La quinta monografia 2023 della rivista Presbyteri è dedicata a uno dei temi maggiormente sollevati nel corso del pontificato di Francesco: il clericalismo. Non vi è dubbio, infatti, che «nella vita ecclesiale permangono ancora forme di gestione del potere che non si fondano sul mandato evangelico, ma piuttosto manifestano elementi problematici, non rispettosi delle persone, della dignità battesimale comune e di una corretta interpretazione del ministero». La monografia, della quale pubblichiamo di seguito l’editoriale, si «interroga su questi fenomeni per analizzarne le radici e le manifestazioni e indicare gli antidoti, che già ci sono nella Chiesa ma hanno bisogno di nuova consapevolezza e di realizzazione».
Se a qualcuno, tra i lettori di Presbyteri, venisse la curiosità di trovare qualche informazione al volo sul tema del «clericalismo», non deve fare altro che «googlare» questa parola. Si troverà di fronte a una serie sterminata di articoli, riflessioni, commenti, alcuni appropriati e documentati, altri alquanto approssimativi e talvolta anche molto viscerali. Come spesso succede, la quantità può andare a scapito della qualità. In ogni caso questo è un tema che continua ad essere oggetto di grande interesse e dibattito soprattutto negli anni di pontificato di papa Francesco.
Tra parentesi, mi scuso per avere usato l’espressione «googlare», forse a noi meno familiare, ma sappiamo che oramai «cercare su Google» è diventato sinonimo di «cercare su Internet» informazioni su qualsiasi argomento. E pazienza se la coniugazione di questo verbo risulta un po’ goffa. Scriveva Beppe Severgnini sul Corriere della Sera: «Non bisogna stupirsi. Ogni nuovo strumento ha creato i suoi vocaboli. Da principio stupiscono, poi ci si fa l’abitudine»[1].
Una parola chiave
Credo che la parola Clericalismo potrebbe entrare di diritto nella «top ten» di papa Francesco, che l’ha usata e la usa davvero molto.
Daniele Menozzi, storico delle religioni e docente di Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha notato che nei 7 anni di pontificato di papa Benedetto XVI il termine clericalismo è stato usato una sola volta, il 10 giugno 2010, in occasione di un incontro internazionale di presbiteri con papa Ratzinger.
Invece papa Francesco, nel periodo che va da marzo 2013 a marzo 2020, ha usato questa espressione ben 55 volte[2]. Per questo motivo c’è chi la considera come un termine chiave che definisce una delle traiettorie significative del cammino ecclesiale proposto da papa Francesco.
Nella Messa Crismale del Giovedì Santo del 2019 (18 aprile), commentando il testo del Vangelo (Lc 4,16-21), che racconta l’inizio del ministero di Gesù, papa Francesco dice:
Il Vangelo di Luca, che abbiamo appena ascoltato, ci fa rivivere l’emozione di quel momento in cui il Signore fa sua la profezia di Isaia, leggendola solennemente in mezzo alla sua gente. La sinagoga di Nazaret era piena di parenti, vicini, conoscenti, amici… e non troppo amici. E tutti tenevano gli occhi fissi su di Lui.
Possiamo immaginare anche noi la scena: sono attimi di silenzio e di respiro sospeso da parte dei nazaretani. Quella di Nazaret è gente semplice che viene colta di sorpresa di fronte all’audacia di Gesù. Il Vangelo stesso ci fa intuire come tutti fossero più attenti alla persona che leggeva il testo di Isaia, piuttosto che alla parola che veniva proclamata.
E poi il papa aggiunge:
«Dice Luca che le folle “lo cercavano” (Lc 4,42) e “lo seguivano” (Lc 14,25), lo “stringevano”, lo “circondavano” (cf. Lc 8,42-45) e “venivano numerose per ascoltarlo” (Lc 5,15). Questo seguire della gente va aldilà di qualsiasi calcolo, è un seguire senza condizioni, pieno di affetto. Contrasta con la meschinità dei discepoli il cui atteggiamento verso la gente rasenta la crudeltà quando suggeriscono al Signore di congedarli, perché si cerchino qualcosa da mangiare. Qui – io credo – iniziò il clericalismo: in questo volersi assicurare il cibo e la propria comodità disinteressandosi della gente. Il Signore stroncò questa tentazione. “Voi stessi date loro da mangiare”, fu la risposta di Gesù: “fatevi carico della gente!”».
Clericalismo = disinteresse per le persone
Il clericalismo inizia quando ci si disinteressa delle persone! Questa è la intuizione e la provocazione mirata di Francesco.
Come non ricordare le pagine profetiche di Antonio Rosmini nel libro Delle cinque piaghe della santa Chiesa?[3]
Rosmini analizzava i mali che gravavano sulla Chiesa del suo tempo e ne elencava principalmente cinque, quante sono le piaghe di Gesù crocifisso: 1) la divisione del popolo dal clero nel culto pubblico; 2) l’insufficiente educazione del clero; 3) la disunione dei vescovi; 4) la nomina dei vescovi abbandonata al potere temporale; 5) l’asservimento dei beni della Chiesa al potere politico.
È il clericalismo a rendere ancora sanguinante la prima piaga: la divisione del popolo di Dio dal clero.
Il clericalismo, infatti, è un atteggiamento di distanza e di superiorità – come afferma papa Francesco – nei confronti del popolo di Dio. Vale la pena di ricordare che anche i laici possono incorrere negli atteggiamenti tipici del clericalismo, quando vengono meno al loro ruolo di cristiani testimoni di Cristo e demandano ogni cosa ai preti, come se la Chiesa fosse «cosa loro» e non la comunità a cui tutti apparteniamo.
In una sua lettera del 2016 papa Francesco spiegava che
«il clericalismo non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato (…) e dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cf. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati»[4].
Nella grazia del Servizio … la guarigione
Non si tratta di sminuire il ruolo dei presbiteri, ma di seguire le parole di Gesù agli apostoli: «Chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,26-28).
Oggi, parlare di una Chiesa in uscita, missionaria e sinodale, significa innanzitutto ribadire che la Chiesa per sua natura deve essere de-centrata e non autoreferenziale.
Quindi, ogni atteggiamento di autoreferenzialità, talvolta anche sottilmente narcisistica, non dovrebbe in nessun modo connotare lo stile di vita di un pastore della comunità cristiana.
Non dovrebbe … perché purtroppo non sempre ciò si verifica!
Che senso può avere la comunità dei credenti in Cristo se perde la consapevolezza di essere a servizio di questo nostro mondo, nella concretezza di ciò che esso è e non di quello che si potrebbe desiderare? Certi modi di parlare spesso lamentosi o univocamente critici verso ciò che si vive nell’attualità non possono essere la raffigurazione di una Chiesa – e forse anche di un presbiterio – ancora troppo autoreferenziali? È facile ed è anche bello ripetere che la Chiesa è in uscita missionaria, che vive uno stile sinodale e ministeriale, ma è molto più difficile tirarne le conseguenze e intraprendere quei cammini di conversione che ciò richiede.
Con lo stile di Gesù
È essenziale riappropriarsi dello stile di Gesù, che camminava con la gente ben prima ancora che la grande Chiesa anatolica inventasse la parola «sinodo» che, come si continua a ripetere in modo un po’ retorico, significa «camminare insieme». Dice don Giuliano Zanchi:
«La scena originaria della Rivelazione di Dio in Gesù ha proprio questa forma. Trent’anni di silenziosa abitazione nei fondamentali delle cose umane (la vita di Nazaret), e poi uno stare per strada immerso in una compagnia composita, che non è solo fatta di discepoli ma anche delle folle»[5].
È un riprendere e un puntualizzare ciò che papa Francesco ha proposto nella Messa Crismale del Giovedì santo del 2019.
L’antidoto dell’ascolto
C’è un interessante romanzo dello scrittore tedesco Michael Ende; il suo titolo è Momo.
Nelle rovine di un anfiteatro, posto in prossimità di una città non specificata, vive Momo, una ragazzina di origine misteriosa. Momo è arrivata presso le rovine senza i genitori e indossando un lungo cappotto di seconda mano. È analfabeta, non sa contare e non sa neppure quanti anni ha: quando le viene chiesto, risponde «Se mi ricordo bene, ci sono sempre stata». È però molto nota e ricercata nel vicinato perché ha l’abilità straordinaria di saper ascoltare, e ascoltare davvero: le basta stare con le persone e ascoltarle, in modo da aiutarle a trovare risposte ai loro problemi e fare pace l’uno con l’altro.
Scrive Michael Ende:
«Quello che la piccola Momo sapeva fare come nessun altro era proprio questo: ascoltare. Niente di straordinario, dirà più di un lettore, chiunque sa ascoltare. Ebbene, è un errore. Ben poche persone sanno veramente ascoltare. E come sapeva ascoltare Momo era una maniera assolutamente unica.
Momo sapeva ascoltare in tal modo che ai tonti, di botto, si affacciavano alla mente idee molto intelligenti. Lei sapeva ascoltare così bene che i disorientati o gli indecisi capivano all’improvviso quello che volevano. Oppure i pavidi si sentivano, ad un tratto, liberi e pieni di coraggio» [6].
L’ascolto è la via infallibile per imparare a decentrarsi, per andare oltre la barriera della propria autoreferenzialità, per imparare a prendersi cura dell’altro, con rispetto e con profonda discrezione. Quando chi ti ascolta lascia da parte sé stesso e si fa grembo che accoglie, allora è come se fossi tu ad ascoltarti e dentro di te si formula la risposta. L’accoglienza dell’ascolto mette nella condizione di riaffrontare i problemi della propria vita con animo diverso. È essenziale che la dimensione dell’ascolto torni ad essere non «una parte» ma «la parte» prioritaria del proprio ministero e della propria diakonia.
Etty Hillesum, la scrittrice olandese di origine ebraica che morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943, nel suo Diario, parlando del desiderio di conoscere paesi e persone scrive: «Dovrei imparare le lingue… E poi ascoltare, ascoltare dappertutto, ascoltare in profondità gli esseri e le cose. E amare…» [7].
L’ascolto è la naturale espressione dell’amore ed è l’antidoto più efficace contro il clericalismo.
Il modello di riferimento è il Signore Gesù, così come lo descrive San Paolo nell’inno cristologico della lettera ai Filippesi: «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7).
San Paolo VI descrive il tempo dell’ascolto come uno spazio in cui «l’uomo è recuperato a sé stesso».
Recuperati a noi stessi … per essere profondamente umani e gioiosamente discepoli del Signore, vicini a Dio e vicini alla gente.
[1] B. Severgnini, Corriere della sera, 18 ottobre 2007, 42.
[2] D. Menozzi, «Francesco-Clericalismo: storia di una parola», Il Regno – Attualità, 8/2020, 15/04/2020, 233.
[3] A. Rosmini, Delle cinque piaghe della santa Chiesa, a cura di A. Valle, Città Nuova, Roma 1999. La stesura del testo risale al periodo compreso tra il novembre 1832 e il marzo 1833; fu messo all’Indice per ragioni politiche nel 1849; venne riabilitato solo con il Concilio Vaticano II.
[4] Lettera del Santo Padre Francesco al cardinale Marc Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016.
[5] G. Zanchi, Lo stile di Gesù e il ministero della Chiesa, meditazione proposta nella cattedrale di San Pietro a Bologna il 18 maggio 2023 (cf. qui su SettimanaNews).
[6] M. Ende, Momo, traduzione a cura di D. Angeleri, Longanesi, Milano 1993.
[7] E. Hillesum, Diario 1941-1943, a cura di J. G. Garlaandt, tradotto da C. Passanti, Adelphi, Milano 1996.
Mah! Temo che questa continua insistenza sul clericalismo di chierici e laici, che pur in alcuni casi esiste, porti ad inserire in questo gruppo di persone, tutti coloro che nella Chiesa s’impegnano a far qualcosa. Ciò comporta che molti vengano ingiustamente giudicati e altri preferiscano stare alla larga da ogni impegno ecclesiale.