Enrico Mottinelli, laureato in Pedagogia e in Filosofia, è autore di saggi dedicati alla memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa tra i quali Il silenzio di Auschwitz (2018). Per Mimesis, ha recentemente pubblicato Auschwitz e il futuro della memoria. Dall’era del testimone all’era del credente. In occasione del Giorno della Memoria 2024, Giordano Cavallari lo ha intervistato.
- Caro Enrico, cosa sta cambiando col venir meno dei testimoni diretti della Shoah?
Il tema della fine della generazione dei testimoni della Shoah, che tra parentesi designa sempre le vittime sopravvissute, sebbene non siano le uniche figure protagoniste della tragedia, viene dibattuto da almeno trent’anni. Si tratta in definitiva di decidere se e in che modo la memoria di quell’evento ci riguardi o sia solo una questione tra le vittime e i carnefici, destinata, in questo caso, a esaurirsi con la loro inevitabile scomparsa.
La fine dei testimoni ci priverà della loro presenza fisica. Dal punto di vista umano non è un dato trascurabile. Affronteremo un lutto, come è avvenuto per i molti che già sono scomparsi: da Primo Levi, per citare uno dei testimoni più rappresentativi, in poi. Ma dal punto di vista del contenuto di cui sono stati e sono portatori i testimoni, non dobbiamo temere nulla. I libri di Primo Levi, per restare all’esempio, mantengono intatta la loro forza e la loro densità, imprescindibili ieri, come lo sono oggi e lo saranno domani. Grazie alla generosità di queste persone, che spesso hanno dedicato la loro vita al faticoso e doloroso compito del ricordo, possiamo contare su una quantità ormai molto vasta di documentazione e di testimonianze.
Semmai aumenta la nostra responsabilità di contestualizzazione delle testimonianze, perché diventino più comprensibili ed eloquenti: il che implica coltivare la ricerca e l’approfondimento.
- Nel libro tracci una precisa scansione, una ripartizione articolata dei tempi della testimonianza: vuoi anticiparla?
La periodizzazione della storia della memoria della Shoah presentata nel libro è debitrice della traccia proposta da Annette Wieviorka, trent’anni fa, nel suo L’era del testimone. Qui ho ampliato il discorso permettendomi di aggiungere alcuni passaggi. In estrema sintesi, gli spartiacque temporali di questo percorso sono la fine della guerra (1945), il processo Eichmann a Gerusalemme e i cosiddetti processi Auschwitz di Francoforte (anni Sessanta), la messa in onda della miniserie televisiva Holocaust (fine anni Settanta-primi anni Ottanta) e la diffusione delle grandi narrazioni cinematografiche degli anni Ottanta e Novanta, da Shoah a Schindler’s List, e infine l’istituzionalizzazione della memoria, con la proclamazione del Giorno della Memoria da parte dell’assemblea dell’ONU (2005). Il prossimo passaggio cruciale sarà costituito, appunto, dalla scomparsa della generazione dei sopravvissuti. A ognuno di questi passaggi corrisponde una diversa percezione del testimone, passato dall’essere ignorato al divenire una sorta di profeta cui è stata demandata la eccessiva responsabilità di esprimere tutta la «verità» della Shoah.
- E i testimoni-carnefici?
Sulla testimonianza dei carnefici il discorso si fa più complesso. In linea generale, ne possediamo poca, sebbene abbiamo a disposizione alcune testimonianze peculiari, penso a quelle dei comandanti SS di Auschwitz e di Treblinka, Höss e Stangl, ma anche di altri. Si tratta, però, di narrazioni fatte perlopiù in contesti giudiziari, con tutte le implicazioni del caso. Quella che ci manca è la testimonianza dei carnefici comuni, quella spontanea e genuina di chi parla di ciò che fa mentre lo sta facendo, senza il timore di doverne rispondere davanti a un tribunale.
Questo tipo di testimonianza sarebbe stata preziosissima per entrare nel clima in cui si è potuto commettere quel tipo di crimine. Ci avrebbe fatto capire qualcosa di più della questione conturbante di come sia stato possibile che persone comuni si siano trasformate in assassini. E ci avrebbe fatto capire maggiormente per quali vie sia stato costruito il consenso intorno a quella violenza.
Dobbiamo fare i conti, invece, col fatto che questo tipo di testimonianza non c’è stata e né ci sarà più. Possiamo solo desumere qualcosa rincorrendo qua e là frammenti e riflessi di quel contesto. Sostanzialmente su quella esperienza è calato un silenzio ferreo tra la popolazione tedesca del dopoguerra: per codardia, per continuità di adesione all’ideologia nazista, perché pensava di aver agito per il meglio, o per altro ancora, ma soprattutto per l’intima convinzione di non aver fatto nulla di male, anzi, di aver rispettato, con disciplina, la legge dello stato e, con questo, sollevare la propria coscienza da ogni responsabilità. Non c’era nulla di cui pentirsi, nulla di cui scusarsi, nulla da rimproverarsi. Che siano stati commessi crimini lo hanno deciso i vincitori, come capita sempre alla fine di ogni guerra: chi perde ha torto e non gli rimane che il silenzio.
Tuttavia, oggi possiamo dire che la Germania ha trovato la strada per confrontarsi seriamente col proprio passato.
- Un capitolo del libro è dedicato al caso dei testimoni-scrittori. Perché la loro testimonianza sarebbe diversa?
La caratteristica dei testimoni-letterati è quella di aver organizzato la propria narrazione in un testo organico, coerente ed espressivo. Hanno dovuto perciò selezionare gli eventi, trarne un senso compiuto, intrecciarli tra loro seguendo un filo narrativo; trovare espedienti retorici per trasmettere al lettore qualcosa di un’esperienza di per sé inaccessibile. Lo hanno fatto perché il loro messaggio si fissasse nelle menti e nei cuori di chi un giorno avrebbe letto, anche in un futuro molto lontano. Erano dei deportati, già scrittori o alle prime armi, di diverse età e di diversi livelli di maturazione artistica. Non c’è dubbio che dobbiamo soprattutto a loro le sensazioni più vivide legate alla vicenda, segno evidente della forza comunicativa della letteratura.
- Le testimonianze hanno pure loro categorie di narrazione. Puoi fare un «fuoco» su quelle filosofico-religiose?
Una testimonianza su tutte ha portato la narrazione sul piano simbolico, se non espressamente metafisico, di impronta religiosa: quella di Elie Wiesel. Non si può non citare il suo capolavoro, La notte, con l’immagine, che tutti coloro che lo hanno letto conservano ben viva, del bambino appeso alla forca e indicato come figura dell’impotenza di Dio. O, anche, la sua arditissima richiesta, quasi urlata al cielo, di una giustificazione di tanto scempio, ma sostenuta da argomentazioni che devono essere più «convincenti» di quelle portate dal testo biblico per placare la ribellione di Giobbe. Stavolta, sembra intimare Wiesel, Dio non se la caverà facilmente, perché l’offesa è troppo grande e devastante: una ingiunzione o una sfida lanciata al buio, perché la risposta razionale è impossibile e la sua eco è solo il silenzio, cifra specifica della narrazione wieseliana. Tutto l’orrore, tutto il senso di ingiustizia, tutta la ribellione, la sfiducia o la speranza si disperdono nel silenzio siderale del Dio che tace, che è assente, in un cielo vuoto come quello «precedente» la creazione.
Anche Primo Levi ha richiamato, a suo modo, qualcosa di altrettanto radicale ne I sommersi e i salvati pensando ai primi versetti del libro della Genesi: «l’angoscia inscritta in ognuno del tòhu vavòhu, l’universo deserto, vuoto».
- Tu ci metti in guardia, oggi, da un certo modo di ricordare o di celebrare il Giorno della Memoria.
Non so se esiste un modo giusto di celebrare il Giorno della Memoria. O almeno io non lo conosco. Ognuno lo fa nel modo che ritiene più opportuno. Rilevo soltanto una tendenza, che mi pare sia andata accentuandosi nel tempo, ossia quella che privilegia il registro emotivo e compassionevole, piuttosto di quello conoscitivo. Credo che ciò sia una delle conseguenze dell’era del testimone, come ho cercato di illustrare nel libro. Non so se questo sia un errore o un modo sbagliato, temo solo che il punto di caduta possa essere la saturazione e il rigetto, perché le emozioni emozionano, appunto, ma dopo un po’ sfioriscono e se ne cercano altre.
- Qual è, allora, la memoria che ci serve o che ci cambia?
Forse la memoria utile e costruttiva è quella che riesce a mostrare, nello specchio del passato, la nostra immagine in cui riconoscerci. Fare memoria della Shoah dovrebbe portare a misurare quanto e come quella vicenda può riguardarci, non perché abbiamo responsabilità dirette per quello che è avvenuto allora, ovviamente, bensì perché, più o meno consapevolmente, rischiamo di rimettere in moto meccanismi sociali, culturali, economici e politici assai simili a quelli che hanno condotto alla catastrofe. La memoria buona, se così vogliamo chiamarla, è quella che tiene viva o che risveglia la nostra consapevolezza del presente. Non abbiamo a disposizione altra strada che non sia osservare il passato, conoscerlo, approfondirlo, discuterne e riflettere.
- L’era del credente di cui scrivi già nel titolo, dunque, cos’è?
L’era del credente, come l’ho definita per distinguerla dall’era del testimone – che si sta avviando alla conclusione – rappresenta il tentativo di conferire un profilo a ciò che ci attende. Sarà solo il tempo a dire se è una definizione adeguata o no. A me pare che ci siano segnali sufficienti per poter sostenere che, dopo i testimoni, difficilmente avremo l’era degli studiosi, o dei ricercatori. Avremo piuttosto il tempo dei testimoni dei testimoni, di coloro che riterranno di dover raccogliere l’eredità dei testimoni per tenerne viva la voce, come discepoli che avvertono il dovere di perpetuare l’insegnamento di un maestro: un passaggio di consegne che è tipico delle religioni. Da qui la definizione di credenti.
Vorrei però precisare che non si tratta di stigmatizzare le scelte compiute da singole persone, bensì un atteggiamento che a ognuno di noi può capitare, più o meno consapevolmente, di adottare. Dopotutto siamo tutti figli dell’era del testimone, non possiamo pensare che non ci riguardi. Possiamo però immaginare una nuova stagione per la ricerca storica e per la memoria.
La memoria del passato e: giusta ma dobbiamo vivere nel presente: e oggi nel nostro presente a essere sterminati sono i palestinesi, soprattutto civili ,donne e bambini, verso i quali non c’ e’ nessuna pieta’ ma solo distruzione.
A volte sembra che gli ebrei pensino di essere solo loro le ” vittime” certificate della Storia e non si accorgono di quante vittime ci sono nel presente e che il comportamento dell’attuale governo di Israele e’molto simile a quello del nazifascismo.
Nessuna pieta’ per gli altri ,nessuna compassione . Come possono poi pretendere che si abbia compassione per loro ? Nella Giornata della memoria gli ebrei di oggi dovrebbero includere anche i civili palestinesi trucidati dal governo sionista.