Maria: il sole nel ventre

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Arriva il Natale e la fede ci porta ad ammirare alcune opere d’arte, quest’anno la tela “Il Sole nel Ventre” (1984) di J-M. Pirot, chiamato anche Arcabas, pittore francese morto nel 2018.

Il Sole nel Ventre

La tela rappresenta una visione tenerissima e trasfigurata della gravidanza della figlia di Arcabas. È presentata in una postura eretta e con un tratto che fanno risaltare il suo pudore, mostrando i seni solo abbozzati. Le mani sostengono il ventre, che, emanando una luce intensa, illumina tutto il quadro.

Il volto esprime tenerezza, mentre gli occhi fissano lo spettatore. Questi è preso dallo stupore nell’ammirare quel Sole che la Madre di Dio protegge. Il Sole splende nel mezzo della tela. Le gambe e i piedi hanno il color terra, che rimanda a una sorgente della vita, il grembo, che può solo ricevere e trasmettere, non creare. Nella parte superiore, il volto è circondato da luce e da colombe, metafore dell’azione generante dello Spirito Santo (Lc 1,35).

A quella trasparenza, ricordiamo i versi di Dante: “Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo nell’etterna pace / così è germinato questo fiore” (Par XXXIII, 7-9). Il “visibile parlare” dell’immagine non ha bisogno di altre spiegazioni. Pare che la nudità del seno leghi al profano e il grembo al sacro, fissando una sorta di opposti, naturale e soprannaturale. L’immagine di questa ragazza incinta, però, trasmette nel suo insieme un misterioso e incantato legame di cielo e terra, di intatto candore e di carnale trasformazione.

La destinazione di Gesù nell’arte

La tela di Arcabas richiama la “Donna vestita di sole” dell’Apocalisse (Ap 12,1-2), dove però la donna “grida per le doglie e il travaglio del parto” ed è minacciata dal “Drago rosso”. Il testo è rappresentato per la prima volta dalle miniature mozarabiche. “Il Sole nel Ventre” rappresenta il concepimento e la “Donna vestita di sole” evoca la nascita e le insidie successive, congiunte nell’iniziazione alla vita. Che ne sarà di quel bambino?

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La “Donna vestita di sole” e il “Drago rosso”, particolare di una miniatura del Codice “Beatus Facundus”, 1047, Biblioteca Nazionale di Madrid.

Gli iconografi rispondevano con la natività e una cassa per il Bimbo, segnalando sia le origini che la sua destinazione nella morte. I pittori rappresentavano spesso la risurrezione e le apparizioni per dire come si concluse la sua vita sulla terra. Di sicuro morte e risurrezione sono gli eventi finali della storia di Gesù, ma non sono la destinazione del Figlio. Senza chiarire la sua destinazione, rimane nell’ombra il tesoro racchiuso nelle relazioni Trinitarie, che lo gnosticismo tenta sempre di restringere a un concetto, assegnando alla manifestazione storica il ruolo di pretesto narrativo della vita spirituale e svuotando l’arte a semplice evasione estetica.

L’icona di Rublëv, la “Trinità” (1422), è forse l’unica opera che presenta la destinazione finale di Gesù alla “destra del Padre”, come dice il Credo e il dettato dei Sinottici. La dottrina classica nel dettato del Concilio di Firenze, però, precisa: “… nella divinità tutto è unico, eccetto quello che richiede l’opposizione di relazione” (DS 528), escludendo così una replicazione delle tre figure. Per questa ragione, P. Sequeri annota: “La celebre Trinità di Rublëv è bellissima e sbagliata” (“Il grembo di Dio”, Città Nuova, p. 258).

La destinazione di Gesù nel pensiero

Non conosco altre opere sulla Trinità che evochino tale destinazione nell’ascensione alla “destra del Padre”. In realtà, anche il pensiero ha i suoi silenzi plurisecolari sull’ascensione, su cosa essa aggiunga a quanto la Risurrezione abbia già conseguito e per la quale si possa e si debba dire che è la vera destinazione di Gesù risorto.

Gesù siede alla “destra del Padre” con la sua umanità risorta. Non è tornato quindi allo “stato” precedente di “Logos”, ma è sempre quell’umano, Gesù, generato dal Padre, con quell’“obbedienza che ha imparato dalle cose che ha patito” (Eb. 5,8). L’insediamento alla “destra del Padre” porta a compimento le loro relazioni: quanto al “generato”, che acquisisce la pienezza delle affezioni filiali, e al “generante”, che trasmette al Figlio la pienezza di affetti paterni.

Sedere alla “destra del Padre” per Gesù non è uno “spalla a spalla”, ma uno “stare di fronte”, nella condizione di “vedersi in volto”, ascoltarsi e parlarsi con la confidenza degli affetti filiali e paterni al fine di una “fecondità generativa ad extra”. Così è tra il Padre e il Figlio. Per noi però è impossibile vedere Dio Padre (Gv 1,18), ma chi ha visto il Figlio, vede anche il Padre (Gv 14,9), nei giorni ordinari nei “fratelli più piccoli” (Mt 25,40) e in quello straordinario nello “spezzare il pane” (Lc 24,35).

L’insediamento alla “destra del Padre” attiva in misura straordinaria lo Spirito Santo, con ciò che gli è proprio come luce e guida del loro fronteggiarsi, e come potenza che fa nascere e risorgere dall’intimità di Dio. Unito al Padre e al Figlio nell’amore, eppur distinto negli affetti per la fecondità generativa ad extra, lo Spirito Santo genera “alterità” con affezione, affinché ciascuno acquisisca la propria identità per la giustizia degli affetti e delle relazioni.

Un Natale dal “Sole nel Ventre” al “Grembo di Dio”

Il Natale si avvicina e lo sguardo ritorna all’immagine del “Sole nel ventre” che dona vita all’Eterno dal quale la riceve (“Vergine Madre, figlia del tuo figlio”, Par XXXIII, 1), e dilata l’affezione sull’intero orizzonte della storia e sulla verticale della destinazione nell’intimità Dio. Nel suo tracciato, l’affezione può estendersi a tutti, anche al nonno pittore, che ha nutrito l’attesa della sua destinazione con il “Sole” negli occhi.

Attraverso Maria, passa l’Amore, quell’Amore che assegna alla vita nel tempo la destinazione nel “grembo di Dio”, pienezza del “Sole nel Ventre”. Fissi gli occhi sul passaggio dal “grembo di Maria” al “grembo di Dio”. «Lo stesso Amore, che “move il sole e l’altre stelle”, è passato e passa per questa porta: “umile e alta più che creatura”. Di qui ognuno può passare, se vuole che “sua disianza” non diventi un volo “sanz’ali”» (P. Sequeri, in “Luoghi dell’Infinito”, giugno, 262).

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