Carl von Clausewitz, definendo la guerra come la prosecuzione della politica con altri mezzi, in realtà ne coglieva l’alterità, pur se con un vincolo intimo: politica e guerra sono legate, pur avvalendosi di mezzi, e dunque di strumenti, codici, registri, differenti.
Ad accomunarle – ecco la reinterpretazione di Carl Schmitt – sarebbe la tendenza a dividere il mondo in amici e nemici. Divisione vissuta alla luce del sole in guerra, resa evidente già nelle divise indossate. Ma davvero essa è anche l’essenza della politica?
Forse ne è la premessa e lo sfondo, ma l’esercizio attivo dell’arte della politica comporta poi la ricerca di soluzioni. La politica come arte del possibile, e talora dell’impossibile: la politica può spingersi ai limiti del possibile. Le armi, dunque, ne rappresentano anche lo scacco, la resa.
Ma cosa ci chiedono quei volti, segnati dalla tragedia, dei civili di Gaza? I razzi di Hamas, le truppe di Tel Aviv, il sangue di tanti, troppi israeliani e palestinesi sembrano appellarsi, impotenti, alla politica. Pongono questioni che non riescono a risolvere. Così il fanatismo religioso.
Vi è un’alterità di interessi, sicuramente, a livello locale e globale; vi sono differenze abissali. Tutto ciò, però, si mostra impotente: l’abisso resta, la fame e le malattie dilagano, il sangue continua a essere versato. Secondo la logica delle armi, secondo lo schema amico/nemico spinto alle estreme conseguenze, la soluzione può scaturire solo dall’annientamento dell’avversario: dalla distruzione dello Stato di Israele o dall’eliminazione fisica dei palestinesi. Seguendo con coerenza la logica della guerra e della violenza, si giunge al genocidio.
Insomma, il realismo cieco e sordo, lo sguardo cinico e disincantato – e insieme disincarnato – allo scenario mediorientale conducono alla follia. Alla negazione della realtà; dei due popoli. Un vero paradosso e, insieme, un rompicapo. Se ne esce solo con la politica, quella legata all’imperativo della convivenza: dobbiamo convivere, e ricercare gli equilibri giusti per farlo. Da qui l’esigenza di un “reincantamento post-ideologico” della politica.
Per dirla con il filosofo Giacomo Marramao, nei decenni della statica contrapposizione ideologica tra Usa e Urss “era per me inevitabile appellarmi alla passione del ‘disincanto’” insegnataci da Max Weber. “Ma, dopo che il crollo di quel duumvirato sovraccarico di ideologia ha dato luogo a una progressiva deflazione simbolica di ogni forma di vita associata, persistere nel disincanto vorrebbe dire rendersi complici del cinismo politico dominante in tutte le regioni del pianeta”.
Ed è, insieme, drammatico e interessante notare come sia quel duumvirato – l’equilibrio del terrore – sia il disincanto attuale, vanamente colmato dal fanatismo religioso e caratterizzato dalla pratica diffusa del terrore, risultino paralizzanti e incapaci di risolvere i problemi e le questioni. Equilibrio del terrore versus pratica quotidiana del terrore: un vicolo cieco, un tunnel senza uscita.
Solo la politica, una politica “reincantata”, accanto alla cultura, potrà riaccendere un barlume di speranza.