A Mons. Luigi Sartori (1924-2007).
Nel centenario della sua nascita,
con stima e gratitudine per la sua cordiale amicizia.
Ospiti e zucche svuotate
Il percorso della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ci spinge quest’anno, noi dell’emisfero boreale, a spostarci verso quello australe e precisamente nel Burkina Faso. Il primo gesto che suggerisco per vivere questo kairòs ecumenico è quello di consultare un mappamondo o carta geografica del pianeta muovendo il dito, come facevamo da bambini, o il cursore dalla propria città verso questo lembo di terra dell’Africa occidentale nella regione del Sahel. Sarebbe anche importante farsi un’idea non solo della situazione religiosa di questo paese con 21.000.000 di abitanti (circa 64% mussulmani, 9% religioni tradizionali e restante 26% cristiani di cui 20% cattolico e 6% protestante)[1] ma anche della sua situazione politica, economica e culturale.
Muovere il dito ovvero esercitare il tatto sulla superfice liscia e patinata di una carta geografica non fa poi tanto male, ancora meno se a muoversi è un cursore sul display di una pagina web. Sarebbe importante allora esercitare anche un’altra funzione sensoriale, l’udito, andando in cerca nella nostra città di eventuali persone oriunde di quel paese africano.
Questo secondo passo ci permetterebbe di ascoltare dal vivo la narrazione del gesto rituale di accoglienza e condivisione praticato nella loro cultura: porgere agli ospiti una zucca/recipiente da cui attingere acqua per dissetarsi, ovviamente una sola zucca da cui tutti attingono questo prezioso dono, così scarso nell’area del Sahel. In terza battuta e in simultanea con questo ascolto potremo certamente esercitare un’ulteriore funzione sensoriale, la vista: vedere non in via virtuale ma in presenza il volto di chi ci parla.
In questo incontrare i volti si ripropone una pagina profetica del teologo urbinate Italo Mancini (1925-1993) che nel 1989 dava alle stampe un saggio dal titolo programmatico: Tornino i volti: a 30 anni appena trascorsi dalla sua morte questa visione risulta essere evangelicamente profetica. Il volto dice presenza e assenza dell’altro, è nostro prossimo e ci è sottratto nella sua benedetta alterità che il nostro io non può fagocitare. Riconosciuto nell’unicità del suo volto non è escluso che poi con l’altro diventato prossimo si possa decidere di mangiare qualche cosa insieme e così entrano in scena anche il gusto e l’odorato. Per finire con un abbraccio e una stretta di mano, questa volta il tatto entra in presa diretta. Nell’eventuale incontro con queste persone del Burkina Faso avverrebbe un evento cinestetico (fatto di movimento e di sensorialità) con un gesto rituale al centro. Un sacramento?
Questa breve narrazione vuole solo propiziare ciò che spesso invece mettiamo tra parentesi e che, così facendo, rende tutto troppo prevedibile, sotto controllo e tremendamente noioso: l’incontro concreto con l’altro/a. Il primo gesto ecumenico, come suggerisce il significato della parola, è quello di rendere abitabile all’altro la propria terra e viceversa da parte dell’altro abitabile la sua. Niente di meccanico o automatico ma, se lo si vuole, una abitabilità nel segno dell’ospitalità: ospitare le parole dell’altro, i suoi gesti, i suoi sguardi e silenzi, la sua storia richiede a ciascuno di essere prima «zucche svuotate» per diventare «preziosi recipienti» colmi dell’acqua che disseta e vivifica.
E l’acqua non la creiamo noi ma viene accolta e raccolta, già esiste ed è lì per te e per me, anzi per noi. Se anche l’altro si esercita nel fare vuoto per ospitare chi incontra avviene un passaggio misterioso, attraverso il gesto di un po’ d’acqua condivisa, tra due storie: la mia può diventare la tua e la tua la mia. L’acqua nella zucca/recipiente fa da ponte per esprimere questo legame simbolico che penetra nel profondo della storia dei due (o più) permettendo la nascita di un noi, un legame appunto.
Le relazioni umane quotidiane nel nostro mondo occidentale sono vissute sotto il segno della difesa, della sicurezza, della privacy. La proposta della settimana di preghiera, prendendo le mosse dal gesto ospitale dell’attingere acqua dallo stesso recipiente (la zucca svuotata), va in effetti controcorrente. Un gesto che chiede legami e legami di ospitalità e condivisione. E così dal Burkina Faso ci viene proposta una prima elementare esperienza ecumenica: relazioni in cui riconoscersi diversi ma accomunati dallo stesso desiderio di vita.
Acqua e Spirito Santo
L’acqua nella Bibbia conosce a livello semantico tanti livelli di profondità. Nel Vangelo di Giovanni, proprio per essere simbolo ambivalente connaturato alla vita e alla morte (si ricordi il Mar Rosso), l’acqua è simbolo dello Spirito Santo. Questa vita, quella divina, scaturisce misteriosamente dal costato di Cristo morente, insieme al suo sangue. Gesù aveva preannunziato, parlando enigmaticamente di sé, di fiumi di acqua viva che sarebbero scaturiti dal suo seno (cf. Gv 7,38) utilizzando una metafora tutta femminile nella linea VT della ruach donatrice di vita che viene dall’alto, da Dio. Dallo svuotamento di Cristo scaturisce l’acqua della vita nuova che genera i figli di Dio.
Appartiene proprio all’acqua nelle ritualità di tante religioni la valenza purificatrice e di rinnovamento, di morte e di vita. Mi sembra una bella scelta quella di partire da una «zucca svuotata» del suo contenuto vitale per fare posto all’acqua come nuovo contenuto vitale, quasi una parabola viva del movimento dalla natura come sostentamento per la nutrizione alla cultura come luogo di elaborazione di una dinamica che può andare oltre le leggi primarie della sopravvivenza e aprire lo spazio tutto umano della condivisione e ospitalità.
Più di una volta mi è capitato che l’altro/a si ponesse nell’atteggiamento arrogante e della pretesa. Entra in scena la violenza. Non ci siamo. Deve ancora essere fatto il passo che dal capriccio diventi riconoscimento del vero bisogno e poi passi al desiderio di una relazione buona e questo non si può comandare o pretendere, si può solo suscitare e attendere che maturi. Se l’acqua donata diventa oggetto di pretesa da una parte o dall’altra, il simbolo si rompe e si passa ad altro, alla legge del più forte tipica delle relazioni tribali. La violenza aleggia sulla parabola lucana che dà luce quest’anno al percorso della settimana di preghiera: il Buon Samaritano che soccorre con compassione il «mezzo morto» derubato dai briganti.
Un uomo della Samaria e un mezzo morto
All’incrocio di questo gesto evocativo simboleggiato dalla zucca/recipiente si colloca il brano evangelico scelto come icona biblica per questa settimana di preghiera, il brano lucano della parabola del Buon Samaritano (cf Lc 10, 25-37), in corrispondenza con la narrazione dell’accoglienza dei misteriosi ospiti a Mamre da parte di Abramo e Sara (cf. Gen. 18,1-8: prima lettura proposta per la veglia).
Il testo lucano esonda di commenti esegetici e da J. P. Meier, nella sua disanima storico-critica delle parabole gesuane, non viene censita tra quelle attribuibili al Gesù storico. Insomma siamo davanti ad una sintesi lucana di uno dei tratti portanti del compimento del tempo della salvezza nella storia concreta di Gesù di Nazareth. Il background rimette in gioco la storia d’Israele nelle due linee portanti della Torah, l’amore a Dio e quello al prossimo. Il tutto offerto come risposta di Gesù ad uno scriba che lo interroga sul comandamento principale della Torah per accedere al dono della vita, quella di Dio stesso.
Siamo nello spazio di una disputa teologica con risvolti molto pratici come a dire che per andare alla meta (la vita di Dio) occorre vivere nella prassi del rapporto con il prossimo il comandamento dell’amore che si ha verso sé stessi.
Tre campi si presentano: Dio, il prossimo e il proprio io. L’esito della narrazione lucana di questo incontro non si conclude solo con una risposta esatta (il grande comandamento amplificato in due direzioni) sulla quale sia lo scriba che Gesù convergono ma con il racconto della parabola. È Gesù a riprendere la parola. Al centro della vicenda narrata, molto verosimile ad un fatto di cronaca capitato in quelle strade tra Gerusalemme e Gerico, c’è un «mezzo morto» (sic!) e un Samaritano che si fa soccorritore ultrapremuroso.
Chi l’avrebbe detto, ma questo è tipico dello stile lucano, che lo scriba debba andare a scuola da un eretico, il Samaritano appunto? Il nodo si scioglie solo facendo quello che fa il Samaritano: «Va e comportati allo stesso modo (oppure: Va e anche tu fa così)». Nella prassi soccorritrice del Buon Samaritano si trova la svolta alla domanda dello scriba che è in tutte le Chiese cristiane. Occorre passare dalla ortodossia alla ortoprassi. Poveri noi per come siamo assuefatti alla vita borghese del mi piace e non mi piace. Che forte provocazione per tante aree del cristianesimo occidentale avvitate nelle loro dispute ma incapaci di vedere la realtà che grida il suo bisogno ai «sacerdoti e leviti» del culto ufficiale del nostro tempo.
Gesù e noi
Ma chi è Gesù nella parabola? Il Samaritano o il mezzo morto? Lasciamo la domanda aperta. Del Samaritano, ricordato appunto come buono, si mette in luce un tratto che lo fa così simile al Gesù di Luca: «Lo vide e ne ebbe compassione». La compassione risulta essere il filo rosso che collega il Dio di Abramo e di Gesù alla storia di tutti i giorni, la compassione è il tratto gesuano che meglio ci restituisce il suo amore per … la sua proesistenza. Ma anche il «mezzo morto» ci porta diritti a Gesù morente sulla croce che grida la sua sete.
Non se ne esce: Gesù è il tutto dell’amore: quello di Dio verso di noi, di noi verso Dio, verso sé stessi e verso il prossimo. Allora il dito che abbiamo lasciato scorrere sulla cartina alla ricerca del Burkina Faso non potrà che lasciare il posto ad una vita convertita dall’amore e all’amore quale via maestra per l’unità dei cristiani. Un po’ naif e poetico?
A ben vedere spesso ci troviamo, almeno potenzialmente nei panni del Samaritano, ma preferiamo quelli del sacerdote e levita che passano oltre. Oppure siamo anche nei panni del «mezzo morto» ai bordi della strada, scaricati da tutti e non abbiamo neanche la voce per chiedere aiuto. Chissà che qualcuno ci veda non per darci il colpo fatale ma per esercitare una compassione che viene da lontano e che lo Spirito di Dio ha messo nel cuore dell’uomo.
Mi sembra che il Buon Samaritano con la sua premura e compassione ci faccia uscire dal registro della prestazione e dell’autocompiacimento per entrare in quello della cura, un registro dimesso nella nostra cultura ma che tanti profeti, uomini e donne di ogni credo, ci riportano sotto gli occhi senza cedere ad infingimenti pseudopoetici o addirittura semplicistici. «Va e anche tu fa lo stesso».
È il fare della compassione, del patire insieme, del prendere parte fattivamente alla storia dell’altro, facendo vuoto dentro sé stessi. La prossimità come cifra di una nuova stagione ecumenica! Possiamo tornare a bere insieme dalla «zucca svuotata» divenuta recipiente per l’acqua.
Una perla, quasi un viatico per questa nuova stagione ecumenica tra i cristiani nella comune missione per il mondo, mi sembra racchiusa nel breve testo di una grande teologa contemporanea, Dorothee Sölle (1929-2003).
Non credo al diritto dei più forti, al linguaggio delle armi, alla potenza dei potenti.
Voglio credere ai diritti dell’uomo, alla mano aperta, alla potenza dei non-violenti.
Non credo alla razza o alla ricchezza, ai privilegi, all’ordine della forza e dell’ingiustizia: è un disordine.
Non credo di potermi disinteressare a ciò che accade lontano da qui.
Voglio credere che il mondo intero è la mia casa e il campo nel quale semino, e che tutti mietono ciò che hanno seminato.
Non credo di poter combattere altrove l’oppressione, se tollero l’ingiustizia qui.
Voglio credere che il diritto è uno, tanto qui che altrove, che non sono libero finché un solo uomo è schiavo.
Non credo che la guerra e la fame siano inevitabili e la pace irraggiungibile.
Voglio credere all’azione semplice, all’amore a mani nude, alla pace sulla terra.
Non credo che ogni sofferenza sia vana.
Non credo che il sogno degli uomini resterà un sogno e che la morte sarà la fine.
Oso credere invece, sempre e nonostante tutto, all’uomo nuovo.
Oso credere al tuo sogno, o Dio, un cielo nuovo, una terra nuova dove abiterà la giustizia.
Mario Florio è docente di Teologia dell’Ecumenismo presso l’ISSR Italo Mancini di Urbino
[1] Si veda il sussidio per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 2024, pubblicato da EP e Centro Pro Unione, p.10. Per la preparazione del sussidio e il suo iter a cura del Gruppo ecumenico locale del Burkina Faso coordinato dalla Comunità locale Chemin Neuf, cf. ibid, pp. 10-20.
Nella veglia di preghiera della diocesi in cui vivo il “segno” dell’accoglienza e dell’ospitalità è stato modificato e sostituito da thermos di tè e biscottini, offerti ai fedeli presenti in chiesa. Questo cambiamento è stato motivato col fatto che le zucche svuotate nella mia parte d’Italia richiamano le teste degli alunni poco brillanti e le ritualità pagane di Halloween.
Ottimo! I simboli variano da cultura a cultura.
La riabilitazione delle zucche dal modello Halloween rimane una ironica provocazione.
Il brano di Dorothee Sölle rappresenta bene la speranza contro ogni speranza. Sperare prima ancora che amare è il compito del cristiano. Saper dare speranza è un’azione divina perché chi non spera in un mondo migliore non può amare davvero.