«Noi non abbiamo paura della bomba» esorcizzavano in musica I Giganti negli anni Sessanta della Guerra Fredda, e il refrain avrebbe funzionato perfettamente almeno per tutti i vent’anni successivi e anche dopo, senza perdere mai veramente di attualità.
Nella Beirut di questi giorni, dove la bomba, quella grossa, la si aspetta da un momento all’altro, c’è chi, come Alì,* simpatizzante di Hezbollah, la pensa allo stesso modo: «Non abbiamo paura, anzi vogliamo che vengano presto, perché questo segnerà la loro fine. Stavolta Isrele non vincerà, è la sua fine, tra due o tre anni si vedrà chi ha ragione».
Nelle more di un attacco israeliano su larga scala, chi non sposa la baldanza di Alì e dei suoi amici miliziani tiene a dissociarsi sempre più da Hezbollah: semplici cittadini, associazioni, istituzioni politiche e religiose non perdono occasione di accusare pubblicamente il Partito di Dio di voler trascinare il Paese in una guerra dalle conseguenze disastrose.
Siccome accomunare Hezbollah e Stato Libanese, terroristi e civili inoffensivi è un vecchio consumatissimo gioco di Israele, praticato da anni anche con i Palestinesi, parlare a nuora perché suocera-comunità internazionale intenda appare una strategia difensiva necessaria, sia nel presente che nella prospettiva di uno scenario futuro sfavorevole al Paese dei Cedri. Specie in un contesto come quello libanese, in cui lo Stato è assente, il Governo e il Presidente della Repubblica latitano da anni e l’Esercito, male armato e peggio finanziato, è debole.
Dopo quasi quattro mesi, gli scontri quotidiani tra milizia sciita e IDF (Forze di difesa israeliane) lungo la Blue Line tra Libano e Israele hanno causato dalla parte libanese distruzioni di edifici in decine di villaggi, lo sfollamento di circa 80.000 persone, danni ingenti all’agricoltura e all’allevamento e più di duecento vittime, la maggioranza militanti del Partito di Dio, ma anche civili e giornalisti.
Lo scontro aumenta di intensità
Davanti a quella che pare un’escalation lenta ma costante di attacchi e ritorsioni dalle due parti, recentemente Tel Aviv, per bocca del ministro della Difesa Yoav Gallant, ha fatto sapere che se, entro la fine di gennaio Hezbollah non arretrerà di dieci chilometri dal confine, l’IDF intraprenderà molto presto azioni contro il Libano.
La minaccia israeliana di sfondamento in territorio libanese non è nuova, ma negli ultimi giorni alcune bombe al fosforo hanno allungato la loro traiettoria fino ai dintorni della città di Tiro, 30 km oltre la fascia della Blue Line, dopo aver colpito sostanzialmente tutti i villaggi sul confine, da Odaisse a Tayr Harfa, da Bint Jbeil a Yarin a Marwahin, Al-Jebbayn, Houla, Markaba, al-Bustan, Umm al-Tout e Naqoura, dove si trova la base del contingente Unifil.
A ben guardare, la capitale del Libano, e la sovranità territoriale del Paese, sono state violate da Israele anche in un’altra circostanza, quando, il 2 gennaio scorso, Saleh al-Arouri, esponente di spicco di Hamas, è stato ucciso con altre sei persone da un’esplosione nella periferia sciita di Beirut.
Per quanto Tel Aviv non abbia mai rivendicato ufficialmente l’operazione, la responsabilità israeliana è stata acclarata e l’episodio mette un’ipoteca sinistra sulla città. «Preghiamo che le minacce israeliane siano solo chiacchiere» sospira tra una sigaretta e l’altra Danielle,* nella sua bella casa nel quartiere cristiano di Furn Al Chabbek. «Il Libano non è in grado di sopportare ulteriori devastazioni».
Mentre si attende lo sviluppo degli eventi, la guerra, e la paura di essa, impattano malamente sull’economia libanese. Secondo le ultime stime della World Bank, il Libano è nella Top Ten mondiale per inflazione dei prezzi dei generi alimentari, assieme ad Argentina, Turchia, Malawi, Egitto e Zimbabwe. Il conflitto, e in particolare l’eventuale escalation degli scontri sul confine, porteranno inevitabilmente ad un ulteriore aumento dei prezzi.
E c’è chi fa affari
Ma, come in ogni guerra, c’è chi riesce a fare buoni affari. E’ il caso del giornalista Mohamed,* che, in occasione del conflitto, si è reinventato come fixer per la stampa straniera. Per accompagnare un inviato al confine con Israele chiede 500 dollari, 250 per un giro nella sola Beirut: «Le mie prestazioni sono care, ma io lavoro per il National Geographic, Channel 4, France 2, Arte, media prestigiosi. Questo è, prendere o lasciare» conclude serafico.
Come lui, molti altri hanno abbracciato questa attività, tanto che accompagnare la stampa al confine «a vedere un po’ di azione» è divenuto un business redditizio, ancorché rischioso.
In realtà, su entrambi i lati della Blue Line c’è poco da vedere: lo scenario è lo stesso, fatto per la maggior parte del tempo di paesi abbandonati e silenzio irreale, fino ad un’esplosione improvvisa, al lancio di un missile, al ronzio di un drone. Aspettando la bomba, quella grossa.
* I nomi sono di fantasia
La blue line non è un luogo dove scorre un fiume lavico e magmatico; mi sembra fuorviante il termine incandescente; conosco solo una incandescenza anzi preciso con parole mie teste calde desiderose di “menare le mani” amanti di una filosofia conosciuta quanto stonata. “Tanto peggio tanto meglio” a questi nuovi filosofi non importa nulla del pastore o contadino che ogni giorno và a lavorare in compagnia del rumore quà è là di bombe che esplodono, e queste attività le svolgono a poche decine di metri da loro.
mario