La crisi della nostra democrazia è nota a tutti. La politica ha perso da tempo credibilità agli occhi dei cittadini i quali di rado si sentono rappresentati nei loro bisogni. A ciò occorre aggiungere la comune prassi di disimpegno per la «cosa pubblica» che ha condotto negli ultimi anni ad una sorta di marginalità dei vari profili di cittadinanza attiva e responsabile. Tuttavia è ancora possibile una buona politica. Ne sono convinti un gruppo di giovani delle zone di Como, Milano e della Valtellina che si sono ritrovati per generare occasioni di confronto e di formazione politica. Frutto del loro impegno è il volume intitolato È ancora possibile una buona politica? recentemente pubblicato dalle Paoline (Roma 2023, 224 pp.). Il libro, scritto a diciotto mani, ripercorre i temi centrali per la rigenerazione della vita politica. Sul tema abbiamo intervistato l’intero gruppo di studio che vede all’opera – oltre a don Michele Pitino, presbitero della diocesi di Como – politologi, medici, giuristi, urbanisti, studiosi dell’ambiente.
- Perché a vostro parere, fra i primi passi volti a rigenerare la nostra democrazia, occorre ridare senso alle parole e alle dinamiche riguardanti la politica?
Ridare senso alla parola «politica» è l’occasione per costruire una narrazione nuova del mondo, della società e dei legami che viviamo. Le parole non sono mai «solo parole» perché modellano l’immaginario e così influenzano in maniera significativa la realtà.
Siamo in un tempo in cui è sempre più arduo navigare nella complessità e in questa complessità cercare il bene possibile, ma è in questo oggi che desideriamo riappropriarci della bellezza della parola «politica», recuperando l’ampiezza di significato e di forme, di modalità e di livelli in cui questa ci coinvolge e ci impegna. Solo così è possibile risvegliare in tutti la responsabilità nei confronti della nostra «comunità di vita», usando una bella espressione tanto cara al nostro presidente della Repubblica Mattarella.
La politica ritrova il suo significato profondo quando ciascuno inizia a pensare e ad agire in termini di comunità. Politica è «cura della polis», di ciò che è comune. Nella nostra visione, «fare politica» è forma di servizio, assunzione di responsabilità che trae forza dall’ascolto profondo e attento della realtà e dei suoi bisogni.
Nell’enciclica Laudato si’ papa Francesco dice che occorre «trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare» (n. 19). È interessante notare che la parola «responsabilità» contiene nella sua etimologia il concetto di «risposta». Ciò rivela una dinamica che implica il mettersi in ascolto di una chiamata, lasciandosi raggiungere e interpellare da tutto ciò che si avverte come priorità. Questa risposta diventa disponibilità a lasciarsi toccare nel vivo dalle sofferenze che si incontrano. Se ci soffermiamo sul significato più profondo, le parole rivelano grande ricchezza.
- Il processo di rinnovamento abbisogna di leader politici dotati di alcune competenze. Per voi quali sono quelle più importanti?
Nel nostro libro abbiamo dedicato una parte significativa alle caratteristiche di una buona politica e quindi ai tratti che dovrebbero connotare chi si dedica al servizio politico. Li abbiamo ricavati dal pensiero del sociologo tedesco Max Weber, in particolare da una sua conferenza del 1919 dal titolo La politica come professione.
Secondo Weber, il buon politico deve essere caratterizzato da quattro tratti: professionalità, responsabilità, lungimiranza, calma.
La prima caratteristica richiama l’attenzione alla necessità di conoscere in modo approfondito i linguaggi e i meccanismi della politica; al contrario, l’incompetenza della classe dirigente sarebbe un gravissimo errore che finirebbe a far pagare un caro prezzo a tutta la comunità. C’è bisogno di professionisti della politica – questa non è una brutta parola! – che abbiano un’etica salda e riconoscibile, che ascoltino la realtà con competenza e ricerchino soluzioni reali con strumenti adatti e visioni politiche lungimiranti e buone.
La responsabilità – è la seconda caratteristica – implica il saper valutare il peso e il significato delle proprie azioni, significa assumere le conseguenze delle proprie scelte, non fuggire di fronte alle crisi, ma coinvolgersi in prima persona, non gonfiare le paure né lucrare su queste. Come già detto, la responsabilità si lega al termine «risposta». A chi deve rispondere un politico? Di fatto alle istituzioni, a tutti i cittadini, ai suoi elettori, al partito, ma soprattutto alla propria coscienza. Weber parla di «etica della responsabilità» (legata alle conseguenze prevedibili dell’agire) e di «etica dei principi» (che si riferisce ai principi in base ai quali ciascuno orienta la propria azione). Nella pratica entrambi gli aspetti dovrebbero essere presenti, sarà poi la sensibilità e la coscienza del singolo politico a soppesarli e a equilibrarli nelle varie situazioni che non sono mai o bianche o nere, ma presentano sempre un alto grado di complessità e di necessario discernimento.
La terza caratteristica – lungimiranza – porta a considerare e ponderare gli effetti a lungo termine di ogni scelta. Di fronte ad una politica che vuole tutto e subito e che sembra rincorrere solo il consenso, la lungimiranza è oggi una vera profezia di speranza! Non intendiamo solo la capacità di «guardare lontano», ma più profondamente la capacità di intuire e intraprendere strade nuove, capaci di edificare il bene comune in maniera stabile, duratura e per tutti. Un leader lungimirante permette di avviare cambiamenti che si esprimono come educativi e culturali per la società. È invece pericolosa una retorica politica che si incentra solamente sul presente, dimenticando l’eredità del passato ed eliminando ogni responsabilità verso il futuro. Una buona politica né rimpiange il passato, né fugge nel futuro ma raccoglie ciò che è buono e nel presente opera scelte sagge che guardano al futuro. Questa è la speranza e tale capacità si nutre anche di immaginazione che è un prezioso spazio di creatività per trovare soluzioni innovative e strade nuove per sfide spesso inedite.
La quarta ed ultima caratteristica è molto connessa a questa riflessione: la calma. Con Weber, sosteniamo che occorre far risuonare dentro di sé il tempo presente con i suoi eventi e le loro risonanze, le tendenze e i movimenti sociali, i valori e i sentimenti dei popoli. Questo ascolto attento fa vedere meglio, illimpidisce gli sguardi, affina l’udito, aiuta a considerare le risorse disponibili, contestualizzare i problemi, ad arrivare alla radice delle questioni. Solo con un atteggiamento calmo possiamo dare ordine a ciò che viviamo e diventiamo capaci, poco per volta, di non lasciarci travolgere solo da ciò che sembra più urgente, ma di affrontare ciò che invece è più importante.
Ecco le caratteristiche di una buona politica. Lasciamo a voi valutare quanto siano diffuse, noi le vediamo rare! Non assenti ma molto rare!
- Una politica volta a costruire è dedita all’edificazione della democrazia. Una fatica che non riguarda soltanto i politici e i partiti ma tutti i cittadini. È così?
Anche la parola democrazia chiede cura e attenzione. Parla di una realtà preziosa ma anche fragile. Una politica volta a costruire sa che ha bisogno dell’aiuto di tutti, nessuno escluso. La democrazia, come un coro, funziona quando le varie voci si armonizzano in un’unica sinfonia. Se ad essere esclusa è anche solo una voce non è più la stessa cosa e la comunità ne avverte la mancanza.
Oggi la democrazia è fragile perché esposta a molti attacchi esterni ed interni. Sempre più minacciata dal grave rischio di incomprensioni, riduzioni e banalizzazioni. Noi siamo convintamente democratici. Nella nostra visione questa è la migliore forma possibile di governo e, allo stesso tempo, la forma più impegnativa ed esigente, perché chiede il coinvolgimento di ciascuno e una cittadinanza consapevole e libera. Ogni persona si deve sentir parte della comunità, corresponsabile in ogni sua azione e decisione del benessere collettivo e della tenuta democratica del Paese.
La democrazia ci sprona ad abbandonare una visione individualistica della vita e a ragionare in termini di collettività. Questa «comunione» ci permette di vivere una democrazia sostanziale, non solo a parole: una società è democratica non solo quando assicura libere elezioni a prefissate scadenze, ma quando tutti si sentono partecipi del destino comune attraverso l’esercizio consapevole dei diritti e dei doveri.
Non sono riflessioni teoriche, né scontate. Per noi sono convinzioni da cui dovrebbe derivare un cambio di paradigma e un’assunzione di maggior impegno per tutti. A volte, l’impressione diffusa è che la democrazia sia poco efficiente. È vero, a volte c’è lentezza nelle risposte ai problemi da parte dei poteri pubblici. ma non lasciamoci ingannare: non è colpa della democrazia! Lentezze e burocrazie amministrative vanno risolte ma non a prezzo dell’eliminazione di un dibattito politico.
Non abbiamo bisogno di decisori veloci e soli al comando. Piuttosto la calma e il confronto democratico sono garanzia di buona partecipazione da parte di tutta la cittadinanza. Se delegassimo in toto l’edificazione della democrazia ai policy makers, ai soli tecnici, a coloro che hanno un elevato livello di specializzazione, allora rischieremmo di arrivare a uno scollamento tra ciò che si delibera e il sentire della comunità. Contro questa concezione della delega assoluta che, all’estremo, porta al disimpegno, deve farsi strada un’idea di democrazia più matura e responsabilizzante che preveda il coinvolgimento di tutti nella cura della res publica in modo continuo, ognuno nel proprio ambito, attraverso modalità e forme che la vita democratica mette a disposizione. Pensiamo a tutte quelle modalità tramite cui la popolazione, singolarmente o associata, può conoscere o influenzare l’attività di chi ricopre incarichi pubblici.
Di questi tempi, in cui tutti vediamo una democrazia alquanto sofferente, oltre all’impegno in diversi settori e ambiti, sentiamo forte il bisogno che si organizzino spazi e luoghi per elaborare un pensiero propriamente politico, del quale si avverte tanto la mancanza. Non guardiamo solo alle singole questioni, non lasciamoci distrarre da tanti inutili dibattiti che sono vere «distrazioni di massa». Allarghiamo invece lo sguardo all’intera società, elaboriamo visioni e obiettivi tenendo conto della complessità degli elementi in gioco. Poi occorre tradurre in termini pragmatici e realistici questa elaborazione di pensiero perché è necessario che l’approdo sia l’azione politica concreta.
- Nella vostra proposta sottolineate che la politica deve recuperare uno «sguardo dal basso». Perché è così importante vivere e conoscere le periferie sociali, esistenziali e ambientali del nostro tempo?
Un capitolo del nostro libro titola proprio così: sguardo dal basso. È uno stile che vogliamo proporre per guardare il mondo che ci circonda. Scegliere come guardare la realtà è già un atto politico perché implica un coinvolgimento personale e collettivo di un certo tipo. «Sguardo dal basso» significa cambiare prospettiva, imparare a leggere la realtà non dall’alto di un piedistallo o da una cattedra, ma all’altezza degli occhi per incontrare l’altro. Significa scegliere di partire dagli ultimi, dagli emarginati, degli esclusi.
Lo sguardo dal basso è «un’esperienza di eccezionale valore» come diceva Bonhoeffer, al quale dobbiamo questa espressione. Nel libro, ricco di citazioni, abbiamo ripreso un suo pensiero: «Resta un’esperienza di eccezionale valore, l’aver imparato a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti». È un insegnamento che proviene dalla «cattedra della vita» di Bonhoeffer, una vita che si è compromessa. Lui, pastore luterano e teologo tedesco, oppositore del nazismo pagò con la vita questa compromissione.
Anche la politica dovrebbe adottare questa prospettiva dal basso per poter compiere analisi più lucide e così poter intervenire sulla realtà in modo più incisivo. Per dimostrare la concretezza di questo sguardo abbiamo voluto declinarlo in tre ambiti: la storia, la città e la scuola.
Lo «sguardo dal basso» nella storia non considera solamente le imprese epiche e le gesta gloriose di un popolo e dei suoi eroi, ma recupera anche la narrazione di eventi minori, il racconto di vita delle classi sociali più povere, delle masse, della stragrande maggioranza degli anonimi. Questo orientamento cerca di ricostruire l’impatto delle decisioni dei potenti sulla vita delle popolazioni.
Lo «sguardo dal basso» in una città riconosce, ad esempio, che l’urbanistica ha un’accezione fortemente politica: la progettazione degli spazi in una città riflette scelte di valore e visioni politiche ben precise. Per esempio, vedere le strade e i marciapiedi dalla prospettiva di una persona che si muove in carrozzina ci ricorda che è necessario abbattere le barriere architettoniche per agevolare la sua mobilità. Oppure pensare ad una mobilità più dolce, non attenta solo alle macchine che sfrecciano sulle strade, ma anche alla sicurezza dei ciclisti e dei pedoni. Ancora: garantire un verde urbano ben gestito, un’aria più pulita, spazi pubblici sottratti al commercio, al traffico, alla fretta e restituiti alla gratuità delle relazioni. Luoghi verdi con panchine dove le persone delle diverse età possano incontrarsi e trovare un momento di ristoro. La buona politica è anche la concretezza di queste scelte. «Sguardo dal basso» in una città, significa non dimenticarsi delle persone più fragili e dei poveri. In molte città le persone senza fissa dimora vengono viste solo come un problema di ordine pubblico o di decoro urbano. Rischiamo però così una visione distorta o perlomeno parziale che porta a politiche cattive. Prima di tutto e insieme a tutto va rispettata la dignità di ciascuno, i suoi diritti e bisogni.
Lo «sguardo dal basso» nella scuola prova a guardare il sistema scolastico dagli ultimi banchi. Di questi tempi è emerso un grande dibattito, spesso retorico, sul merito, ma parlare di merito in una società diseguale come la nostra è profondamente ingiusto! La scuola dovrebbe essere un percorso formativo capace di comprendere le esigenze di ciascuno ed educare tutti, cioè, aiutare ciascuno a «tirare fuori» il meglio di sé.
Quando la scuola riesce ad essere un ambiente aperto, accogliente, inclusivo, ogni studentessa e studente si sente valorizzato e spronato a questo meglio. In questa prospettiva allora il merito si traduce nel dare a ciascuno quello che davvero si merita e spesso è proprio il più bisognoso a meritare di più!
Papa Francesco ci richiama al rischio che «si incrementino idee sbagliate sulla cosiddetta “meritocrazia” (…) ma se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità, la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere» (Laudate Deum, n. 32).
Anche noi autori abbiamo sentito la necessità di scendere dal gradino dei nostri privilegi: riconosciamo di aver ricevuto tanto, di aver avuto la possibilità di studiare, di viaggiare, di vivere esperienze formative… Se ci tenessimo tutta questa ricchezza solo per noi rimarremmo dei privilegiati, invece, se con semplicità la mettiamo in circolo, diventa un dono per tutti.
Tutti siamo ricchi perché abbiamo da donare qualcosa agli altri e, allo stesso tempo, tutti siamo poveri perché necessitiamo di ricevere qualcosa dagli altri.
Lo «sguardo dal basso» ci mette in gioco, ci fa entrare in una dinamica circolare, in cui nulla e nessuno viene sprecato, ma tutto è occasione di crescita personale e comunitaria. Se la politica non adotta questo sguardo rischia di perdere il contatto con la realtà, rinunciare al suo ruolo e perpetuare solo ingiustizie e privilegi.
- Nel vostro volume pubblicato nell’anno del centenario della nascita di don Lorenzo Milani affermate che l’educazione è una priorità. È giunto il tempo di educare una massa di coscienze anziché una nuova classe dirigente?
Noi pensiamo che la formazione in ogni ambito di vita sia davvero una priorità. Per fare questo occorre sempre coltivare un atteggiamento umile. L’umiltà, infatti, deriva dalla consapevolezza che la formazione è un processo duraturo e mai finito, si sviluppa durante tutto l’arco di vita di una persona. Dare priorità all’educazione – come ci ricorda anche l’agenda ONU 2030 – significa promuovere un sistema formativo di buon livello per tutti e offrire un processo di formazione continua. Solo così è possibile porre le basi per una società più giusta e per una democrazia più solida.
L’istruzione è un diritto che deve essere garantito a tutti. Non si tratta di uno slogan vuoto. Se il processo formativo favorisce la mobilità sociale, anche la democrazia ne trae vantaggio. Don Milani ci è ancora maestro e non ne abbiamo ancora imparato tutta la lezione! Il sistema democratico vive nel momento in cui c’è una cittadinanza libera, consapevole, che è in grado di elaborare una propria opinione senza essere manovrata da una propaganda semplicistica che spesso alimenta le paure solo perché di queste si nutre. La formazione aumenta gli anticorpi verso le derive populiste, la manipolazione delle masse, le retoriche vuote che riempiono di applausi ma svuotano le teste.
È da una buona cittadinanza che emerge una buona classe dirigente e viceversa, non sono da contrapporre. Si tratta di educare perché ciascuno dia il meglio di sé, perché di questo meglio ne abbiamo bisogno. Ce lo ricorda la nostra bellissima Costituzione che ci richiama ad un dovere che è un invito a partecipare e coinvolgersi: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (Costituzione Italiana, art. 4).
- Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 11 ottobre 2023