Passavo vicino a un negozio gestito, da ciò che dicono, da egiziani e subito la mia attenzione viene attratta da una musica araba, così intuisco: parole e musica, per l’esattezza. E qui mi dico: ecco cos’è lo spazio pubblico, ecco cosa vuol dire non limitarsi a coltivare la propria cultura dentro le mura domestiche!
Da ragazzetto – soprattutto al tempo delle scuole medie (prima metà degli anni Ottanta) – veniva sottolineato il rischio dell’omologazione: indosseremo tutti gli stessi jeans, parleremo tutti in inglese, ascolteremo tutti la stessa musica. La videocrazia televisiva sembrava uniformare il mondo, quando ancora non si parlava di globalizzazione.
I fatti hanno smentito quella previsione, clamorosamente. Il mondo è davvero divenuto un villaggio, ma le peculiarità locali, oltre a mantenersi in loco, si sono diffuse altrove, complici i flussi migratori. Del resto, nei secoli passati succedeva, poniamo, che i mercanti di ogni dove riuscissero a comunicare fra loro e condividessero empori o porti, conservando ciascuno, tuttavia, la propria lingua e la propria religione.
Noi avevamo l’esempio di persone, magari di amici, trasferitisi al Nord, o a Roma, che quasi immediatamente avevano acquisito i nuovi parlati o i nuovi idiomi, oltre alle abitudini e agli stili di vita dei luoghi che li ospitavano. Ebbene, al cospetto degli esodi di proporzioni quasi bibliche dal Sud al Nord del globo, ciò non sarebbe accaduto, o non sarebbe accaduto sempre. Anzi, anche le comunità già prima insediate nei Paesi ricchi avrebbero riscoperto e valorizzato le differenze: si pensi ai neri e agli ispanici del Nord-America.
Già, le comunità; ma cos’è una “comunità”? Un’enclave? Un corpo estraneo? O cos’altro? Neppure regge più la dicotomia République versus Londonistan, modello francese al cospetto di quello britannico e, più in generale, anglosassone. Un comunitarismo “a mosaico”, caratterizzato da porzioni di territorio sotto il controllo di gruppi diversi, non è auspicabile. Chi, infatti, può legare le varie tessere del mosaico? Occorre, ecco una prima considerazione, del tessuto connettivo. Anche perché all’interno delle singole “schegge” non di rado un ruolo decisivo lo hanno i religiosi, mettendo così in discussione la laicità della convivenza. Ecco, convivenza: dentro le varie comunità e fra di esse. Dove quel “fra” dovrebbe indicare ponti, non muri, neppure metaforici.
Riguardo, ad esempio, all’istruzione, occorrerebbe integrare quella comune per tutti e per tutte con le peculiarità linguistiche e culturali della comunità. Quest’ultima, insomma, dovrebbe aggiungere qualcosa rispetto al singolo, all’individuo, non togliere, non privarlo di ciò che altrove viene offerto. La comunità come occasione per dare alla persona delle chance in più, non per sottrargliele. Analogo discorso per la sicurezza e per gli altri servizi pubblici: non vi può essere una delega alla comunità, come in una sorta di nuova lottizzazione, simile a quella praticata dai partiti della prima Repubblica. Al contrario, accanto a ciò che è condiviso con gli altri, la comunità può aggiungere del suo, integrandolo.
L’idea, insomma, è che neanche il negoziante presso il quale mi sono trovato a camminare sia, semplicemente, un homo oeconomicus. Nello stesso tempo, però, nessuno, e in particolare le ragazze o i ragazzi, dovrebbe sentire e vivere o subire la comunità di appartenenza come un limite o un handicap. Dovrebbe trattarsi piuttosto di una sorta di doppia cittadinanza e di doppio passaporto, per accrescere le capacità del singolo, non per mortificarle.