesso abbia presentato il prete polacco nella sua omelia. Ma uno glielo fornisco subito io ed è chiaro come il sole: l’obbedienza di Maria alla volontà del Padre che involve il suo essere miracolosamente “Vergine illibata nella sua divina maternità” contrapposta al contemporaneo rifiuto del piano di Dio, financo sull’unione tra uomo e donna nella castità matrimoniale. La purezza della Beata Vergine Madre di Dio per i meriti di Cristo è un segno profetico per questa nostra epoca di edonismo soggettivista, sazio e disperato. Eccole il nesso
W il prete polacco che cattolico lo è ancora! Dubito che lo siano molti teologi che smaniano per il prurito di novità. Da laico dico solo che i battezzati hanno bisogno di fede e di chi testimonia Gesù Cristo. Il resto sono dispute clericali (nel senso di casta che se la suona e se la canta), vengano esse da teologi, da vescovi, da preti o da filosofi. Sento un sottofondo di anni sessanta nell’articolo, la verità sarebbe da costruire comunitariamente e democraticamente secondo costoro, derivante da discussioni e dispute. Giovanni Paolo secondo si rivolta nella tomba. Seguite i polacchi che non andrete all’inferno. Dio salvi la Sua Chiesa
Perché i polacchi sono gli unici ad essere cattolici e sono gli unici che andranno in Paradiso???? Lei lo sa con assoluta certezza??? Io francamente dubito che siano cattolici quelli che non vogliono cambiare nulla, anzi quelli per i quali dovremmo ritornare indietro di 500 anni. Dio ci salvi dagli indietristi che peraltro hanno condannato e crocifisso suo Figlio!!!
In verità la crocifissione del Signore fu il frutto di un buon accordo tra sacerdoti/sadducei (indietristi) e farisei (progressisti). Comunque tutti ben invischiati nel potere religioso del tempo. Meditate gente, meditate.