Il 7 ottobre, militanti di Hamas hanno fatto irruzione nel Sud di Israele, torturando, stuprando e uccidendo oltre 1.400 innocenti, uomini, donne, adolescenti, bambini e nonni che stavano festeggiando Simchat Torah. Nel mese successivo all’attacco, i Paesi di tutto il mondo hanno registrato un forte aumento di episodi di antisemitismo.
Condannare l’antisemitismo
Per coincidenza, due giorni dopo l’assalto di Hamas un convegno di storici cattolici ed ebrei era convocato a Roma. Gli studiosi dovevano confrontarsi su nuove ricerche a proposito di quanto la Chiesa fece e non fece durante l’Olocausto per salvare gli ebrei dallo sterminio nazista.
All’apertura del convegno, Suzanne Brown-Fleming, direttrice dei programmi accademici internazionali del Museo Memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti, ha osservato che alcuni cattolici a Roma, durante l’occupazione tedesca dell’Italia negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, superarono i loro pregiudizi antisemiti e diedero rifugio agli ebrei, «a volte a costo della loro vita. Altri non lo fecero».
Nonostante i gesti eroici di singoli e di istituzioni religiose, la risposta alla domanda: «Che cosa ha fatto la Chiesa per gli ebrei?» è la stessa del resto del mondo occidentale: non abbastanza.
Come verrà valutata tra 50 anni la risposta cattolica alla crescita dell’antisemitismo nel mondo seguita al giorno più letale per gli ebrei dopo l’Olocausto? Sarà giudicata sufficiente?
Un crescendo preoccupante
Da tempo America chiede una soluzione al conflitto israelo-palestinese che rispetti il diritto di israeliani e palestinesi a vivere a Gerusalemme e nei territori circostanti e ha criticato le politiche israeliane che hanno ritardato una pace tanto attesa o non hanno rispettato la dignità umana dei palestinesi. La scorsa settimana, America ha chiesto a Israele di porre fine all’assedio totale di Gaza e di consentire l’ingresso di aiuti umanitari adeguati alla massiccia e crescente mancanza di cibo, acqua, medicine e carburante. Una necessità di aiuti che rimane tuttora critica.
Ma non si tratta della spirale di violenza, repressione e rappresaglie che ha preceduto l’orribile attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre, né dell’invasione e dell’assedio di Gaza che ne sono seguiti, bensì di ciò che sta accadendo oggi nei campus universitari, sui social media e nelle strade delle città di tutto il mondo. Il male dell’antisemitismo e la minaccia che rappresenta per gli ebrei di tutto il mondo devono essere condannati in modo chiaro e netto, indipendentemente dalle critiche o dal sostegno a Israele come Stato ebraico.
Il mondo è stato testimone di episodi di antisemitismo quasi subito dopo gli attacchi di Hamas. Lunedì 9 ottobre, in Israele, si contavano ancora i morti quando, durante una manifestazione pro-palestinese all’Opera House di Sydney, in Australia, si sono sentiti cori che inneggiavano slogan come «Gas the Jews» e «F- the Jews».
Il 30 ottobre, nella regione russa del Daghestan, una folla inferocita ha preso d’assalto un aeroporto alla ricerca di ebrei in arrivo su un volo da Tel Aviv. Graffiti antisemiti si stanno diffondendo in tutta la Francia, anche a Parigi, dove decine di stelle di David sono state dipinte sugli edifici della città, considerate un’eco del distintivo che gli ebrei erano costretti a indossare sotto i regimi nazisti.
Il 5 novembre, la Commissione europea ha dichiarato: «L’ondata di incidenti antisemiti in Europa ha raggiunto livelli straordinari negli ultimi giorni, che ricordano alcuni dei periodi più bui della storia».
Negli Stati Uniti, l’Anti-Defamation League ha registrato un aumento del 388% degli episodi di antisemitismo – compresi attacchi verbali e fisici – dal massacro del 7 ottobre. «L’antisemitismo si è intensificato ed è aumentato», ha dichiarato il 5 novembre scorso il direttore dell’ADL, Jonathan Greenblatt. «L’abbiamo visto normalizzato, sia dall’estrema destra che dalla sinistra più radicale».
Alcuni attivisti e accademici hanno celebrato le atrocità di Hamas come un atto di resistenza. Alla Cornell University, l’FBI è stata chiamata a indagare su minacce violente pubblicate su bacheche online. «Se vedete una “persona” ebrea nel campus, seguitela a casa e tagliategli la gola», si legge in un messaggio. Uno studente è stato arrestato in relazione alle minacce. Nei campus e nelle strade cittadine, i manifesti che mostrano i volti delle oltre 200 persone tenute in ostaggio a Gaza sono stati strappati dai critici di Israele.
Le Università si sono affrettate a denunciare per nome l’antisemitismo e il suprematismo bianco quando nel 2015, durante una marcia della destra a Charlottesville, risuonò lo slogan: «Gli ebrei non ci sostituiranno»; dovrebbero essere oggi altrettanto energiche nel condannare l’odio che proviene dai loro campus (su quanto accaduto ad Harvard, cf. qui su SettimanaNews − ndr).
Una parola per l’orrore
Molti americani, cercando di comprendere la portata dell’attacco del 7 ottobre, lo hanno descritto come «l’11 settembre di Israele». Gli ebrei non hanno bisogno di fare ricorso a questa analogia. Hanno una parola per questo orrore: pogrom.
Nel corso della storia dell’Europa cristiana, gli ebrei sono stati periodicamente oggetto di violenze da parte delle folle. Nel Medioevo, le Crociate hanno eccitato il fanatismo religioso dei cristiani, che poi hanno incanalato tale fervore nella violenza contro i loro vicini ebrei. All’inizio dell’era moderna, gli ebrei, un popolo senza Stato con profondo coinvolgimento religioso, sono stati spesso considerati un capro espiatorio in quanto nemici dell’emergente Stato-nazione e del progetto illuminista. Dopo la Rivoluzione bolscevica in Russia, i nazionalisti e i soldati dell’Armata Rossa uccisero decine di migliaia di ebrei nelle moderne Bielorussia e Ucraina.
Le ragioni dell’odio per gli ebrei nel corso della storia sono state camaleontiche: gli ebrei sono troppo ricchi o troppo poveri, troppo potenti o troppo deboli; sono monoteisti ostinati o comunisti senza Dio. Questa adattabilità rende l’antisemitismo resistente ed è il motivo per cui dobbiamo sempre prestare attenzione alla sua ricomparsa in mezzo a noi. Quando alcuni degli slogan che provengono dalle proteste che si svolgono nei campus e nelle strade fanno eco all’odio di Hamas, Hezbollah e dell’Iran, non possiamo rispondere con il silenzio.
La critica a Israele non è antisemitismo. L’antisionismo non è antisemitismo, anche se molti ebrei diranno che è sempre più difficile distinguere. Ma celebrare la depravazione di Hamas o sostenere che il bersaglio di civili israeliani innocenti è comprensibile come atto di resistenza armata rivela un disprezzo profondamente radicato, e profondamente immorale, per la vita degli ebrei.
I leader cattolici non sono rimasti in silenzio di fronte a questa ondata di antisemitismo. Il cardinale Timothy Dolan di New York, presidente del Comitato per la libertà religiosa della Conferenza episcopale statunitense, ha condannato la recente esplosione di odio religioso nei confronti di ebrei e musulmani in una dichiarazione del 1° novembre. «Mentre innumerevoli voci celebrano i brutali attacchi terroristici del 7 ottobre, i nostri fratelli e sorelle ebrei temono ragionevolmente per le loro vite», ha detto il cardinale.
Gli Stati Uniti sono stati a lungo un rifugio per il popolo ebraico, un luogo dove poter vivere senza paura. Spetta ai cattolici e a tutte le persone di buona volontà garantire che rimanga tale. Ma questo atteggiamento va coltivato anzitutto a livello personale. I nostri amici ebrei hanno paura e soffrono. Molti conoscono qualcuno che è stato ucciso, ferito o rapito, o che sta combattendo a Gaza. Non è necessario condividere la loro politica per offrire consolazione e sostegno.
Mantenere la promessa
Nell’ultimo mese, cittadini preoccupati – cattolici, ebrei e musulmani allo stesso modo – si sono radunati in città di tutto il mondo per chiedere un cessate il fuoco immediato. Domenica scorsa, papa Francesco – che ha ripetutamente chiesto il rilascio degli ostaggi e la fine dell’assedio di Gaza – ha fatto appello «in nome di Dio» per un cessate il fuoco.
Mentre sostengono la loro richiesta per una pace giusta, i cattolici dovrebbero rimanere in dialogo con gli ebrei, i quali valutano gli appelli al cessate il fuoco come un doppio standard che non si dovrebbe mai applicare a un Paese attaccato in modo così spietato e i cui nemici non mostrano alcun desiderio di pace.
Coloro che invocano un cessate il fuoco preoccupati per le vite innocenti perse a Gaza devono riconoscere anche le reali paure degli ebrei in Israele e nella diaspora. La solidarietà con chi soffre a Gaza va unita alla solidarietà con coloro che temono per la sicurezza loro e dei loro cari in Israele.
In un discorso a Chicago il 3 novembre, l’ex presidente Barack Obama ha esortato gli americani a «comprendere tutta la verità» del conflitto tra Israele e Gaza. «È vero – ha detto – che l’occupazione e ciò che sta accadendo ai palestinesi è insopportabile». «Ma è anche vero», ha continuato Obama, «che c’è una storia del popolo ebraico che può essere ignorata se i vostri nonni o bisnonni, o i vostri zii o le vostre zie non vi raccontano la follia dell’antisemitismo».
Le relazioni cattolico-ebraiche hanno fatto passi enormi dopo la Seconda guerra mondiale. Insieme al mondo intero, i cattolici hanno promesso che «mai più» avremmo assistito inerti alla persecuzione e all’uccisione degli ebrei in nome della religione o dell’ideologia. Oggi, i nostri fratelli e sorelle ebrei ci stanno chiedendo di mantenere quella promessa.
Editoriale della rivista dei gesuiti statunitensi America, 7 novembre 2023 (originale inglese)