Giya Kancheli: periferie dell’impero

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Il 2 ottobre 2019 moriva a Tbilisi il compositore georgiano Giya Kancheli. Abbiamo chiesto a Chiara Bertoglio, pianista, musicologa e teologa, di ricordarne – anche attraverso il recupero della conoscenza personale – la figura e le caratteristiche della sua musica.

  • Chiara, hai avuto modo di conoscere personalmente Giya Kancheli: vuoi ricordare le circostanze e le impressioni che, tuttora, ne porti?

Devo ritornare al 2004, se non erro. Allora avevo 21 anni e, mossa dalla mia intraprendenza giovanile, avevo provato a scrivergli, manifestandogli il mio interesse per alcune delle sue opere. Kancheli mi rispose prontamente e molto gentilmente. Dopo poco tempo, trovandomi nei Paesi Bassi con mio fratello – pure musicista – per attività musicali, gli ho chiesto di poterlo incontrare ad Anversa, ove viveva. Siamo andati.

Ci ha stupito la cordialità con cui ci ha accolti nella sua casa. Dopo aver ascoltato la sua musica e averne a lungo parlato, ci ha trattenuto a cena: una cena tipicamente georgiana preparata dalla moglie. Lui era un affermato compositore in Europa, mentre noi eravamo due giovani musicisti italiani, sconosciuti.

Siamo rimasti in seguito in contatto, con regolare scambio di auguri. Quando ho avuto modo di scrivere di lui e della sua musica, mi ha assecondato fornendomi materiali inediti e commentando con molta puntualità le mie osservazioni.

  • Cosa interessa sapere della sua vita per entrare nella sua opera?

Come altri autori di cui ho avuto modo di parlare anche Kancheli ha vissuto la condizione degli artisti dell’Unione Sovietica, sin dai tempi di Stalin: una situazione frustante e dolorosa, da un lato, eppure estremamente feconda, da un altro lato, se pensiamo a ciò che ne è venuto: specie riguardo ad alcune vette artistiche che sono state raggiunte e che possiamo ora considerare anche alte vette spirituali.

  • Come spiegare una tale, apparente, contraddizione?

Il regime sovietico imponeva limitazioni molto pesanti alla libertà di espressione artistica e, senz’altro, anche a quella religiosa. Ciò, secondo me, ha prodotto una sorta di filtro che, trattenendo, ha selezionato ciò che il regime non avrebbe, comunque, mai potuto sopprimere, ossia le migliori espressioni della musica, quelle più autentiche, libere e profonde, quelle più ricche di umanità e quindi di spiritualità.

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  • Il dato che Kancheli fosse georgiano – non russo – ha importanza?

Il fatto che appartenesse alle periferie dell’impero sovietico, fortemente orientato alla omologazione “dal centro” di tutti gli artisti dell’impero, gli è valso, forse, qualche spazio di maggiore autonomia. I georgiani hanno, infatti, una loro lingua e una loro cultura, diverse da quelle russe.

Kancheli è nato e vissuto a Tbilisi sino al disfacimento della Unione Sovietica: la capitale della Georgia è una città molto variegata, multietnica, multiculturale e anche multireligiosa. Neppure il regime sovietico ha cancellato questa realtà, così come non ha cancellato le caratteristiche più intime della musica e della spiritualità della gente georgiana.

  • Come è arrivato all’arte musicale?

Kancheli è arrivato relativamente tardi alla musica e alla musica “colta”. Ci è arrivato attraverso il jazz, quindi attraverso un linguaggio musicale “alternativo”. Soltanto verso i vent’anni ha iniziato a scoprire gli autori “classici” con ciò che allora stava circolando, ormai da tempo, in Occidente.

Solo col cosiddetto “disgelo” attribuito a Nikita Krusciov, quindi dopo la morte di Stalin, Kancheli, con molti altri musicisti, ha iniziato a scoprire un mondo musicale dapprima totalmente ignorato. Ricordo l’effetto che fece, ad esempio, la prima esecuzione in Unione Sovietica de Le sacre du printemps di Igor Stravinskij, noto musicista russo che aveva abbandonato il proprio Paese già ben prima della rivoluzione.

Su Kancheli, in quel periodo, produsse un effetto considerevole l’ascolto di un brano come The Unaswered Question di Charles Ives (qui), un pezzo molto spirituale, mistico, anche se non espressamente religioso.

Una figura determinante per lo spalancarsi di nuovi orizzonti fu, per Kancheli come per altri musicisti russi, Maria Judina, straordinaria pianista e straordinaria persona che, senza timore – neppure di Stalin in persona – si era adoperata per la conoscenza dell’Occidente musicale oltre la cortina.

Nel corso degli studi e della carriera – occupandosi tra l’altro anche di musica da film – è venuto a contatto con musicisti del calibro e della vena artistica di Arvo Pärt (estone), Valentyn Syl’vestrov (ucraino) e, in particolare, di Alfred Schnittke (russo di famiglia tedesca), con cui ha stretto una solida amicizia. Con questi e altri, Kancheli ha combinato una sorta di opposizione artistica – mite quanto determinata – al regime e ai suoi dettami calati dal ferreo Comitato dei compositori sovietici.

  • Come è evoluta la sua carriera e la sua opera?

In Unione Sovietica, Kancheli si è dedicato soprattutto al sinfonismo: ha composto ben sette, corpose, sinfonie orchestrali, nell’arco di poco meno di 10 anni, sino alla settima, appunto: volutamente l’ultima, perché titolata Epilogo (qui). Da allora, la sua produzione si è diversificata giungendo ai lavori, per noi, qui, più interessanti.

Nel mentre, è caduto il muro di Berlino e Kancheli ha potuto migrare in Occidente: prima in Germania – assistito da un generosissimo Mstislav Rostropovič, protettore di molti musicisti russi in Europa – e quindi nei Paesi Bassi, ad Anversa; è poi tornato in patria, a Tbilisi, ove era nato nel 1935 e dove è morto il 2 ottobre 2019.

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  • In Unione Sovietica è incappato in particolari censure?

Lui stesso ci ha parlato di una tensione molto forte – avvertita soprattutto nei tempi dello stalinismo più duro e puro – tra l’ateismo di stato, con tutto ciò che questo significava col suo gretto materialismo, e il suo desiderio di altro: di ricerca, di bellezza, di infinito.

Non mi pare sia incorso in particolari provvedimenti censori, probabilmente perché la sua musica, pur profondamente spirituale, è molto poco esplicitamente religiosa: almeno così è stata in tutto il periodo sovietico. Voglio dire che le caratteristiche della sua musica sono tali per cui è risultata meno passibile delle solite accuse di formalismo, degenerazione, traviamento del popolo e cose del genere.

  • Vuoi parlare delle caratteristiche della musica di Kancheli?      

La caratteristica che si avverte immediatamente all’ascolto della musica di Kancheli è di forte contrasto tra atmosfere estremamente rarefatte – evocate da eventi sonori distaccati e volumi di suono contenuti – e vere e proprie esplosioni di suono.

Penso che ciò corrisponda ai tratti del suo carattere: una calma di fondo di origine contemplativa, rotta da taluni momenti di forte impulso interiore.

La natura di fondo della sua musica è perciò assimilabile ai paesaggi della Georgia: amplissimi, molto scarsamente popolati, privi di elementi visuali prevalenti: si può dire che Kancheli li abbia “dipinti” in musica, trasmettendone un senso di infinita e dolce malinconia.

  • Quale parte ha il silenzio?

Sì, c’è molto silenzio nella musica di Kancheli, perché il silenzio c’è, oltre che nei paesaggi da cui proviene la sua esistenza, anche nella cultura e nella gente della Georgia. Nella sua musica non c’è necessità di “dire molto” o di “dire in fretta”: parole e suoni fluttuano su uno spesso sostrato di silenzio.

  • Quanto è difficile ascoltare la musica di Kancheli?

La sua scrittura musicale non è tonale, per cui non è facile rinvenire gli elementi armonici che ci sono più familiari perché più tradizionali. Nel mentre non si può dire che si tratti di una musica propriamente atonale, men che meno seriale, ossia quel genere di musica che, obiettivamente, risulta la più difficile ascoltare, almeno con le nostre orecchie.

L’ascolto di Kancheli viene inoltre, secondo me, aiutato da un aspetto modale, ripetitivo, che evoca le sonorità più arcaiche e antiche del canto tradizionale georgiano. Questa caratteristica fa da guida all’ascoltatore e rende la sua musica più facilmente “comprensibile”, “interpretabile” o, semplicemente, più “toccante”, nel senso che tocca qualcosa di recondito nell’ascoltatore.

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  • Vuoi iniziare a presentare qualche sua opera di “musica sacra”?

Di propriamente liturgico o sacro in senso tradizionale, Kancheli ha scritto ben poco: è un po’ tutta la sua musica, specie degli ultimi anni, a recare l’impronta sacra o, meglio, spirituale.

Ricordo qui la composizione Little Imber (qui) un brano dedicato, appunto, ai cittadini di Little Imber nella piana britannica di Salisbury evacuati nel ’43, durante la guerra, per lasciare spazio alle operazioni militari degli alleati, con vite sradicate e disperse: è una sorta di requiem – composto nel 2003 – dalla spiccata sensibilità umana, rivelazione della stupidità e della insensatezza della guerra. Ricordo bene questo brano perché è tra quelli che Kancheli ci ha fatto ascoltare e ci ha commentato nella sua casa di Anversa.

Cito Caris mere – composto nel ’94 – per voce di soprano e viola (qui): una preghiera di stampo liturgico assai vibrante. La viola è peraltro uno degli strumenti preferiti da Kancheli che vi ha dedicato uno dei suoi maggiori lavori strumentali, Vom Winde beweint del 1990 (qui); quindi Midday prayers per soprano, clarinetto e orchestra da camera, un altro brano molto toccante.

Ma l’opera che intendo presentare qui più in dettaglio è il ciclo di lieder Exil del 1994, per soprano e orchestra da camera.

  • Parlaci, dunque, di Exil.

Parlo innanzi tutto dei testi utilizzati (qui), il primo dei quali è il Salmo 23 – Il Signore è il mio pastore – seguito da tre poesie di Paul Celan – Einmal, Zähle die Mandeln, Psalm – e da un’ultima poesia di Hans Sahl, Exil, che dà, appunto, il titolo al ciclo.

È doveroso spendere qualche parola sui due poeti. Celan è un ebreo nato nel 1920 a Černivtsy (attuale Ucraina), trasferitosi in Europa in seguito alla shoah e allo sterminio della famiglia, morto suicida a Parigi nel 1970. Le sue poesie possono essere lette come un atto di fede – negativa – in Dio, ma cercherò di dirlo con altre parole. Sahl è pure un ebreo nato nel 1902 a Dresda, anche lui un sopravvisto alla shoah, di cui ha portato la “sindrome”, sino alla fine dei suoi giorni, negli Stati Uniti, nel 1993, l’anno precedente alla composizione di Kancheli.

  • Perché testi così diversi e, di per sé, contrastanti sono stati accostati da Kancheli in Exil?

Sappiamo, dallo stesso Kancheli, che i testi gli sono stati sottoposti da Manfred Eicher, fondatore e patron della casa discografica ECM, che stava curando le edizioni musicali del compositore. Kancheli deve aver comunque trovato appropriato – per sé e per la sua musica – l’accostamento dei testi.

Un filo conduttore risulta tuttavia evidente nei testi: quello della appartenenza ebraica, anche se non una appartenenza di fede.

  • Sì, ma il Salmo del “buon pastore” è tra i più sereni e confortanti del salterio, mentre le poesie di Celan e di Sahl appaiono molto negative.

Sappiamo come nella bibbia – anche nei salmi! – le espressioni di buio si alternino o si intreccino con quelle luminose. Il Salmo 23 è veramente una preghiera serena e tuttavia – specie noi cristiani – ne facciamo una lettura cristologica: l’orante è il Figlio dell’Uomo che confida in Dio nel momento totalmente buio della morte in croce. In questo senso l’accostamento coi versi di Celan e Sahl risulta appropriato. Il “tema” comune diventa allora il silenzio di Dio: un tema biblico, un tema molto importante nella tradizione ebraica, un tema determinante nella contemporaneità.

Va senz’altro aggiunto che Kancheli ne ha dato la sua chiave di lettura, naturalmente in musica. Penso che si possa dire che ha voluto proiettare l’ombra luminosa delle fede sull’angoscia e sui sentimenti umani più inesplicabili. Secondo me, componendo il ciclo dal Samo 23 – che peraltro occupa gran parte dell’opera – Kancheli ha voluto prolungare l’ombra luminosa del divino – volutamente un ossimoro – sugli umanissimi sentimenti di Celan e di Sahl.

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  • Come Kancheli riesce a trasportare parole – così pesanti – in musica?

Lo stile musicale scelto da Kancheli è quello della resa sillabica che fa coincidere, in genere, note e sillabe. In questo modo lascia molto spazio alle parole e alla comprensione delle stesse. Ma, nel mentre, si prende altri ampi spazi per le melodie, dando così “respiro” alla partitura e, naturalmente, al nostro ascolto.

C’è poi in Exil una grande cura dei suoni, ove, chiaramente, i suoni comunicano anche senza parole. Faccio un esempio: assistiamo in Exil a “sgocciolii” di note, a suoni che diventano puntiformi, ad esitazioni sulle stesse, sino al limite del silenzio, di cui dicevo: questo a me, personalmente, comunica la consapevolezza della estrema debolezza e della fragilità dell’esistenza umana.

  • E l’elemento della speranza come si coglie – se si coglie – in questa musica?

Se andiamo alla ricerca di qualcosa di ottimistico, banalmente, qui non lo troviamo. Non è un’opera che vuol finire bene. Anzi, per certi versi, come ho detto, la fede viene prima, da un “principio”; poi c’è, per certi versi, un continuo sprofondare nel buio e nel nulla.

Nella prima poesia di Celan – Einmal – c’è infatti una sorta di ricordo o di nostalgia della fede, di Dio, mentre nella terza – Psalm – c’è un «Laudato si’» sconcertante perché rivolto a «Nessuno», che tuttavia non può che sembrare un Qualcuno. La poesia finale di Sahl è di una desolazione profonda – questo è vero – laddove dice «Soffiata via la polvere»: non c’è che il «Nulla».

La speranza è conservata in quella triade di note – dall’accordo maggiore a minore – fortemente consonanti, che affiorano qua e là e dalla atonalità che accompagna le parole di Celan, piuttosto che nelle note molto lunghe, di religiosa reminiscenza, che accompagnano il finale con le parole di Sahl.

  • Perché consigli a cristiani credenti, variamente credenti o non credenti, di ascoltare questa musica?

Come spero si sia intuito, la musica di Kancheli si presta molto a creare un’atmosfera di contemplazione. Può aiutare pertanto ad entrare in sé stessi, per poi uscirne, avendo ritrovato qualcosa di sé stessi, se così si può dire. È una musica che predispone a sostare in un silenzio abitato da una presenza altra.

Nella fattispecie di Exil, penso che l’ascolto possa aiutare a porsi, con fede adulta, di fronte al grande mistero del male nel mondo e, perciò, al silenzio di Dio, dinnanzi a questo grande male. Personalmente trovo inevitabile incontrare nella vita le domande “ultime” sulla fede. Tutti, altrimenti, corriamo il rischio di “farci il nostro Dio”, ad uso di soprammobile della nostra esistenza: questi, evidentemente, non è Dio. Dio è nel tutto della nostra vita, nel bene come nel male.

Ecco: la musica di Kancheli può donarci la sensazione di essere abbracciati, con tenerezza, nel nostro tutto, o nel nostro niente, da Dio.

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