I gruppi etnici sono costruzioni sociali nate dalla aggregazione di elementi quali paese di origine, colore della pelle, lingua. Il razzismo afferma l’esistenza di differenze su base biologica tra persone appartenenti a etnie fra loro diverse per colore della pelle, forma del naso, modi di atteggiarsi. L’attribuzione di appartenenza di una persona ad un gruppo etnico di solito non tiene in considerazione l’età, il luogo di nascita, la religione, la classe sociale, la condizione di occupato/inoccupato.
L’arrivo di centinaia di migliaia di persone in Occidente è motivo di grande attenzione, preoccupazione, spesso allarme. I migranti, di solito facilmente riconoscibili dal colore della pelle e dalla lingua, hanno vissuto esperienze traumatiche, laceranti dal punto di vista della sicurezza personale, che sappiamo produrre sofferenza mentale, sino a quadri patologici che rientrano nelle competenze dei servizi di assistenza psichiatrica dei paesi di arrivo.
Culture professionali
Quanto scrivo oggi non tiene non considera la condizione in cui versano da anni i Dipartimenti di salute mentale (DSM) in Italia circa organici e risorse finanziarie – ne ho scritto qui altre volte – perché voglio mettere meglio a fuoco alcuni gravi limiti delle loro culture professionali e assetti.
Ritengo sia necessario infatti monitorare, verificare severamente, le culture professionali degli operatori della salute mentale e più in generale degli operatori dei servizi sanitari e sociali, perché, allo stato delle cose, è ancora molto alto il rischio della deriva del razzismo nell’incontro che quotidianamente avviene con persone provenienti da altri continenti e civiltà.
Quando, come in questi mesi, le persone migranti sbarcano a migliaia sulle coste italiane, al loro arrivo, ma anche successivamente, possono presentare sintomi attribuibili, secondo la medicina scientifica che si insegna nelle Università e si pratica nel Servizio Sanitario Nazionale, a patologie del corpo e a disturbi mentali più o meno gravi.
Cosa accade allora al nostro paziente migrante, magari dopo una sedazione farmacologica, se il suo disagio prosegue, in un contesto di gravi difficoltà nella comunicazione? È alto il rischio che si possano rapidamente strutturare modalità assistenziali basate su pregiudizi, stereotipi, ignoranza, a grave danno delle minoranze etniche che vivono accanto a noi e con cui dovremmo imparare a relazionarci.
Il bisogno di interpreti e mediatori
Per quanto riguarda il Servizio Sanitario Nazionale, le situazioni più pesanti si verificano in particolare nella gestione dei trattamenti coatti, mentre perennemente drammatica è la situazione nelle strutture forensi per la scarsa disponibilità di risorse umane professionali, con tempi e spazi di lavoro adeguati.
Fare salute mentale richiede davvero competenza e tempo: quanto tempo «porta via» il lavoro di interlocuzione, ricerca di senso, traduzione, interpretazione della sofferenza declinata secondo culture «altre»?
Ma ancora, prima e insieme, è indispensabile l’individuazione dell’esistenza – dentro i singoli operatori professionali – di pregiudizi razzisti di vario grado: precondizione questa per il riconoscimento di dignità e di rispetto delle altre culture, degli altri modi di dare senso alla sofferenza e alle esperienze psichiche.
Il fenomeno migratorio in corso impone pertanto agli operatori della salute mentale di fare luce sulle proprie difficoltà nel rapportarsi con mondi culturali diversi rispetto al proprio, che non è l’unico ad avere valore.
Perciò diventano di fondamentale importanza la presenza nei servizi di interpreti dei mondi dei migranti col loro lavoro specialistico, per lo sviluppo di pratiche che consentano relazioni terapeutiche rispettose dei sofferenti psichici: queste richiedono un esame attento, minuzioso, consapevole di ciò che il paziente desidera e della sua disponibilità a collaborare, accentrando gli sforzi.
Accoglienza diffusa
Purtroppo, come stiamo vedendo, nel nostro Occidente, da una sponda all’altra dell’Atlantico, le persone di colore sono sovra rappresentate soprattutto nelle carceri e nelle istituzioni psichiatriche chiuse. Per quanto riguarda l’Italia, si pensi alla scelta di internare i migranti nei cosiddetti CPR per un anno e mezzo, «a prescindere» dalla commissione di reati, solo perché «irregolari».
Quanti psicofarmaci, dunque, in tali strutture, saranno somministrati non per curare, bensì per mantenere ordine e disciplina?
Ben altrimenti, un sistema di accoglienza diffuso, centrato sulle comunità locali, potrebbe consentire una migliore e più rispettosa presa in carico dei migranti con problemi di salute mentale.
Se questa scelta fosse fatta, occorrerebbe attrezzare i DSM, riorganizzarne le funzioni in rapporto alle esigenze delle relazioni con le nuove culture, a partire dalla scelta, almeno, di un dirigente che si occupi del coordinamento dei percorsi formativi dei professionisti e del lavoro di assistenza della salute mentale delle persone non-europee.
Per non parlare dell’Università, che dovrebbe aprirsi allo studio della declinazione della sofferenza mentale nei molti mondi culturali che abitano accanto a noi, per conoscere i tanti modi con cui gli umani declinano la sofferenza e le sue cure.