In occasione dell’assemblea della Conferenza dei religiosi e delle religiose francesi (Corref), p. Christoph Theobald ha svolto una relazione dal titolo: In una società “fessurata”, accogliere la trasformazione della vita religiosa (Lourdes, 21-25 novembre). La riprendiamo dal sito della Corref, ringraziando per il permesso accordato l’autore, partecipante al Sinodo sulla sinodalità, e sr. Véronique Margron, presidente della Corref.
Il titolo del mio breve intervento introduce la metafora della “frattura”: viviamo in una società con evidenti fessure (come una casa cadente) nella quale molte istituzioni e “forme di vita” implodono e mettono allo scoperto il desiderio di interiorità e il desiderio di una vita “sensata” e coerente di un buon numero dei nostri contemporanei.
È il nostro kairos: è in questa situazione – che chiarirò rapidamente – che possiamo accogliere e accompagnare la trasformazione di quello che chiamiamo globalmente “vita religiosa”. Più semplicemente: una vita comunitaria fondata, secondo la bella espressione di papa Francesco, su una «sequela ravvicinata di Cristo Gesù».
Ritorno all’immagine della metafora della “fessura” o della “breccia”. Essa mi permette di comprendere i due versanti intrinsecamente legati di questa “sequela ravvicinata di Gesù Cristo”.
Quando si leggono e si meditano i testi evangelici, si può essere trascinati dalle dinamiche del racconto, passando troppo rapidamente sopra le “aperture” o le “brecce” che, senza farsi notare, danno accesso all’intimità di Gesù. Per esempio, quando esce verso un luogo solitario o sale sul monte per pregare. La scoperta di questo aspetto nascosto del cammino di Gesù ci permette di entrare intimamente nel suo modo di percepire le “brecce” e le “fessure” dentro la Galilea del suo tempo e di rapportarci assieme a lui alle persone (malati, poveri, sani, cercatori di senso o no) come anche alle istituzioni della Galilea del nostro tempo.
Su questo dirò subito qualche parola per poi offrire una breve riflessione su come la vita religiosa può rimanere “sulla breccia” nella nostra Galilea delle nazioni. Terminerò con qualche riflessione su quello che io spero e su ciò che possiamo assieme sperare per il futuro.
Nella Galilea del nostro tempo…
Una costellazione spirituale: il desiderio d’interiorità e di una vita sensata e coerente. Richiamo alcuni fenomeni molto noti:
- Le spinte successive della secolarizzazione e la scomparsa progressiva del solco umanista in Europa, così come una consapevolezza più viva della pluralità delle nostre culture. Con la conseguente relativizzazione di tutte le convinzioni, trasformate in opinioni, e un pragmatismo di corto respiro.
- La frammentazione dei nostri itinerari nomadici che va di pari passo con la riconfigurazione di vecchi e nuovi miti (pensiamo ai film di Science-fiction).
- La legge del più forte si impone come schema di fondo della nostra civilizzazione mondiale, largamente dominata dalla finanza internazionale ecc.
Ben inteso, ci sono un po’ dappertutto delle resistenze, in particolare per evitare la distruzione della nostra casa comune, la terra. Le religioni vi fanno parte, ma nella nostra società laica trovano una crescente incomprensione oppure vengono strumentalizzate.
Una nuova costellazione spirituale sta emergendo. Indicherei tre elementi che permettono di individuare più precisamente le “brecce” e le “fessure” della nostra società. Sono “aperture” che manifestano oggi il desiderio di interiorità e di una vita coerente.
L’umanità abbandonata a sé stessa
Come mai è successo prima, l’umanità nel suo insieme è abbandonata a sé stessa, proprio in quanto “umanità”. Se l’umanesimo europeo non aveva alcun dubbio sull’eccezione dell’uomo nell’universo, noi postmoderni abbiamo cominciato a dubitare della frontiera esistente fra l’uomo e il regno animale, a dubitare delle nostre possibilità di assicurare alle sorelle e ai fratelli di domani un avvenire viabile e un pianeta abitabile. Una delle principali ragioni di tale situazione è la disarticolazione dei tempi. La nostra temporalità individuale, quella della società e quella delle azioni-reazioni del nostro pianeta non concordano e sono attraversate da innumerevoli conflitti.
Ciascuno di noi può ancora dire superficialmente tra sé: “le sanzioni della terra non le sperimenterò: dopo di me il diluvio”. Le nostre tradizioni religiose garantivano l’articolazione di queste scansioni temporali. Ora – ecco la prima “frattura” – tale articolazione non è più immediatamente assicurata e garantita. Nelle nostre società laiche e plurali essa dovrà darsi attraverso una “fede elementare” che non si riduce a una dimensione individuale, ma integra in sé anche la fiducia che è alla base di ogni legame sociale e politico e la speranza da porre sull’abitabilità del nostro pianeta per le generazioni future. Il ché mi induce al secondo argomento.
La coesione sociale affidata alla nostra “arte di vivere insieme”
Lo sconcerto e il frequente stress che, nella costellazione spirituale accennata, nascono dalla rinuncia degli esseri umani al loro desiderio di vivere individualmente e collettivamente, possono anche condurre ad avvicinare gli uni agli altri come risulta evidente nelle tensioni degli ultimi tempi. Pur avendo abbandonato il riferimento pubblico a Dio, le nostre società hanno mantenuto tuttavia il valore centrale della fraternità o «l’agire degli esseri umani verso i propri simili in uno spirito di fraternità», secondo l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Un valore che trascende dall’interno ogni legislazione e non cessa di ricordare il carattere altamente problematico della coesione sociale, costantemente messa alla prova dalla violenza.
È in questa “breccia” – si tratta sempre della stessa – che risuona l’appello ad “una nuova arte di vivere insieme”. Nella società civile si manifesta, ad esempio, nella vita associativa continuamente alimentata, calibrata sui molteplici bisogni sociali, da numerose iniziative, impegni, fondazioni e da ogni sorta di “luoghi terzi”… In questa “breccia” può nasce anche quello che papa Francesco chiama una «fraternità mistica e contemplativa» (Evangelii gaudium 92). «Vivere la mistica dell’incontro!» ci esorta nella Lettera ai consacrati (2015). Quando il riferimento a Dio perde la sua pertinenza o diventa luogo di malintesi, far percepire la profondità mistica che si nasconde nelle piccole manifestazioni di fraternità è senza dubbio il miglior modo di aprire l’accesso all’esperienza di Dio. Ed eccomi al terzo tratto.
L’implicazione di tutti nelle decisioni che tutti concernono
Le manifestazioni, spesso “alternative”, di un “arte di vivere assieme” sono molto distanti dalla logica politica che soffre globalmente di quello che si potrebbe chiamare uno “scisma verticale”. Le élites che governano la nostra società vivono a grande distanza dalla popolazione e dalle sue preoccupazioni e perseguono, in molti casi, i propri interessi. Per altro, la complessità dei processi decisionali è divenuta tale che questi sono largamente affidati a commissioni di esperti.
Di fronte a un mondo politico sempre meno trasparente, molti cittadini si ritirano progressivamente dallo spazio di partecipazione attiva che restava loro, senza per questo diventare passivi. È ancora la stessa “breccia” che si apre qui. Il desiderio d’essere implicati nelle decisioni che li concernano non è spento. Al contrario, esso non cessa di manifestarsi in maniere molto diverse, talora violente. Si può pensare, per esempio, ai gilets jaunes (giubbetti gialli) o alla fondazione di nuove associazioni, “luoghi terzi”… a cui ho fatto allusione. I nostri ordini, congregazioni, istituti, comunità hanno un’esperienza molto lunga di deliberazione e di partecipazione capitolare di tutti rispetto alle decisioni importanti. Un tesoro molto distante dalla maggior parte dei costumi politici delle nostre società e, tuttavia, poco noti al grande pubblico, anche dentro la Chiesa.
La Chiesa all’inizio di una nuova fase storica
Le tre caratteristiche che ho censito – l’umanità abbandonata a sé stessa rispetto al suo futuro, la coesione sociale delegata alla nostra “arte di vivere assieme”, l’implicazione di tutti nelle decisioni che tutti concernono – formano la costellazione spirituale della “nostra” Galilea e si presentano come condizioni attuali per un aggiustamento o una “reinvenzione” della Chiesa e, naturalmente, della vita religiosa.
Per quanto riguarda la Chiesa, essa è effettivamente all’inizio di una nuova fase storica. Laudato si’ e la sua ripresa in Laudate Deum (tratto a), l’importante enciclica Fratelli tutti (tratto b) e ora il Sinodo sulla sinodalità (tratto c) con quanto simili iniziative pontificie hanno suscitato, sono maniere per rendere l’Evangelo di Dio presente nelle fratture che si aprono nelle nostre “Galilee” di oggi.
Le difficoltà della vita religiosa. Chiesa e società fanno fatica a comprendere quello che siamo
Più difficile (comprendere) quello che chiamiamo “vita religiosa”. Non voglio dire che noi non siamo presenti nella costellazione spirituale della nostra società. Siamo sulla “breccia” in molti contesti; a fianco dei “più poveri” (non ne ho ancora parlato), dei rifugiati, degli immigrati ecc. Ma, sia la Chiesa sia la società fanno fatica a capire quello che siamo. Un quarto dei padri e delle madri sinodali (più numerosi riguardo ad alcuni continenti) sono dei religiosi. E tuttavia, relativamente alla vita religiosa, il documento di sintesi resta un testo molto esitante. Si percepisce un malessere persistente. Nella sua prima versione il capitolo decimo si intitolava “La dimensione carismatica della Chiesa” e trattava curiosamente e quasi esclusivamente della vita consacrata. Nell’ultima versione si intitola “Vita consacrata e associazione dei fedeli: un segno carismatico”. È la struttura carismatica della Chiesa che diventa la cornice per parlare della vita consacrata. In sintesi, la mia difficoltà è che la Chiesa continua a identificare la vita religiosa con uno o più “carismi” collettivi, in qualche maniera posti a distanza e spesso “utilizzati” per funzioni di supplenza, mentre la pastorale comune è largamente insensibile ai “carismi” individuali dei cristiani.
Un rilievo, senza dubbio troppo scarno, mi invita ad aggiungere due rapide osservazioni alla mia diagnosi “galilaica”.
Prima osservazione. Mi sembra che le nostre congregazioni religiose hanno fatto molto per partecipare il loro carisma ad altri – penso alla nozione di “famiglia”: famiglie francescane, domenicane, ignaziane ecc. Dopo il concilio, hanno saputo inscriversi con molta creatività nella cultura di militanza e di progetto. Ora, questo modo di procedere mostra il proprio limite, sia demografico sia culturale, e ci obbliga a interrogarci più profondamente su quello che siamo.
Seconda osservazione. Il desiderio di interiorità e di vita coerente nelle “brecce” della nostra società suscitano molti impegni, ma trova difficoltà a passare la soglia decisiva della durata: l’impegno “per sempre”. A questo non è interessata solo la vita religiosa, ma anche il matrimonio: due differenti forme di vita comunitaria, tutte e due di ordine carismatico e richiedenti un impegno a vita, una sorta di assegno in bianco come concretizzazione della nostra vita di battezzati. “Per sempre” è decisivo per il battesimo e per queste forme di vita perché, alla sequela di Gesù, testimonia il “per sempre” dell’impegno di Dio verso di noi e rispetto ad ogni essere umano, “succeda quel che succeda”!
La difficoltà di attraversare questa soglia dipende dal fatto che tale conversione presuppone una certa maturità umana, cioè la presa di coscienza, possibile a ciascun uomo, che c’è una sola vita che si può mettere in gioco tutta intera e liberamente, una volta per tutte … “con la grazia di Dio”. Passare questa soglia, inerente alla tradizione cristiana, non è più difficile oggi rispetto a ieri. Ma quanto ho detto della configurazione spirituale della nostra Galilea mette tale passaggio a nudo, in tutta la sua radicalità. L’attuale disarticolazione del tempo individuale rispetto a quello sociale e a quello della terra (prima tratto) e lo stress generalizzato conducono a un super-investimento nei nostri percorsi individuali e, soprattutto, rendono provvisoria ogni scelta.
Con questa diagnosi, ho già iniziato una riflessione di fondo sul modo d’essere della vita religiosa sulle “brecce” delle nostre Galilee d’oggi.
… stare sulla breccia
Mettere tutta la propria esistenza in gioco nella forma di vita consacrata non è possibile fuori di una “sequela più ravvicinata a Gesù Cristo”. Ciò significa: leggere effettivamente il racconto evangelico in noi, collocandoci nello stesso tempo sui due fronti, visibile e invisibile, del cammino di Gesù, avvicinandosi alla sua intimità e seguendolo passo passo sulle strade delle nostre “Galilee”.
Due tensioni
Due tensioni in particolare giocano diversamente nella storia della vita religiosa, orientando la lettura delle narrazioni evangeliche.
La prima si colloca nella vita contemplativa legata alla preghiera di Gesù “sul monte” e nelle dimensioni attive della vita consacrata, simbolicamente richiamate dalla “discesa” nella vita quotidiana. Sarebbe vano volerle separare, come se si potesse isolare l’una o l’altra sponda, nascosta e visibile, del racconto evangelico. Tuttavia, articolazione o dosaggi differenti sui due versanti sono esistiti e continuano a rinnovarsi. Il loro rapporto nel chiostro o nella casa, come nel lavoro o nell’itineranza, non è lo stesso, come del resto la loro maniera di ritmare il tempo o di gestire l’agenda, senza ignorare che questi due parametri essenziali nei nostri molteplici stili di vita, sono chiamati in ogni caso a reinventarsi giorno per giorno secondo le urgenze di Dio.
La seconda tensione riguarda il rapporto tra l’individuo e la comunità, l’antica e marcata distinzione fra eremo e cenobio. Va notato che la dimensione comunitaria non è assente neppure nell’eremita più rigoroso e che la solitudine segna in maniera essenziale la vita consacrata e religiosa, anche quando la scelta primaria è per la vita in comune, così fortemente messa in rilievo nel Nuovo Testamento e in molti fondatori e fondatrici.
Accogliere le trasformazioni
Mi sembra che le trasformazioni della vita religiosa da accogliere nelle “Galilee” del nostro tempo attraversino le due tensioni.
45 anni fa – al tempo del mio noviziato – c’era quello che si chiama un “modello” che ha giocato un ruolo decisivo nella mia scelta di entrare. Ero affascinato dalla diversità e dalla creatività di personalità forti incontrate nella vita religiosa. Poche di loro lasciavano trasparire le loro fragilità. La scoperta degli abusi ha fatto prendere coscienza dell’ambiguità di certe personalizzazioni.
Progressivamente, il versante comunitario della scelta religiosa, peraltro mai assente anche prima, si è rafforzato, con tutti i tesori deliberativi e di sinodalità prima evocati. Oggi è necessario precisare tale felice trasformazione. Rischiamo, infatti, di ridurre la vita comune a quello che facciamo o non facciamo più. Ciò di cui le nostre “Galilee” hanno maggior bisogno sono “visioni”, micro o macro visioni, nelle fratture della nostra società con le minacce apocalittiche che pesano su di esse. Tali “visioni” esprimono ciò che altri possono percepire come manifestazioni concrete e radicate di una fede elementare e – con la grazia di Dio – come inviti ad avvicinarsi alla fede cristiana. Ancora una volta, non si tratta anzitutto di un fare o di una teoria, ma di qualche cosa che altri possono vedere e comprendere. Il Vaticano II parlerebbe di “segno” che parla. Oggi l’ospitalità e la fraternità – una fraternità aperta e ospitale – è senza dubbio il segno per eccellenza per suscitare una fede nella vita e soprattutto una speranza.
Secondo la prima delle due tensioni accennate, tale segno si manifesta sotto due forme diverse. I monasteri dell’Europa restano luoghi molto frequentati con un’ospitalità aperta e continua dentro le nostre società in transizione, capaci di suscitare un intero immaginario utopico (Danièle Hervieu-Légier). Ma ci sono fra noi anche coloro che, pur avendo una casa dove abitare, sono piuttosto degli itineranti e, sotto molte forme, domandano ospitalità a quelli che incontrano.
L’insistenza sulla comunità, altra forma di esperienza del farsi comunione rispetto al matrimonio, non vuole suggerire che la formazione delle persone, delle personalità, non sia importante. Ma mi pare che la sfida principale di oggi sia quella di far trasparire concretamente che l’assegno in bianco firmato “una volta per tutte” quando si entra nella vita religiosa rende possibile una umanizzazione vera che attraversa evidentemente, come per tutti gli umani, le crisi e ogni sorta di fragilità che – auspichiamo – siano umanizzanti. È precisamente quello che i nostri contemporanei e molti cristiani non credono più, né nella vita religiosa, né nel matrimonio. È questo sguardo che noi dobbiamo rendere possibile oggi.
L’ars moriendi
Spero di aver messo a disposizione qualche criterio per il complesso discernimento che alcuni tra voi devono condurre per l’avvenire del loro istituto.
Nel nostro tempo, spaventato dal passaggio, ricordare che la vita religiosa appartiene all’ordine carismatico della Chiesa è decisivo. È proprio dell’ordine carismatico non potere istallarsi né fare il nido in quello che è dato oggi, perché il provvisorio ne fa intimamente parte (1Cor 7,29).
Ho ricordato, alla fine della mia diagnosi “galilaica”, la difficoltà di molti dei nostri contemporanei di prendere in considerazione impegni duraturi, per l’incapacità ad accogliere la loro vita come un tutto, lasciandosi condizionare dal “tutto provvisorio” che si è installato nelle nostre società, mettendo alla prova tutti i nostri itinerari personali e tutte le nostre istituzioni. Le nostre congregazioni religiose non sfuggono alla condizione comune. Ma la decisione del “per sempre” e l’interiorità di una donna o di un uomo di preghiera e di tutta una comunità in preghiera permettono di vivere tale “provvisorietà” in tutt’altra forma, sotto lo sguardo misterioso di un Dio della vita che permane.
Tale condizione necessita di un lungo apprendistato dell’ars moriendi (arte del morire). Talora essa conduce verso l’accettazione di una scomparsa, spesso verso cambiamenti e riforme di cui la nostra storia è così ricca di esempi. Peraltro, essa fonda la nostra obbedienza alla Chiesa. Perché non è il tale carisma o il tale istituto che ha ricevuto le promesse della vita eterna; ma è la Chiesa intera che ha ascoltato la parola del Signore « Io sono con voi… fino alla fine dei tempi» (Mt 28,20).
Ciò che spero
Per chiudere queste suggestioni devo riconoscere che, pur essendo felice nella mia vocazione, mi sento sguarnito davanti alla questione del futuro della vita religiosa in Europa e in Francia. Ma questo non mi impedisce di esprimere la mia speranza.
La Chiesa in apprendimento
Sono convinto che siamo già entrati in una nuova fase della storia della Chiesa dove essa sta apprendendo – e noi con essa – come rendere l’Evangelo di Dio effettivamente presente nelle “brecce galilaiche” che ho tentato di esprimere. Questo suppone che noi stessi siamo, comunitariamente e personalmente, in stato di apprendimento. Lo dico allo stesso titolo per tutti i battezzati.
Questa eguaglianza è il cuore della visione di una Chiesa sinodale in missione, come è desiderata dal Sinodo. Malgrado tutte le resistenze che si oppongono, si è avviata una mutazione irreversibile. Essa è sorgente di speranza, anche se la nostra generazione non vedrà la nuova figura di Chiesa che si sta delineando.
Funzioni suppletive, critiche e prospettiche
L’attuale situazione implica che la vita religiosa continui a rispondere, qui e là, alle urgenze, esercitando una funzione pastorale suppletiva, a condizione tuttavia che queste attività utili non occultino la funzione critica e prospettica che essa ha sempre esercitato nella storia. Funzione critica, quando una Chiesa locale e i suoi fedeli non si lasciano più condurre alla maniera di Gesù da un’esperienza interiore di Dio verso le fratture dentro le loro Galilea, rischiando di vivere la loro fede fuori contesto.
Ma noi sappiamo anche che, invece di avviare un discorso critico, è meglio aprire laboratori di futuro come la vita religiosa francese ha saputo fare significativamente lungo la sua storia. Oggi, non facendo forza su questa o quest’altra opera ma dando fiducia a micro- realizzazioni e ad un micro-clima per preparare cambiamenti profondi.
La messe è abbondante
Un’ultima parola. La sensazione di crisi che abita noi e la nostra società rischia di renderci incapaci di ascoltare la parola di Gesù indirizzata ai settantadue discepoli: «La messe è abbondante».
Nella mia diagnosi “galilaica” ho dato poca attenzione alla pastorale ecclesiale per il carisma specifico di ogni battezzato e la sua maturazione che richiede rispetto, accoglienza e formazione. Ora, il nostro avvenire dipende da tale maturazione dei cristiani e della pastorale ecclesiale e noi ne siamo contestualmente responsabili.
Certo, un o una “ospite” diventa stabile nei nostri confronti se realizziamo degli incontri effettivi. Ma questo suppone – lo ripeto – che la pastorale globale si interessi realmente al carisma di tutti e di ciascuno. È la mia “speranza… contro ogni speranza”. Che i nostri occhi si aprano nella Chiesa e possano vedere che anche nella nostra Galilea la messe è abbondante.