Il mondo islamico – dinnanzi alla prospettiva della guerra – va decifrato attentamente, attraverso i suoi leader e i loro interessi politici particolari, gli sponsor dei gruppi armati più importanti che stanno alle spalle, le priorità, spesso non manifeste, per non dire poi delle contraddizioni e dei “giri di piroetta”. Oggi le fonti che mi sembrano più convincenti prospettano il seguente scenario.
Posizioni
Il piccolissimo ma ricchissimo emirato del Qatar ha da guardarsi dai grandissimi e potenti vicini, sauditi e iraniani, che non lo hanno mai amato per la sua inconsistenza nazionale. Così, da tempo, ha scelto di avere rapporti con tutti e in particolare di rappresentare i Fratelli Musulmani – “casa madre” dell’Islam politico che contesta i leader arabi corrotti – in modo da infastidire l’Arabia Saudita, intrattenendo relazioni con Israele ma in modo da infastidire anche l’Iran.
In questo modo il Qatar riesce a giustificare la sua esistenza, finanzia Hamas, ma, ora, dice di volerlo indurre a liberare gli ostaggi israeliani. Tutto è in funzione della tutela della propria esistenza, per la quale ha scelto con una mano di investire in Occidente somme enormi e, con l’altra, di finanziare i gruppi estremisti per garantirsi un ruolo regionale.
L’Egitto in questa crisi ha una evidente priorità: evitare l’afflusso di profughi nel suo Sinai, tanto che ha proposto che, in caso di invasione di Gaza, i palestinesi vengano provvisoriamente trasferiti nel deserto del Negev israeliano, attiguo a Gaza. Comunque, esclude un suo coinvolgimento o gestione diretta del territorio di Gaza post invasione, per non dover rispondere ad eventuali attacchi a suon di bombe.
Erdogan, dalla Turchia, in queste ore, sta dismettendo i panni del moderato fautore del dialogo con Israele per farsi paladino di Hamas, ma dopo che i partiti di ispirazione islamica in casa sua – a lui avversi o suoi alleati – hanno alzato i toni. Tuttavia, non ha ritenuto di riprendersi la scena islamica prima di aver dato il suo assenso all’ingresso della Svezia nella Nato, tanto agognato da Washington.
La manifestazione turca pro-Hamas, annunciata per sabato, gli potrà servire per oscurare le celebrazioni del giorno successivo, quelle della patria fondata da Ataturk, senz’altro nazionalista quanto lui, ma laico. Così i turchi – domenica – si sveglieranno coi giornali che presenteranno Erdogan quale prestigioso padre di tutti i sunniti.
Il Libano, poi, nei fatti, non esiste più, tanto che, da un anno, non ha un Capo dello Stato e il suo premier è in carica per il “disbrigo degli affari correnti”. A breve, sarà, peraltro, anche senza capo di stato maggiore, poiché l’attuale andrà in pensione e nessuno potrà nominarne un altro.
Con disarmata onestà, il suo primo ministro, in queste ore, ha ammesso che, sulla guerra ad Israele, non è certamente lui a decidere, bensì solo Hezbollah, la milizia khomeinista che controlla il sud del Libano e quindi il confine con lo Stato di Israele. In questo Paese – ormai distrutto da una devastante crisi economica – un sondaggio ha confermato che oltre il 70% dei libanesi non ne vuole sapere di altre guerre. Ma Hezbollah ne terrà conto? Il Paese, in caso di guerra conclamata, potrebbe facilmente sgretolarsi, potrebbero formarsi altri “mille” gruppi armati e cadere nel caos più totale.
La linea di Hezbollah – è noto – viene determinata dall’Iran che avrebbe promesso ai sauditi, secondo alcune fonti di stampa libanesi, che i combattenti hezbollah non alzeranno il tiro, rispettando le regole del “conflitto ammissibile” con Israele, ossia cannoneggiamenti senza attacchi a città e infrastrutture (non si chiarisce però fino a quale sviluppo).
Per Tehran il Partito di Dio deve essere una “spina piantata nel fianco” di Israele in chiave di dissuasione, per prevenire attacchi diretti contro l’Iran da parte di Israele: è difficile che l’Iran si possa esporre alla distruzione per Hamas; questo, almeno, secondo buona parte degli osservatori libanesi.
Analoga linea sembra stagliarsi tra le “mille” milizie armate filoiraniane che controllano l’Iraq. Alcuni dei loro leader avrebbero affermato di non essere stati consultati da Hamas circa le sue intenzioni e azioni in Israele, quindi di non dover rendere alcuna solidarietà.
Ma tre delle milizie si sono dette, invece, pronte a combattere. Tra di esse spicca l’Hezbollah locale. Nessuno si spinge a dire che sia solo propaganda: tutti si affrettano a chiarire che in caso di intervento di terra di Israele nella Striscia di Gaza le posizioni potrebbe mutare pericolosamente, per tutti i soggetti citati.
Pronti all’azione si sono detti – e dimostrati – pure i ben equipaggiati Huti filoiraniani dello Yemen, ben utili ad arrecare danni alle basi navali americane nel Golfo, qualora il conflitto dovesse deflagrare.
La Siria di Assad appartiene – mani e piedi – al fronte filoiraniano che ancora la conserva, in qualche modo, sulla carta geografica: non ha alcuna forza di deterrenza da esercitare, ma, naturalmente, ha la facoltà di ospitare gruppi armati dello stesso fronte per dare corda alle loro azioni, in maniera da non esporre (troppo) altri suoli della “Mezzaluna” persiana: in Libano piuttosto che in Iraq. Tanto della Siria e dei siriani, cosa importa?
Arabia Saudita e Giordania
Il Paese sul quale ci sono pochi dubbi è l’Arabia Saudita. Sa che Hamas ha agito soprattutto contro la prospettiva di accordo di pace saudita con Israele in via di definizione e, per tale ragione, ha dovuto metterlo “in frigorifero”. Dall’Arabia è partito il più forte attacco arabo all’immagine di Hamas, con una veemente intervista al suo leader Hanye da parte della televisione al-Arabia.
Il principe al-Turki, eminenza grigia della famiglia reale, ha fatto altrettanto con la carta, in stile meno aggressivo ma altrettanto chiaro. Ora Riad lavora alla non estensione del conflitto per divenire, poi, la potenza più attrattiva, politicamente, nel mondo arabo: obiettivo per il quale – molti affermano – dovrà trovare chi gli offra spazi di penetrazione nella intera opinione pubblica araba, e non solo.
Infine, la Giordania: è il Paese in mano alla corona più filoamericana che si possa dare, ed è quindi, oggi, in grande ed evidente difficoltà. La popolazione è quasi tutta di origine palestinese, a differenza della famiglia reale, espressione dei beduini locali.
Il re, però, ha sposato Rania, di origine palestinese: lei – in una intervista a Christiane Amanpourn della CNN – ha condannando lo stragismo di Hamas, chiedendo, però, accoratamente, all’America, di difendere le vite dei civili palestinesi, innocenti quanto le vittime di Hamas.
Mi chiedo se, in questo mondo, così tratteggiato, qualcuno ricordi il fine giurista islamico al Boukhari – di tale autorevolezza da non poter essere ridotto all’interno di una sola scuola giurisprudenziale islamica -, che già nel nono secolo affermava che, in tempo di guerra, «le donne, i bambini, i monaci, gli eremiti, gli anziani, i ciechi, e i malati di mente non possono essere sottoposti a maltrattamenti» (cf. Kitab al Jami’ al-Salih).