Quale unità è quella che si augura l’ecumenismo? È un’unità che innanzitutto non è contro qualcuno, e che non deve significare uniformità, bensì una convivialità delle differenze (don Tonino Bello) in cui le Chiese, da vere sorelle, si riconoscono e si pongono al servizio l’una dell’altra. In realtà, non di rado oggi l’ecumenismo, dopo gli anni rigogliosi attorno al Vaticano II, appare in crisi, troppo spesso ridotto a un dialogo di forme e non di sostanza (c’è chi parla, con preoccupazione, del dialogo dei salamelecchi…). Ma è altrettanto innegabile che in vari ambiti – da quelli scientifici di chi studia la Bibbia, a chi sperimenta l’accoglienza allo straniero o il dialogo interreligioso senza chiedere carte d’identità di quanti operano al suo fianco – l’ecumenismo è sempre più sentito come la forma normale dell’essere cristiano: soprattutto in un pianeta ormai definitivamente globalizzato, in un’Europa smarrita e caratterizzata da appartenenze liquide (come ci ha insegnato il sociologo Zygmunt Bauman, scomparso qualche giorno fa). Come sosteneva Matta el Meskin, il grande monaco copto scomparso qualche anno fa: più i cristiani saranno fedeli al Vangelo, più facilmente si incontreranno e troveranno unità e comunione. La troveranno nel loro Signore, guidati dallo Spirito nella pratica quotidiana del Vangelo.
La forma comune dell’essere cristiani
Possiamo allora dire, parafrasando la bella espressione della costituzione conciliare Gaudium et spes: uniti nell’essenziale, liberi nelle cose dubbie, diversi nell’esprimere in molteplicità di forme lo stesso vangelo (n. 92).
Sì, per noi, cristiani immersi nella cultura della postmodernità, a cent’anni dall’avvio del movimento ecumenico e a cinquanta dal Vaticano II, il dialogo ecumenico non dovrebbe essere dunque un’opzione fra le tante, da perseguire o meno a seconda delle stagioni, bensì la forma comune dell’essere cristiani oggi. La ricerca dell’unità, da parte dei cristiani, non andrebbe letta come una pura e semplice questione strategica, adottata per il conseguimento della forza ritenuta necessaria contro gli altri, i non cristiani o i (cosiddetti) non credenti. Come spiegò, definitivamente, Giovanni Paolo II nell’Ut unum sint: «L’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche appendice che si aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo» (n. 20).
La carne di Cristo
Diakonia è un termine del Nuovo Testamento che indica il servizio che i credenti in Cristo praticavano ai più poveri e bisognosi. È un campo che il dialogo tra le grandi comunità di fede non ha ancora arato appieno, eppure il terreno è fertile e, con un po’ di lavoro e di fiducia reciproca, si può immaginare di ricavarne frutti abbondanti. Qualche seme buttato qua e là ha già dato i primi esiti: pensiamo, ad esempio, all’azione ecumenica a sostegno degli immigrati; alle iniziative interreligiose di preghiera in cui ogni anno si ricordano i profughi morti nel Mediterraneo; alla concretezza con cui tante persone di diverse fedi si impegnano in scuole di alfabetizzazione o centri di accoglienza per migranti. Manca però, ancora, un quadro teologico nel quale collocare queste esperienze che, scollegate, perdono molto della loro potenziale efficacia. Non si tratta di rinunciare agli altri segmenti del dialogo, ciascuno dei quali ha il suo senso e la sua funzione: ma, qoheleticamente, ogni cosa ha il suo tempo, e questo è in primo luogo il tempo del servizio a migranti globali, uomini e donne che bussano alle nostre porte. Anche a quelle delle chiese, delle moschee, delle sinagoghe, e di ogni altra casa di Dio. È in questo contesto che papa Francesco si è spinto a sostenere, all’isola greca di Lesvos, il 16 aprile 2016, parlando agli abitanti impegnati da mesi in una faticosa azione di ospitalità verso i migranti: «Di fronte al male del mondo, Gesù si è fatto nostro servo, e col suo servizio di amore ha salvato il mondo. Questo è il vero potere che genera la pace. Solo chi serve con amore costruisce la pace. Il servizio fa uscire da se stessi e si prende cura degli altri, non lascia che le persone e le cose vadano in rovina, ma sa custodirle, superando la spessa coltre dell’indifferenza che annebbia le menti e i cuori. Grazie a voi, perché siete custodi di umanità, perché vi prendete teneramente cura della carne di Cristo, che soffre nel più piccolo fratello affamato e forestiero, e che voi avete accolto (cf. Mt 25,35)».
Brunetto Salvarani ci accompagna lungo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani con un medaglione quotidiano, nella rubrica «Unitatis redintegratio». È docente di Teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Dirige il movimento e rivista CEM Mondialità e la rivista trimestrale QOL (di cui è anche cofondatore), nata per dare voce alla ricerca biblica, al mondo dell’ecumenismo, al dialogo ebraico-cristiano. Dirige inoltre la collana della EMI Parole delle fedi. È membro del comitato editoriale della trasmissione Rai Protestantesimo.
boh non l’ ho ancora letto quindi non vi so dire