Medio Oriente: lutto e rabbia

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All’indomani dell’attacco notturno all’ospedale battista Al-Ahli di Gaza, il Primo Ministro libanese facente funzione, Najib Mikati, ha indetto per mercoledì 18 ottobre una giornata di lutto nazionale in solidarietà con le vittime e le loro famiglie.

In segno di condanna del raid israeliano, che secondo le autorità palestinesi avrebbe causato sinora circa cinquecento vittime, il Ministro dell’Istruzione libanese Abbas Al-Halabi ha inoltre annunciato la chiusura di tutte le scuole di ogni ordine e grado del Paese.

La giornata odierna si preannuncia densa di manifestazioni, tra la capitale e le città di Tripoli, Saida e Tiro; già stanotte migliaia di libanesi sono scesi in strada poco dopo la notizia dell’attacco dirigendosi in segno di protesta verso l’Ambasciata USA, alle porte di Beirut.

Attraverso il canale tv Al Manar la milizia sciita di Hezbollah, protagonista degli scontri di questi giorni sul confine con Israele, ha indetto per il primo pomeriggio di oggi un ingente raduno nella periferia sud di Beirut, la “dahiye“, dove il 90% degli abitanti sono sciiti e molti i simpatizzanti. Il raduno rientra nella “Giornata della rabbia e della protesta globale”, un’iniziativa “di condanna delle atrocità dei sionisti” che Hezbollah ha rivolto stanotte a tutto il mondo arabo e islamico in occasione della preannunciata visita di Joe Biden in Israele.

Hezbollah ha invitato il mondo arabo, e non è la prima volta, a “scendere in strada ed esprimere il proprio dissenso esercitando pressione su Stati, Nazioni ed Organismi internazionali” affinché agiscano immediatamente per fermare “il genocidio del popolo palestinese che è soggetto da anni a massacri, oppressione e migrazioni forzate”.

Come sottolinea l’autorevole rivista The National, però, nonostante i proclami bellicosi Hezbollah non ha né la forza né gli appoggi per permettersi una guerra aperta con Israele. Anche se il potente alleato Iran dovesse entrare in guerra a fianco di Hezbollah, spiega The National, aprire un fronte libanese significherebbe, molto probabilmente, l’intervento degli americani.

Com’è noto, Washington ha dispiegato due portaerei a scopo deterrenza nel Mediterraneo e forze massicce lungo il confine tra Siria e Iraq, per scongiurare l’eventuale ingresso in guerra delle milizie irachene a fianco dell’Iran. Un conflitto aperto tra i maggiori contendenti – USA, Israele, Iran ed Hezbollah – non gioverebbe a nessuno, anche se una guerra regionale non è da escludersi in assoluto, conclude The National.

Per quanto riguarda strettamente il Libano, fino ad ora gli scontri sul confine tra Hezbollah e IDF restano circoscritti, senza arrivare ad azioni irreparabili quali bombardamenti estensivi nei rispettivi Paesi. Il bilancio delle vittime si attesta per ora a meno di una decina di vittime al giorno, tra soldati israeliani, miliziani di Hezbollah, pochi civili tra cui il giornalista libanese Issam Abdallah, centrato da un missile israeliano mentre faceva il suo lavoro. C’è da augurarsi che, per quanto deprecabile, la situazione non peggiori.

Dal canto suo la società civile libanese, miliziani di Hezbollah a parte e fatta salva la vicinanza senza se e senza ma al popolo palestinese, rigetta con forza l’eventuale entrata in guerra del Paese, già provato da un passato di conflitti e da un presente di profonda crisi economica.

Persone di tutte le generazioni e religioni, giovani ed anziani, cristiani e musulmani, concordano in questo e sperano che le istituzioni non si facciano trascinare in una guerra che non appartiene loro.

“La guerre.. c’est la merde” mi dice con franchezza in ottimo francese Khodr, un ingegnere in pensione che di guerre ne ha viste tante. “Il popolo libanese è stanco, abbiamo bisogno di risollevarci dalla situazione economica in cui siamo sprofondati. Spero che le nostre istituzioni, che già sono responsabili della crisi del Libano, non vogliano ora portarci in quest’altra follia che nessuno vuole”.

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