Per una teologia dal Mediterraneo

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Pubblichiamo di seguito il testo del Manifesto per una teologia dal Mediterraneo reso pubblico lo scorso 21 settembre a Marsiglia, nella sede dell’Institut Catholique de la Méditerranée, nellambito delle iniziative per l’incontro dei vescovi del Mediterraneo con papa Francesco. Il Manifesto nasce dal lavoro di teologhe e teologi che − a partire dal 2019 e dal discorso di Francesco a Napoli − si sono confrontati su che cosa significhi fare teologia nel contesto del Mediterraneo, quale sia lo specifico di una teologia contestuale e come questa possa contribuire a una più profonda comprensione del valore delle differenti culture per l’annuncio del Vangelo; a una più adeguata intelligenza della cattolicità della Chiesa; alla promozione di una cultura dell’incontro. Il Manifesto esprime l’impegno per la costruzione di una rete teologica mediterranea alla quale stanno aderendo molte istituzioni teologiche (Napoli, Bari, Venezia, Palermo, Marsiglia, Libano, Maghreb e altre). Una tappa importante, aperta e generativa, di un cammino che si spera possa continuare nella ricchezza di un lavoro in rete.

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Il testo che segue ha visto la luce da esperienze teologiche in atto sulle rive del Mediterraneo e da un percorso di ricerca e di confronto durato diversi anni. Viene ora consegnato nella forma di un manifesto a quanti, interessati al tema, intendono coinvolgersi, a diverso titolo, nel processo inaugurato. Secondo l’etimologia della stessa parola “manifesto”, è infatti nostra intenzione offrire alle chiese, alla comunità accademica e a quanti desiderano incrociare il nostro lavoro, un testo che rende note alcune acquisizioni teoriche e alcuni punti fermi a partire dai quali intendiamo lavorare per una teologia dal Mediterraneo. Si tratta, pertanto, di un testo aperto, dinamico come è il processo che ci auguriamo possa originarsi dalla consegna del presente manifesto. Per tale ragione esso rappresenta pure un’assunzione di responsabilità, da parte nostra in quanto teologi e teologhe, per una teologia che possa contribuire a tessere reti tra le chiese mediterranee e a costruire un Mediterraneo di pace.

I. Il Mediterraneo ci interpella

Questo documento nasce dall’ascolto.

Che cosa udiamo, vediamo, tocchiamo, sperimentiamo mettendoci in ascolto profondo del Mediterraneo?

Il nostro non può limitarsi ad essere un ascolto di superficie. Rivolta verso l’altezza dei cieli e nel contempo verso gli abissi della terra, la teologia ci spinge verso le profondità del Mediterraneo, e ci costringe ad attraversarne le città, i porti, i luoghi di culto, le casbe, le porte…, là dove avviene il meticciato: frutto di incontri e di conflitti, di dialoghi e di compromessi, di accoglienza e di rifiuti.

Di fronte alle contraddizioni, alle emergenze sociali e alle molte sfide che si propongono, soprattutto per i credenti, non possiamo rimanere inerti e in silenzio. Chi fa teologia avverte la responsabilità di portare a parola tutto questo con uno sguardo di fede. Consapevoli che «insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera»[1],  siamo chiamati ad offrire una narrazione diversa del Mediterraneo, delle sue storie e dei suoi volti, per condividere con quanti incontriamo una lettura sapienziale, secondo la mistica della speranza, in solidarietà con tutti i naufraghi della storia, secondo uno stile evangelico di dialogo, relazionale e profetico.

Le mille coste e le molte popolazioni, i tre continenti (Africa, Asia, Europa) e le cinque rive (Africa del Nord, Medio Oriente, Mar Nero e Mar Egeo, Balcani ed Europa Latina) che si affacciano sul Mediterraneo, così fortemente caratterizzati dalla esperienza culturale e sociale delle sponde − ovvero da quanto il mare determina come vita, abitudini e scelte, dagli scambi e dalle commistioni che avvengono lungo i crocevia delle strade e delle piazze − sono stati, nei secoli, luoghi favorevoli di svelamento del senso dell’umano e del divino.

Il Mediterraneo è stato culla di storia, religioni, migrazioni, scambi economici e culturali, percorsi di pace e di progresso. Tuttavia oggi l’immagine del naufragio appare forse quella che meglio lo rappresenta, essendo diventato di fatto, per molti, una tomba: luogo di ingiustizie e di disuguaglianze, deportazioni e stragi. Un luogo dove tutti siamo naufraghi: perché quello a cui assistiamo nel Mediterraneo è un naufragio di civiltà.

Il Mediterraneo è stato anche grembo che ha visto sorgere il pensare credente, non solo quello cristiano. Qui, non senza conflitti e martirii, hanno preso forma quei modelli teologici che ancora oggi sono termine di confronto per nuove teologie elaborate anche al di fuori di esso.

Il nostro impegno è per una teologia che, facendo tesoro di questa millenaria tradizione, si riconosca come teologia dal Mediterraneo. Vogliamo accogliere la lezione magistrale che in questi anni papa Francesco ci ha donato, soprattutto nel convegno di Napoli del 2019, all’incontro con i Vescovi del Mediterraneo a Bari nel 2020 e in molte altre occasioni, e lavorare per una teologia che dal Mediterraneo possa contribuire a generare percorsi di fraternità, condivisione e pace all’interno delle comunità credenti e in dialogo con quanti si spendono per la costruzione di un mondo fraterno. Ciò sarà possibile se si recupererà sempre più la dimensione affettiva, relazionale e agapica dell’umanesimo mediterraneo.

Siamo anche noi convinti che non è possibile leggere realisticamente il Mediterraneo «se non in dialogo e come un ponte – storico, geografico, umano – tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace»[2].

Fare teologia nel Mediterraneo vuol dire per noi scegliere di costruire una teologia non neutrale, che ha nella logica dell’incarnazione e nel mistero della Pasqua i suoi architravi. Una teologia che riconosce nella storia non uno spazio meramente applicativo, bensì il luogo in cui comprendere il senso autentico dell’annuncio del Vangelo.

II. Uno stile per fare teologia nel Mediterraneo
1. Una teologia contestuale e narrativa

Il Mediterraneo ha bisogno di una teologia che viva fino in fondo la sua dimensione contestuale, riconosciuta come una chiamata propria e irrinunciabile. Tale esigenza appare oggi un elemento costitutivo, non relegabile semplicemente ad alcune proposte “originali” e “marginali”.

I popoli del Mediterraneo, che hanno favorito il fecondo incontro tra le tradizioni di fede ebraica e cristiana e il pensiero greco-ellenistico, custodiscono, nel loro modo di intendere la vita e il mondo, l’interpretazione della teologia come “affectus fidei”. Il recupero della dimensione “affettiva”, unita inscindibilmente a quella “intellettuale” e tale da costituirne la molla interiore, può favorire una lettura non estrinseca, ma – per così dire – dall’interno di quanto accade in tale contesto.

La teologia dal Mediterraneo è, in tal senso, una teologia “immersiva” che si lascia toccare dalle ferite e dalle inquietudini che esprimono i contesti mediterranei, sapendo cogliere nondimeno anche il novum che in essi affiora. È da queste ferite che scaturisce la luce della Pasqua di Gesù, criterio vivo con il quale continuare a interpretare il movimento dell’analogia, che ha permesso nei secoli alla Chiesa di leggere nella realtà, nel creato e nella storia, nessi, segni e rimandi all’agire salvifico di Dio.

Al contesto come tale, e a questo contesto mediterraneo in particolare, va riconosciuto un valore non soltanto in sé, bensì in ordine alla salvezza operata da Cristo in vista dell’avvento del Regno. In tale senso, il Mediterraneo può essere inteso come “luogo teologico” che richiede l’attenzione, pacata e non superficiale, verso le storie di vita dei singoli e delle comunità, le biografie e i vissuti, a favore di una teologia più narrativa.

2. Una teologia dell’ascolto…

Una teologia dal Mediterraneo, come ogni teologia, vive dell’ascolto della Parola di Dio e dell’ascolto della vita degli esseri umani. È una teologia che non rimane insensibile al grido di dolore e alle richieste di giustizia che giungono dai tanti naufraghi della storia: da coloro che lasciano i loro paesi, da quanti sono sfruttati nel loro lavoro e umiliati nella loro dignità; da quanti sono privati del diritto di abitare la propria terra, spogliati della possibilità di un futuro. Suo compito è dare voce all’istanza profetica racchiusa nel “grido” dell’umanità che riecheggia quello del Cristo in croce (cf. Mc 15,34).

Sappiamo di dover partire da questo ascolto che, più di ieri, assume oggi il suono del silenzio e del pianto dei sommersi e non salvati, delle storie di rassegnazione e di riscatto. Vogliamo farlo con lo stile di una teologia umile, che non dà risposte preconfezionate, ma si lascia abitare dalle provocazioni di questo mare e delle terre da esso raggiunte.

Radicata, come ogni autentica teologia, nell’auditus fidei e nell’auditus hominis, la teologia dal Mediterraneo vuole praticare il codice dell’accoglienza che non teme la pluralità; che aiuta a considerare le differenze presenti nel “con-testo” come una inedita “tessitura di testi” che genera novità di vita e di pensiero, non come un intralcio. È una teologia capace di un’ermeneutica della misericordia che sa promuovere la conoscenza dell’altro − chiunque egli sia: Giudeo, cristiano musulmano, diversamente credente o non credente − nella ricchezza di cui è portatore, aprendo vie di autentico scambio nel tessuto globale mediterraneo sociale ed ecclesiale.

Non più eurocentrata, è una teologia capace di attraversare le culture, attenta a riconoscere l’altro senza temere una possibile “contaminazione”, capace di dare voce alle differenti rive che circondano il Mediterraneo: alla ricchezza  dell’Oriente da cui è venuta la luce della Sapienza divina – i cui “semi” sono già presenti nelle vite, nelle religioni dei suoi popoli –  a quella dell’Occidente europeo con il suo patrimonio speculativo e umanista, alimentato in modo particolare dalla tradizione giudaico-cristiana; e a quella del Continente africano ricco non solo di risorse naturali, ma anche di inestimabili qualità umane come il profondo senso religioso – qual è vissuto nell’Islam del Maghreb e nelle religioni tradizionali africane − il senso della famiglia, il rispetto della vita, la vita comunitaria e il senso acuto di solidarietà[3].

«Non possiamo pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti, nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia, perché la fede non può chiudersi dentro i confini della comprensione e dell’espressione di una cultura particolare. È indiscutibile che una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo» (EG 118).

3. … e del dialogo

Una teologia dal Mediterraneo traduce nella sua prassi il principio del «dialogo a tutto campo» (VG Proemio 4b). L’istanza dialogica, del resto, non può essere considerata una semplice scelta opzionale tra le tante, ma va assunta a partire dal suo caratterizzare la dinamica stessa della rivelazione: Dio è dialogo e il dialogo è luogo di Dio.

Al dialogo con le altre tradizioni religiose deve accompagnarsi un dialogo con le culture e con i diversi approcci del sapere alle domande profonde che riguardano la vita degli esseri umani. Le asserzioni di fede, radicate nella tradizione viva della Chiesa, e nelle espressioni delle differenti confessioni cristiane (armeni, ortodossi, protestanti[4]…) vanno assunte e comunicate con la premura di evidenziarne le potenzialità dialogiche nel confronto con altre confessioni cristiane e tradizioni religiose.

Questo impegna i teologi e le teologhe del Mediterraneo a favorire l’interazione dinamica tra centri teologici e culturali, il «fare rete» (VG Proemio 4d) con le diverse espressioni delle realtà ecclesiali e religiose e con le molteplici altre che promuovono cultura e impegno sociale.  

4. Una teologia che superi il divorzio dalla prassi

Una teologia dal Mediterraneo, proprio perché si lascia interpellare dal contesto, è da sé orientata al vissuto concreto della comunità credente. Pastori e teologi, insieme al resto del popolo di Dio, desiderano superare quello che Papa Francesco ha più volte definito “divorzio” tra teologia e azione pastorale.

È tempo di oltrepassare antichi steccati e favorire nuove e feconde sinergie. Senza un’attenzione ai vissuti ecclesiali, la teologia si ridurrebbe ad attività da laboratorio, astratta, fredda, impersonale, autoreferenziale, inadatta a cooperare con l’intero popolo di Dio alla missione evangelizzatrice.

La teologia dal Mediterraneo riconosce nei vissuti ecclesiali il luogo generativo della sua riflessione, e intende sollecitare le comunità ecclesiali a una costante verifica circa la fedeltà a un’ermeneutica orientata al dialogo fecondo tra la Parola di Dio e la storia degli uomini e delle donne del nostro tempo. Di qui la proposta di percorsi accademici che valorizzino le narrazioni nate dalle prassi ecclesiali e accompagnino una formazione indirizzata al loro rinnovamento.

5. Una teologia che valorizzi la religiosità popolare

Una teologia del Mediterraneo non può non valorizzare la religiosità popolare come fede di popolo ed esperienza religiosa radicata in una tradizione credente. Non si può ignorare la forte portata di simboli, riti e cosmovisioni diffusi tra i popoli del Mediterraneo, rileggendoli in un orizzonte ermeneutico di fede condivisa. La religiosità popolare nel Mediterraneo è spazio privilegiato di contaminazione e di ospitalità reciproca di fedi e culture diverse.

Ed è luogo di espressione di quella “intercessione” che connota lo stile mediterraneo di relazione. Non riducibile a puro folclore, la religiosità popolare chiede di essere compresa in profondità, nelle sue forme tradizionali così come nel senso religioso della vita che lascia emergere. Ripartire dalla centralità dell’annuncio del kerygma, nello stile proprio del dialogo, consente di riconoscere la portata evangelizzatrice della fede popolare e di porre argine alle sue possibili derive.

6. Una teologia del “tra”

Una teologia dal Mediterraneo non può non rendersi conto che esso è uno spazio del “tra”. L’approfondimento della realtà mediterranea, frutto di interconnessioni e contaminazioni, può aiutare a riscoprire la dimensione dialogica di ciò che noi siamo, che si definisce e si costruisce ponendosi “sulla soglia” dell’altro, togliendosi i sandali «davanti alla terra sacra dell’altro (cf. Es 3,5)» (EG 169).

Se tra i compiti della teologia vi è tradizionalmente quello di cogliere il nesso dei misteri tra essi, in un mondo in cui «tutto è connesso» (LS 117), la teologa e il teologo devono saper cogliere nell’oggi rimandi, relazioni, interconnessioni tra temi, saperi e metodologie anche nel dialogo con le altre scienze. In una parola: la teologia del “tra” esercita una razionalità “complessa” «consapevole che la logica è uno strumento di verifica utile per verità settoriali e circoscritte all’ambito di ricerca, ma che gli strati profondi della realtà le sfuggono. […] Attraverso il suo movimento, collega ciò che è umano alla vita, alla natura, al pianeta, all’Universo»[5].

La teologia del “tra” è quindi l’esercizio di una razionalità aperta al mistero del mondo, non dissociabile quindi da ciò che attraversa e supera la ragione: l’amore. In questo senso, la teologia dal Mediterraneo va intesa come una “scienza delle frontiere” in cui il mare diventa metafora classica della “navigazione” aperta alla ricerca mai appagata e i “ponti”, le “strade” e le “piazze” del mondo antico divengono i simboli dell’incontro tra culture diverse.

Ciò che respinge per principio la teologia dal Mediterraneo è la legittimità della costruzione di “muri” ideologici e di qualsiasi altro genere. Diventa così imprescindibile l’apertura alla multidisciplinarietà e alla transdisciplinarità provocata dal contesto del Mediterraneo che esige nuovi percorsi didattici e l’attivazione di ulteriori competenze specifiche per gli studenti di oggi aperti al futuro.

III. Il contributo della teologia per la vita dei popoli del Mediterraneo

La teologia non è mai fine a se stessa e meno che mai lo è una teologia dal Mediterraneo. Profondamente radicata nei vissuti ecclesiali, essa vuole essere fermento e lievito per una narrazione del Mediterraneo, «in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza»[6]. L’opzione preferenziale per i piccoli e per i poveri dettata dal Vangelo diventa perciò opzione preferenziale per le minoranze.

1. Per la promozione della giustizia sociale e di una piena cittadinanza

Fare teologia nel Mediterraneo vuol dire ricordare che l’annuncio del Vangelo passa attraverso l’impegno per la promozione della giustizia e il superamento delle disuguaglianze causa di marginalità, che esso esige la tutela dei più vulnerabili.  Non è possibile fare teologia senza richiamare la necessità di una gestione non disumana e saggia dei flussi migratori, che non usi le migrazioni come pedina nella scacchiera della geopolitica internazionale, ma sappia accoglierne la provocazione per una reale presa di coscienza delle sfide del nostro tempo e per l’affermarsi di un più ampio senso della cittadinanza.

Non è possibile fare teologia senza assumere l’impegno a difendere nelle nostre società il diritto alla «piena cittadinanza»[7], andando oltre «l’uso discriminatorio del termine minoranza che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità» e «prepara il terreno alle ostilità e alla discordia»[8].

Si diventa pienamente cittadini quando si è posti nella condizione di poter contribuire a tutti gli effetti alla vita del paese in cui si vive e che si sente come proprio, e quando a ogni uomo o donna vengono garantiti gli stessi diritti. A tutti deve essere riconosciuta questa possibilità, a prescindere dalla cultura a cui si appartiene o dalla religione che si professa. La piena cittadinanza reca in sé anche il diritto alla libertà religiosa troppo spesso calpestato o negato.

Piena cittadinanza significa anche cittadinanza attiva, la sola capace di spezzare la logica della rassegnazione o dell’assuefazione e di fare da argine al moltiplicarsi dei sistemi di corruzione nella vita politica ed economica.

2. Per un cammino sinodale delle Chiese del Mediterraneo

Fare teologia nel Mediterraneo vuol dire contribuire a tessere una rete tra le Chiese del Mediterraneo e attraverso di esse tra i popoli dei paesi che si affacciano su questo mare. La teologia dal Mediterraneo si pone al servizio della trama di relazioni che si sta costruendo tra i vescovi del Mediterraneo attraverso gli incontri di Bari, di Firenze, e di Marsiglia.

È nostra profonda convinzione che solo insieme è possibile star dentro le sfide dei contesti mediterranei e che la comunione e lo “scambio di doni” tra le chiese delle diverse sponde aiuta a ritrovare il senso profondo dell’essere chiesa nel continuo rigenerarsi del suo mistero dentro i cambiamenti e i drammi della storia.

C’è uno stile sinodale, animato da sinceri sentimenti di fraternità, che va coltivato nelle relazioni tra le chiese dei paesi mediterranei e da vivere nel dialogo con le chiese sorelle e con gli esponenti di altre tradizioni religiose. La via del dialogo ecumenico, per quanto impervia, è quella da riproporre e sostenere attraverso esperienze di incontro, confronto e collaborazione nel comune ascolto dello Spirito. È l’eredità che sentiamo di dover accogliere dai tanti martiri del dialogo nel Mediterraneo.

Un’autentica sinodalità ecumenica può essere un primo e importante segno di credibilità della testimonianza cristiana nei paesi mediterranei ed è segno di speranza in un contesto lacerato da molteplici tensioni.

3. Per la costruzione di un futuro di pace

Fare teologia nel Mediterraneo significa non ignorare le diverse tensioni sociali, politiche e religiose, spesso causa di conflitto. L’orizzonte della fraternità universale sollecita il lavoro di una teologia della pace e per la pace, che con rigore ricerchi i fondamenti e le condizioni di possibili percorsi, capaci di ritessere i legami tra i popoli, lì dove ora regna la morte e di favorire esperienze di convivenza e amicizia sociale.

C’è un forte senso dei legami nei contesti mediterranei: una ricchezza su cui è bene far leva. Non sempre però le relazioni si aprono all’accoglienza di chi è estraneo alla propria cerchia o dello straniero. Nei paesi del Mediterraneo il senso dell’accoglienza e dell’ospitalità convive spesso con la spinta alla chiusura nella propria famiglia o nel proprio gruppo. La teologia può aiutare a evitare il rischio del familismo e incoraggiare azioni e sentimenti di solidarietà reciproca che facciano emergere nel forte senso della famiglia il sentirsi parte dell’unica famiglia umana e dell’unica famiglia dei figli di Dio.  Il “tra” che il Mediterraneo suggerisce, se ascoltato fino in fondo, è un “tra” che unisce, include, mette in comunicazione le diversità; un “tra” che è incentivo alla pace e antidoto alla guerra.

Non ci può essere pace, né autentica amicizia sociale, se si rimane sordi al grido della terra e del mare. Superare la logica degli interessi di gruppo esige che si prenda sul serio la questione ambientale. Il Mediterraneo è tra i luoghi in cui è più drammaticamente evidente l’alterazione degli equilibri ambientali con le relative e ricorrenti catastrofi. Non ci sono soltanto persone che muoiono in mare, c’è anche un mare che sta morendo. Molte delle guerre in corso sono dovute alle conseguenze degli squilibri ambientali o almeno fanno leva su di esse: la siccità e la carenza d’acqua, la desertificazione crescente, le situazioni di miseria e di fame e l’uso dei beni di prima necessità come arma. La teologia ha il dovere di ricordare ai popoli del Mediterraneo che solo uno sviluppo integrato, in sintonia con l’ambiente, come è accaduto spesso e in molti luoghi del Mediterraneo, è destinato a generare futuro e che il creato non è luogo di rapina, ma casa comune di cui aver cura, liberandone le potenzialità di bene.

4. Per un’esperienza religiosa “ospitale”

Fare teologia nel Mediterraneo può trarre nuovo impulso dall’attenzione all’esperienza religiosa, compresa come esperienza di Dio e perciò stesso terreno di incontro tra credenti di diverse tradizioni, ma anche riferimento essenziale di una fondazione teologica che muova dal rivelarsi di Dio e dall’esperienza che origina. Ci spinge in tale direzione il mistero del Cristo, Verbo incarnato, e della sua Pasqua per la salvezza dei molti. Guardare all’altro, alla sua fede, nella prospettiva dell’esperienza religiosa, può aiutare a fare di essa uno “spazio ospitale”, nel quale possano trovare accoglienza e riconoscimento le sensibilità proprie delle singole tradizioni e confessioni, in vista di un arricchimento vicendevole.

Si tratta di assumere la comprensione che l’altro ha della propria esperienza di Dio e della propria fede, di allargare lo spazio sacro imparando a concepirlo e a viverlo non come uno spazio da presidiare, ma come un luogo dinamico e attivo, un confine mobile e modulabile che sposta i suoi limiti senza annullarli per creare un’accoglienza capiente. Una simile prospettiva di comprensione apre alla possibilità di arrivare a condividere con altri credenti l’esperienza della presenza di Dio. Smilitarizzare le religioni vuol dire «smilitarizzare il cuore dell’uomo»[9] e contribuire a smilitarizzare le culture perché l’ospitalità reciproca diventi paradigma culturale e di pensiero, criterio di vita e di azione sociale.

Sappiamo di dover chiedere perdono, come credenti, per le chiusure giustificate in nome della fede, per i conflitti sostenuti da ragioni religiose, per la mancanza di coraggio nella denuncia dei mali provocati da sistemi ideologici e di potere. Vogliamo lasciarci istruire, piuttosto, dai vissuti di tante comunità che si sono rinnovate e convertite a partire dall’accoglienza dello straniero e che hanno ritrovato il senso vivo della loro fede facendosi accoglienti della fede dell’altro. È in questi vissuti che possiamo infatti riconoscere l’azione rivelatrice e innovatrice dello Spirito: «ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19; cf. Ap 21,5), ed è qui il novum che il Mediterraneo ancora racconta.

Ci impegniamo dunque, come teologi e teologhe dell’area mediterranea, a coltivare tutte le occasioni di confronto, di scambio e di riflessione per il rilancio di una proposta teologica che aiuti il Mediterraneo a riscoprirsi come ponte, mare del meticciato, e a costruirsi come arca di pace, “mare della fratellanza”.

Ci impegniamo a metterci a servizio di una teologia che dal Mediterraneo possa essere istanza critica e fattore di promozione di un umanesimo dell’accoglienza e della convivenza fraterna, per le popolazioni del Mediterraneo e per tutti coloro che al Mediterraneo guardano ancora con speciale attenzione.

Ci impegniamo a lavorare insieme con i pastori perché, in una relazione di reciproco sostegno, noi teologi possiamo sentirci riconosciuti nella diakonia dell’intelligenza della fede e loro possano sentirsi accompagnati e incoraggiati nel loro delicato servizio di discernimento e responsabilità ecclesiale. Con le nostre comunità vogliamo rinnovare il coraggio dell’annuncio e della testimonianza. Facciamo appello, infine, a quanti sono impegnati nel delicato lavoro della ricerca, dell’insegnamento e della formazione affinché continuino, ancora con più slancio e motivazione, il proprio impegno.

Che il Mediterraneo torni ad essere grembo di speranza: grembo e promessa di una fraternità possibile.


Le sigle EV, VG, LS indicano rispettivamente i documenti Evangelii Gaudium, Veritatis Gaudium e Laudato Si.

[1] Francesco, Lettera per il 100° dell’Università Cattolica di Argentina, 3 marzo 2015.

[2] Francesco, La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo, Napoli 21 giugno 2019.

[3] Cf. Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinod. Ecclesia in Africa, 42-43.

[4] Dei protestanti, il cui numero aumenta, in particolare con le migrazioni provenienti dall’Africa subsahariana.

[5] E. Morin, L’avventura del “Metodo”. Coma la vita ha nutrito l’opera, Raffello Cortina Ed., Milano 2023, pp.109-110.

[6] Francesco, La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo.

[7] Francesco – Amad Al-Tayyeb, Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019.

[8] Ivi.

[9] Francesco, Discorso Founder’s Memorial (Abu Dhabi), 4 febbraio 2019.

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