Ogni vita e ogni vita umana hanno un valore inestimabile, ed è qui, forse, il succo della nostra civiltà, sia nelle sue radici greco-romane sia in quelle giudaico-cristiane. Ventuno morti, dunque, quelli del pullman precipitato dal cavalcavia di Mestre in direzione Marghera, ci interrogano e ci lasciano quasi senza parole. Così i feriti, specie se in gravi condizioni. Molti di loro, per giunta, giovani o giovanissimi.
Un vocabolo che ricorre in queste ore per definire e descrivere la tragedia è apocalisse. La quale, etimologicamente, significa rivelazione: la rivelazione sulla fine o, meglio, la rivelazione finale. Il numero dei morti, pur impressionante, non è lontano da quello delle cosiddette stragi del sabato sera. Eppure qui tante persone, una accanto all’altra, hanno vissuto una sorta di dramma condiviso. Per molte, l’ultimo della loro esistenza.
Ecco, è tale dimensione collettiva che lascia senza parole. Un’apocalisse di fiamme, di morte e di silenzio. Il gruppo non è solo la somma dei singoli, no: rappresenta un’altra dimensione, appunto. Tante persone insieme sono morte o hanno visto la morte in faccia. Un’angoscia indicibile, anzi: l’angoscia delle angosce. L’angoscia di morte viene da molti considerata, infatti, quella per antonomasia, la scaturigine delle altre. E qui i passeggeri del pullman, e un pochino noi con loro, l’hanno esperita tutta in pochi istanti. Davvero, in certi casi, l’istante spalanca le porte all’eternità. Eternità e attimi oltre il tempo ordinario, consueto, scandito dai minuti, dalle ore, dai giorni.
Questa volta, forse, il tragico non è stato sopraffatto dallo “spettacolo”, dal macabro gusto di esorcizzare la propria angoscia guardando quella degli altri. Più che in precedenti occasioni, ci siamo immedesimati in quel dolore, o in quella fine senza ritorno. Da qui, anche, l’impiego di quel sostantivo: apocalisse. Gli aggettivi – scenario apocalittico, ad esempio – sono più spesso abusati dei sostantivi, infatti: questa volta quel termine, apocalisse, ha un suo peso, una sua consistenza, una sua effettività. Non è un guscio vuoto.
Il passo ulteriore da compiere sarebbe di provare a guardare l’incidente con gli occhi del resto dell’umanità: con gli occhi di un africano, di un asiatico o di un latinoamericano, abituati a valutare diversamente la vita umana, quella propria e quella altrui. Tale esercizio mentale ci consentirebbe di provare rabbia e tormento anche per le tante, troppe ingiustizie, per le tante vite umane interrotte prematuramente qua e là su questo nostro globo.
Sì, mi è sempre interessato questo argomento ma non sono mai riuscita a sapere quali sarebbero le valutazioni di Popoli di altri Continenti , pur conoscendone le religioni, (dovrebbero entrarci poco in questo argomento ) .