Mi sono perso via a guardare per l’ennesima volta la piantina della parrocchia. Non è tanto l’ansia di fare un censimento o di rimirare i possessi come un vecchio signore feudale, quanto di programmare i giorni delle visite per le benedizioni delle famiglie. Non è questa l’unica volta che mi sorprendo a guardare cartine e confini. Nella segreteria parrocchiale campeggiano i poster con ben disegnati i confini delle più di 150 parrocchie cittadine e dell’ancor più vasto territorio della diocesi. Io stesso, una volta nominato parroco, sono stato condotto da uno zelante collaboratore a esplorare il perimetro estremo della parrocchia.
Sempre a proposito di confini, ricordo il mio amico missionario che, tutte le volte in cui rientrava nei confini della sua missione, amava strombazzare con il claxon della macchina proclamando ad alta voce al nulla circostante: “è tornato il parroco”! Qualche volta anch’io, di ritorno da alcune uscite, ho la tentazione di ripetere quel gesto, ma il mio claxon si confonderebbe con il gesto stizzito di qualche automobilista irritato. Eppure mi capita di “sentire” i confini, quando li varco ancora oggi.
Se cammino ed entro nello spazio della mia parrocchia, certamente incontro qualcuno che mi conosce, aumentano il numero dei saluti e le possibilità di soste impreviste; in ogni caso non passerò inosservato e anch’io – a mio modo – “marchio il territorio”!
Ma hanno ancora un senso i confini? Certamente a guardare le cartine – delle parrocchie e forse ancor più delle diocesi – ci si accorge di una cosa: molti confini sono figli di tempi passati, sembrano frontiere anacronistiche di spazi che, nel frattempo, sono completamente mutati. Nella nostra grande diocesi ci sono perfino un paio di parrocchie che hanno l’altare della chiesa in un comune e la navata centrale nell’altro! In un città densamente abitata come la mia, la maggior parte della gente se ne fa un baffo dei nostri confini, e non ha la minima idea di dove inizi una parrocchia e finisca l’altra; il più delle volte non sa dove sia la propria e semplicemente cerca, trova e a volta sosta là dove si sente a casa. La parrocchia tradizionale nasce in un contesto sociale e urbanistico di grande stabilità: oggi viviamo piuttosto travolti da una mobilità anche eccessiva che sconvolge e cancella molti confini.
Eppure i confini resistono. Non tanto nel senso fisico-spaziale – questi si fanno sempre più incerti –, quanto nel loro significato antropologico. Per vivere serve uno spazio sufficientemente limitato, altrimenti saremmo presi dal panico di spazi illimitati. Servono luoghi circoscritti per creare il senso di casa e di familiarità, per addomesticare il mondo. Sono i luoghi in cui si nasce, si cresce, ci si ammala e si guarisce, ci si ama e si muore. Questi confini, proprio per l’incertezza di quelli geografici, sembrano ancora più necessari.
Siamo tutti cittadini del mondo; eppure, questa globalizzazione trasversale ad ogni ambito della vita produce a volte particolarismi e chiusure, desideri di orizzonti più ristretti e, a volte, chiusura in pensieri e ragionamenti angusti. Anche la parrocchia non sfugge a questa tensione tra globalizzazione e particolarismi, e anche il cristianesimo di oggi sembra soffrire dei medesimi contrasti. Sembra aver preso forma un cristianesimo senza confini: un cristianesimo standardizzato, legato a grandi eventi, figure carismatiche, eventi miracolistici che attraggono da tutti i confini. Il rischio è quello di perdere un indispensabile radicamento nel territorio, che poi significa un legame indispensabile con la vita ordinaria. Proprio quello che alcune forme di spiritualità “disincarnata” tendono a perdere. Per questo la parrocchia torna ad essere indispensabile: perché offre dei confini e la possibilità di abitarli.
Una volta l’idea del confine suggeriva immagini negative: le guardie di finanza che controllano possibili evasori fiscali o traffici di armi; le fortezze che vigilano sul potenziale arrivo dello straniero sconosciuto; oppure luoghi persi nel nulla (“ai confini del mondo”) dove qualcuno fugge in cerca di nuovi mondi e qualcun altro vi è “confinato” per punizione e per salvaguardare la pubblica quiete. Chi abita oggi i confini?
Non entro nelle polemiche legate alle frontiere, ai muri, ai respingimenti che sono diventate di attualità drammatica. Rimane che i confini, qualsiasi essi siano, diventano umani solo se vengono abitati. Se qualcuno vigila e custodisce quei luoghi di passaggio.
Uscendo dalle cartine geografiche per entrare nella vita, mi accorgo di quanti confini oltrepasso normalmente ogni giorno: dalla malattia alla salute, dalla vita alla morte, dall’adolescenza al tempo adulto ecc. Il compito di una parrocchia forse si risolve proprio nel vigilare questi luoghi di passaggio, nulla di meno e nulla di più. D’altra parte, anche da un punto di vista quasi geometrico risulta facile capire come dai confini si abbia una vista più ampia. Si può contemplare il centro senza perderlo di vista, ma anche spaziare con lo sguardo per vedere cosa c’è oltre. Chi guarda solo dal centro rischia di perdere molto di quanto sta fuori.
Io ringrazio di stare in parrocchia. Abitare questo luogo di frontiera mi sembra un punto di vista privilegiato. Vengo allenato a spossessarmi dell’ansia di essere sempre al centro delle cose. Mi pare di capire meglio, senza essere troppo orgoglioso, di essere più inserito nella trama della vita normale senza troppe mediazioni e senza troppi filtri.
Pago tutto questo, a volte, con l’impressione di sentirmi meno sicuro, io stesso un po’ marginale e “confinato”. Stare sul confine, abitare la periferia esistenziale, non è certo una posizione di comodo. Questa insicurezza mi fa correre il rischio di chiudermi un po’, e di declinare i confini come barriere di protezione.
Eppure, più di cancellate protettive ho bisogno di una custodia che protegga il mio abitare i confini e il mio oltrepassarli senza paura. Questo mi promette il salmo, quando parla del Signore come del “mio custode”, colui che veglia su di me quando esco e quando entro, di giorno e di notte, da ora e per sempre.
don Giuseppe