Studiando i presocratici, si presenta il tema del loro rapporto con la sapienza orientale e fa capolino la figura dei magi d’Oriente. Non troppo diversi, evidentemente, da quelli del racconto evangelico, che siamo abituati a rappresentare nel presepe.
E che dire della Prisca theologia del XV e XVI secolo, per la quale vi è un sapere teologico che sfida i millenni e che affonda le radici nell’antico Egitto con Ermete Trismegisto, in Persia con Zoroastro, nei Canti orfici, in Pitagora, in Platone, oltre che nei testi biblici e altrove?
Non mancano, questo sì, incertezze e ripensamenti: Giovanni Pico della Mirandola – com’è noto – che pure aveva sostenuto con tutto sé stesso il progetto della concordia universale delle dottrine e l’idea di un incontro a Roma fra i rappresentanti di tutte le fedi, di tutti i saperi e di tutte le filosofie volto a dimostrare le loro affinità e il carattere solo apparente delle divergenze sulle questioni di fondo (pur considerando il cristianesimo la loro espressione perfetta e compiuta), nell’ultima parte della sua breve vita arrivò a scrivere che gli antichi egizi e i caldei, incapaci di filosofare, avevano coltivato solo la superstizione.
Qualche decennio dopo, comunque, Agostino Steuco, biblista, vescovo e prefetto della Biblioteca vaticana, nonché avido lettore dei libri proprio di Pico, coniò l’espressione filosofia perenne, per indicare, appunto, la saggezza rivelata da Dio, in forme differenti, e nota all’umanità fin dai tempi più remoti, non solo mediante la narrazione biblica. I suoi testi, non a caso, verso la conclusione del Cinquecento finirono, come altri, nell’Indice dei libri proibiti.
E oggi? Sappiamo che, di tanto in tanto, il sapere muta i suoi paradigmi. Ed è sempre più difficile distinguere fra scienza e tecnologia, tanto che si parla ormai di tecnoscienza. Per non dire dei ritmi vertiginosi proprio del progresso tecnico: non per nulla è ora all’ordine del giorno la questione dell’intelligenza artificiale.
Potremmo tuttavia sostituire l’espressione “filosofia perenne” con una sorta di saggezza perenne. Ancora: un umanesimo dell’altro uomo e dell’altra donna, per dirla con Emmanuel Lévinas. Quella saggezza nutrita di esperienza, spirito dialogico, apertura all’altro o all’altra, pronta a rifuggire l’intolleranza. Capace di ascolto, mossa dalla curiosità per le cose, dall’interesse e dalla compassione per le persone, dal rispetto per le loro credenze religiose e dal desiderio di comprenderle davvero.
In fondo, i magi del racconto evangelico non erano (ancora) cristiani; provenivano da altri mondi, da universi religiosi diversi da quello ebraico. Al di là della loro scienza, possedevano un’ancor più profonda saggezza, tale da indurli ad aprirsi e a rendere omaggio a quel neonato che faceva irruzione nella storia. La loro era un’apertura all’alterità.
Tutto ciò, si badi bene, supera la semplice idea degli “uomini e donne di buona volontà”. In quella “saggezza perenne” non è solo la volontà a esser buona; vi è un’umanità corroborata dall’esperienza, dalle prove della vita, dalla cultura.
E Salvatore Veca citava ogni volta l’esempio luminoso di Matteo Ricci (1552-1610), il gesuita di Macerata che fece dell’evangelizzazione della Cina una grande prova di apertura e di dialogo. Egli evangelizzava più imparando che insegnando.
Ecco, forse la cifra della saggezza universale è proprio l’apprendimento permanente. Un apprendimento innanzitutto di natura emotiva.
La buona volontà degli uomini non è la volontà del fare, ma la buona intenzione che mettono nelle loro azioni, è la tensione al bene attiva. A loro “pace in terra” cantano gli angeli, al di là del risultato che ottengono quello che conta è l’intenzione di bontà.