Diario di guerra /26. Gli Houti

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La guerra, giorno per giorno, si espande minacciosamente e così, sulle pagine del mio diario, gli argomenti si intrecciano. Il reticolo dei problemi è assai aggrovigliato e gravato di strumentalizzazioni. La scarsa memoria o la inevitabile, esigua, conoscenza della storia contemporanea del Vicino Oriente allontana la possibilità di capirci qualcosa. Ma occorre provarci.

Ora a fare notizia sono gli Houti: chi sono? Sono così detti dal nome del loro leader. Ma risultano   meglio comprensibili come Ansar Allah, cioè Partigiani di Dio. Come in tanti altri casi in Medio Oriente anche qui c’è una idea religiosa fondamentalista – usata secondo i propri fini ideologici – di mezzo. Mettendo in pericolo la libera navigazione nella giugulare dei commerci mondiali non fanno poco, sebbene qualcuno sostenga che i loro «barchini» costituiscano una minaccia risibile. Anche il partito di Hamas è stato spesso sottovalutato. Per non dire poi di altre milizie filoiraniane.

La passione degli Houti è il cambiamento dello Yemen: impegno mutevole, come la loro storia.  Presero parte alla primavera yemenita del 2011, contro il despota filosaudita, Ali Saleh. Poi i loro rapporti con l’Iran si accrebbero e, quando i sauditi scaricarono Saleh, si allearono proprio con lui contro il nuovo governo, per poi arrivare ad eliminarlo – fisicamente – posti i suoi tentativi di tregua con i sauditi.

Sono emersi, poi, in questi ultimi anni, nella complessa relazione tra l’amministrazione Biden e l’Iran. Ora, dopo essere stati tolti dalla lista delle organizzazioni terroristiche stilata proprio da Washington, si trovano sotto i missili della coalizione anglo-americana.

La loro condotta dimostra quanto non sia stato capito, da parte occidentale, non tanto di loro stessi – gli Houti – quanto dell’Iran. Se Tehran non vuole immolarsi per Hamas, come ha, sin qui, indubitabilmente dimostrato, come spiegare l’azione degli Houti, di certo aiutata da Tehran? Un conto è colpire basi americane in Siria o in Iraq, altro conto è mettere in crisi la giugulare del commercio mondiale: la seconda opzione è decisamente la più incidente! E Gaza, a dire il vero, mi sembra che c’entri poco.  Non a caso sulla condanna in sede ONU delle azioni degli Houti, né Russia né Cina hanno esercitato il loro diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza. Di certo, però, gli Houti hanno tratto risalto mondiale. È questo che a loro basta ed orienta? Non penso.

Certo, decifrare le scelte tattiche di Tehran è sempre un lavoro complesso. Ma, oggi, mi sorprende la difficoltà di leggere ciò che dovrebbe facilmente letto, perché relativo a noi stessi, occidentali, con le nostre attenzioni e priorità informative; e poi anche per capire gli arabi del Golfo e quindi Israele.

“Innamorarsi” e prendere parte con gli Houti è un effetto curioso, ma, evidentemente, possibile: appartiene al portato di una lettura che, a mio avviso, non distingue cause reali e profonde – come l’evidente discriminazione degli sciiti nella Penisola Arabica – da strumentalizzazioni evidenti. Gli Houti inoltre sono di una confessione sciita diversa quella iraniana.

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Ma intanto noi – nel nostro Occidente – come guardiamo alle vittime? In questi giorni uno studio sui disturbi psichici prodotti sui bambini di Gaza – e non solo – dopo 100 giorni sotto bombardamenti di una tale violenza ed intensità non ci riguarda?  La cosa fa orrendamente il paio con la leggerezza con cui si è prestata attenzione alle violenze sessuali subite durante – e forse dopo – il pogrom del 7 ottobre da tante donne israeliane.

Ci interessa interrogarci, seriamente, sulle conseguenze? Il trauma delle prime si ripercuote su quella società, e a Gaza si deve necessariamente parlare di una generazione perduta. Parliamo di un numero enorme di minori. Come cresceranno?  Chi saranno, domani?

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Il bell’articolo di Giordano Stabile su La Stampa circa l’interpretazione del conflitto tra Nord e Sud del mondo in riferimento alla questione del genocidio – quanto risuona questa parola nelle orecchie di tanti cittadini del Sud del mondo, vittime di azioni di cui i colonialisti sono stati complici o responsabili! – ci dice che le vittime innocenti sono sempre tali, sempre. E sono tante.

La storia è davvero terribile. Fa soffrire anche solo il raccontarla. Ben per questo, il racconto – in questo caso il nostro racconto – non può esser fatto aderendo, sempre e comunque, a una sola idea di fondo. Occorre vedere – con gli occhi negli occhi – dalle fessure delle opposte staccionate, per non dire, trincee.

Che esista un progetto fondato sull’odio e che alberghi a Tehran oggi è indiscutibile. La sua sconfitta, a mio avviso, è politica. Ma anche qui la rimozione delle vittime, che sono gli iraniani, colpisce. Così come non può essere negato che entrambi i protagonisti della contesa israelo-palestinese abbiano commesso errori.

Il professor Jean Pierre Filiu, in un articolo molto interessante apparso su Foreign Affaires, ha ricordato che Ariel Sharon – quindi non certo un moderato – propose, nel 1974, di far ritornare in Israele da Gaza, almeno simbolicamente, un numero di rifugiati palestinesi – espulsi nel ‘48 – e stimato in qualche decina di migliaia. L’idea non fu seguita, dopo che il governatore israeliano di Gaza presenziò all’inaugurazione della moschea dei Fratelli Musulmani guidati dallo sceicco Yassin. Quando nel 1987 l’Intifada trasformò la linea dell’OLP, costringendolo ad accettare l’ipotesi dei due Stati, lo sceicco Yassin fondò Hamas per combattere il «tradimento del sacro dovere di liberare tutta la Palestina», ma, per arrestarlo, si attese il 1989.

Sull’altro versante, la storia degli attentati estremisti palestinesi – che ovviamente intendevano ostacolare il dialogo – risale agli stessi giorni della visita a Gerusalemme di Sadat, ed è sempre stata pronta a riemergere alla bisogna.  Poi, tra molto altro, come non ricordare la catena degli attentati-suicidi, quando Arafat e Rabin stavano cercando l’intesa definitiva?

Un grande intellettuale arabo, cristiano e progressista, Samir Kassir, ha scritto pagine importanti per affermare che il fenomeno degli attentatori suicidi, introdotto dalla novità khomeinista, è estraneo alla storia islamica. E, restando a quegli anni, come dimenticare, di converso, l’assassinio del premier israeliano, Rabin, da parte dell’estremista israeliano Yigal Amir?

Sono fatti noti: ricordare serve anche per dire che non si arriverà mai all’estinzione di chiunque non voglia il “compromesso” – parola nobile e decisiva – che può trovare forza solo da un’agenda che non anteponga le emozioni, o l’interesse nazionale, ma quello regionale, riconoscendo nel compromesso la soluzione migliore per tutti. Il Medio Oriente può tornare terra di mezzo tra Europa e Asia, e per farlo ha bisogno della accettazione reciproca dei diritti di tutte le varie componenti. Lo sforzo di costruire una visione comune richiede di dirsi, coraggiosamente, gli errori, vicendevoli, del passato.

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Per uscire da questa guerra, ora la Cina propone una Conferenza internazionale di pace. La prima impressione non può che essere positiva. Ma con quale possibilità di riuscita se, prima, o nel mentre, non si incontrano i rispettivi racconti e le rispettive aspettative? Per questo occorre riconoscersi, con gli errori e le necessità della storia.

Su Gaza, un tempo un’oasi, il punto decisivo resta quello della terra: un terra – per natura geografica e per vocazione storica – di passaggio, da millenni. Gaza non può essere un muro invalicabile. Per dare un futuro a questa terra – con la dovuta dignità alla vita umana in Gaza – bisogna riconnettere i mondi, o semplicemente il mondo. È la vocazione di questa antica oasi, Gaza.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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