Il fenomeno della ridondanza degli immobili ecclesiastici in Italia sta suscitando vari interessi, particolarmente evidenti in queste settimane. Silenziosamente, in Italia, dal 1985 al 2021, sono state chiuse 8.854 tra case religiose e monasteri delle comunità di vita consacrata.
Gli ordini religiosi e le moltissime congregazioni che, nel tempo, hanno arricchito e arricchiscono la vita della Chiesa italiana, in 36 anni, sono passate da occupare 17.585 conventi ad averne attivi meno della metà: 8.731 (dato vaticano del 2021, oggi probabilmente ancora ridotto).
Sono sempre “beni comuni”
È evidente che ci troviamo di fronte ad un fenomeno notevole che, se manterrà lo stesso andamento, in tre decenni potrebbe ridurre a numeri esigui la presenza dei religiosi.
Altrettanto è accaduto per gli edifici destinati alle opere dei religiosi (scuole, ospedali ecc.) che – sempre con ragioni e criteri diversi – sono stati di volta in volta chiusi o semplicemente abbandonati. Si tratta di immobili “non replicabili”, molti dei quali beni culturali e, come indicato da Luigino Bruni su Avvenire nell’articolo La crisi. Immobili degli ordini religiosi una nuova vita oltre i mattoni dello scorso 26 agosto, beni comuni, in quanto, anche se privati rispetto allo Stato Italiano, esito di lasciti, tempo e donazioni da parte della collettività.
Lo scorso 10 agosto, Nunzio Galantino presidente dell’APSA – ente deputato all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica – ha presentato il bilancio 2022. L’evento ha rinnovato l’attenzione al tema dei beni ecclesiastici. Il 18 agosto, Il sole 24 ore pubblicava una sintesi di tale bilancio e, il 21 agosto, un’ulteriore pagina specificamente dedicata al patrimonio immobiliare degli enti ecclesiastici italiani.
La ridondanza degli immobili ecclesiastici rispetto agli attuali numeri di fedeli, sacerdoti e consacrati è divenuta un fenomeno dirompente, di assoluta evidenza, inevitabile oggetto di attenzione del mercato immobiliare e dei suoi operatori.
È opportuno ricordare che questi beni hanno un doppio regime legislativo: quello civile e quello canonico. Quest’ultimo afferma solennemente che i beni ecclesiastici sono subordinati ai fini della Chiesa, qualificando quindi gli immobili come mezzi e non come fini in sé stessi.
Ne discende che un ente ecclesiastico che non destini con chiarezza gli immobili in proprio possesso ai fini della Chiesa (culto, onesto sostentamento del clero ed esercizio delle opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servizio dei poveri) si apra ad una situazione dubbia circa la legittimità del loro stesso possesso. Inammissibili, quindi, tanto l’inutilizzo prolungato dei beni quanto il loro abbandono, e sappiamo bene quale destino attenda colui che non pone a frutto, ma che sotterra, i propri talenti.
Trasparenza e competenza
Dal quadro sopradescritto emergono delle istanze: l’opportunità della trasparenza nella gestione dei beni della Chiesa e la necessità di aumentare la competenza stessa della Chiesa nella gestione del fenomeno della ridondanza dei propri immobili privilegiando risposte evangeliche.
La pubblicazione del bilancio dell’APSA ha mostrato l’operato di un ente vaticano in modo trasparente e responsabile, aggiungendo credibilità all’operato della Chiesa stessa. Inoltre, ha reso evidente gli importi versati dal Vaticano allo stato italiano per IMU e Ires, intaccando dei luoghi comuni tanto errati quanto difficili da eliminare.
Per quanto riguarda la capacità della Chiesa di gestire il fenomeno della ridondanza e supportare i consacrati nella gestione delle loro proprietà immobiliari, si ravvisano delle gravi lacune.
Al momento, non esistono dati aggregati neppure sulla consistenza del patrimonio immobiliare della Chiesa italiana, intendendo l’insieme degli enti ecclesiastici formati dagli enti della Chiesa gerarchica (diocesi, parrocchie, istituti di sostentamento del clero ecc.) e da quelli dei religiosi.
Statistiche tratte da fonti ecclesiastiche sono state pubblicate sul IN_BO “la casa comune” (disponibile gratuitamente online: https://in-bo.unibo.it/issue/view/947), mentre i dati sulla consistenza dei beni immobili ecclesiastici in Italia citati da Il sole 24 ore sono stati forniti dal centro studi di una società che si occupa di real estate profit.
Si ritiene che tali dati possano essere frutto di ipotesi e proiezioni– e come tali non certi – e si evidenzia l’opportunità che sia la Chiesa italiana stessa a gestire studi sul proprio patrimonio più che lasciarli al mercato.
Sappiamo poi che la capacità di gestione dell’asset immobiliare differisce profondamente tra i vari enti ecclesiastici a sfavore di chi non ha al suo interno competenze tecniche – più spesso proprie delle diocesi che dei religiosi –. Su questo si sono fatti dei passi in avanti grazie al lavoro del Dicastero per la vita consacrata e le società di vita apostolica e all’attuale Dicastero per la cultura e l’educazione, e molti altri si intuiscono necessari.
Come ha sottolineato Bruni, è necessario affrontare il tema della gestione immobiliare degli istituti religiosi – che comprende le azioni di acquisizione, manutenzione e dismissione degli immobili – a partire dal discernimento del carisma nella situazione odierna. È opportuno che si parta dalla domanda Come vivere il carisma oggi? La risposta sarà il criterio per la definizione della gestione immobiliare che dovrà individuare immobili da usare direttamente, altri da cedere in comodato, locazione o altro, e altri da alienare. Importante è pensare, e quindi gestire, l’intero insieme delle proprietà immobiliari come sistema e non operare sul singolo immobile, come spesso la contingenza porta a fare.
La gestione immobiliare implica delle grandi responsabilità da parte degli enti ecclesiastici proprietari: oltre al perché, si dovrà sempre rispondere del come.
Il riuso e la valorizzazione per fini ecclesiastici degli immobili in eccesso rappresenta la scelta da preferire, come nel caso in cui una casa religiosa venga conferita ad un altro istituto. Si ricorda, ad esempio, la cessione del convento dei frati cappuccini alle clarisse che avevano perso il convento in un recente terremoto.
I fini dell’apostolato della carità – fini sociali – rappresentano la seconda possibilità che può avvenire con i mezzi del comodato, della locazione o della cessione del diritto di superficie. Un esempio è la recente locazione a Roma di una ex scuola tenuta da religiose ad una associazione educativa, accordo promosso dalla Fondazione Humanitate ETS, così come molti altri.
Infine, vi è la vendita dell’immobile da preferire all’abbandono ricordando – come Bruni e l’economia di Francesco ci insegnano – che è opportuno promuovere un’economia evangelica più che quella del mercato ordinario.
Un immobile ecclesiastico può essere venduto, ed è opportuno farlo, a chi ha delle finalità prossime a quelle che hanno generato l’immobile, preferendo enti no profit e pubblici a quelli profit. Non vendere al primo o al miglior offerente ma “attivando processi” come raccomandato dal pontefice nella Evangelii gaudium (n. 223).
Un esempio è il processo avviato dal prof. Luigi Bartolomei sull’ex monastero delle monache agostiniane di Lucca, che ha coinvolto il Comune, le principali Fondazioni bancarie e di scopo della città per prospettare un riuso sostenibile di lungo periodo a fini culturali, sociali e produttivi.
La salvaguardia di un prezioso patrimonio
Gli esempi portati dimostrano come, sugli immobili ecclesiastici, occorrano peculiari capacità di lettura e competenze per garantire la salvaguardia dei valori immateriali intrinseci ai beni con progetti che si dimostrino economicamente sostenibili non mirando al profitto, ma all’equità sociale, ossia amplificando la disponibilità di spazi pubblici, aperti all’educazione culturale e umana della cittadinanza, alla ripresa di antiche attività manifatturiere, e ad un qualificato tempo libero.
Per arrivare a formulare progetti come quelli citati, è necessario avere competenze professionali formate appositamente. In proposito citiamo il corso promosso dalla Fondazione Accademia della diocesi di Sassari Architettura dell’accoglienza, dell’incontro e della prossimità, ed altri delle università statali di Bologna, Napoli, Torino e Pavia.
Si ravvisa, comunque, la necessità che la gestione immobiliare degli enti ecclesiastici sia oggetto di corsi anche da parte delle università pontificie, che hanno consolidato un eccellente comparto per la valorizzazione culturale dei beni ecclesiastici, ma non altrettanto in relazione alla gestione immobiliare di enti con finalità ideali, quali sono gli enti ecclesiastici.
Da vari indizi è evidente che il vuoto che la Chiesa cattolica ha rispetto alla capacità di gestire in autonomia la ridondanza dei suoi beni immobili è oggetto di attenzione da parte di enti del mercato immobiliare che hanno come obiettivo il loro stesso guadagno.
Mai come nel caso degli immobili ecclesiastici è opportuno gestire il processo di vendita, affinché ciò che è nato a vantaggio di tutti, per dare un contenitore ad una comunità cristiana e a un carisma, non diventi l’occasione per la speculazione e la ricchezza di pochi, con la soppressione, per tutti, di un bene e di una ricchezza collettiva.
- Francesca Giani architetto PhD. ingegnere fgiani@fondazionehumanitate.it
Quando ero nel ministero attivo affrontai più volte questo argomento con chi di dovere dicendo che, a mio avviso, si sarebbe dovuto affrontare il tema distinguendolo in due parti: immobili che possono essere occasioni di reddito e immobili che possono essere sfruttati per l’azione caritativa. I primi (es. canoniche o oratori vuoti perchè in parrocchie senza prete) avrebbero potuto essere affittati come case vacanze, bed&breakfast ecc. I secondi (es. seminari, conventi…) per svolgere azione caritativa e formativa. La diocesi, per questo, avrebbe dovuto costituire un Ente ad hoc gestito – naturalmente – da chi sa gestire queste cose. Mi fu sempre risposto che era un’idea bellissima. Poi lasciai il ministero (solo perchè mi sposai) e tornai sull’argomento presentando la mia candidatura anche perchè nel frattempo, per campare, mi occupai di edilizia professionale. Ma mi accorsi che le orecchie che ascoltavano erano le stesse, ma forse erano diventate un po’ più sorde. Il problema sta qui: il mondo del clero quasi sempre capisce poco di queste cose, ma è convinto di sapere sempre tutto per cui deve gestire tutto in prima persona.
secondo me il modello organizzativo della Chiesa, da questo punto di vista, è molto inefficiente, e bisognerebbe cominciare a separare le competenze, creando anche delle gestioni assembleari di persone che ricevono un ministero ordinato, istituito o di fatto per questi compiti: diaconi che si occupano di carità e gestione finanziaria, presbiteri che si occupano dei Sacramenti e della pastorale, lettori e accoliti della Liturgia, catechisti e alcuni presbiteri della catechesi, ostiari (si, sono per reintrodurli) della sicurezza e manutenzione degli edifici. ovviamente tutti ricevono poteri e risorse per compiere tutto questo al meglio, e vengono nominati ufficialmente in questi ruoli (niente di informale).
sopra tutto il vescovo che svolge il suo compito: sorvegliare, ispirare, correggere
Un esempio di processo orientato alla destinazione sociale di un bene ecclesiastico è quello che sta portando avanti la Diocesi di Caserta con la rigenerazione dell’ex-Macrico un’area militare dismessa di proprietà dell’istituto Diocesano Sostentamento Clero destinata a trasformarsi in un parco urbano polo sociale e culturale che prenderà il nome di Campo Laudato si’ http://www.campolaudatosicaserta.it
Il riutilizzo degli immobili comunitari è un problema anche per gli enti locali e per il demanio (scuole, caserme, vecchi ospedali,…) e durante quest’estate è stato proposto di fare carceri nelle caserme dismesse. In ambito ecclesiale se ci fosse un laicato intraprendente e non aggrappato alla tonaca degli ecclesiastici e delle monache, non ci sarebbero questi problemi. Ma anche dopo il Vaticano II si è preferito tenerlo al guinzaglio. Pur tuttavia la domanda di spazi non manca assolutamente, penso ad alloggi per padri/madri in difficoltà, comunità terapeutiche, immigrati, pastorale giovanile, senza fissa dimora, poveri, associazioni culturali,… Il problema forse sta nella gestione.