Questo articolo è frutto di un lungo colloquio tra Francesco Strazzari e Ioannis Maragós. Il dialogo ha toccato tanti tasti “sensibili”, come la comprensione e la pratica dell’ecumenismo, i matrimoni misti, l’educazione religiosa e la difficoltà tra ortodossi e cattolici (in Grecia) di vivere come buoni vicini. Nell’articolo parla Maragós in prima persona.
Voglio precisare che ciò che qui esporrò lo farò più a modo di causerie (come dicono i francesi) o di reportage che come articolo “scientifico”. È come una piccola sintesi dell’esperienza a cui sono arrivato. Non voglio convincere nessuno, desidero solo condividere alcuni semplici pensieri.
Comincio con le mie modeste conclusioni e poi esporrò le ragioni per cui sono giunto ad esse.
Non tradire la radicalità evangelica
La frase del Vangelo «Che tutti siano una sola cosa» è una profezia escatologica che tiene viva la speranza di un mondo migliore, pacificato, sotto la nube luminosa dello Spirito di Gesù Cristo.
Il movimento iniziato da Gesù e dalla sua testimonianza di vita non affonda le radici nel voluminoso Catechismo romano, o nei dogmi formulati dai concili ecumenici, o nella grande patristica e teologia medievale e contemporanea, ma nel buon vicinato fra la gente – «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», oppure: «Fa’ tu per primo agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te», o ancora: «Ama il prossimo come te stesso», con il segno tangibile di un pasto memoriale dell’amore per gli altri che può giungere sino al sacrificio della tua vita –, tutto nato e vissuto dai primi discepoli nei quattro vangeli, scritti in base a ciò che si ricordavano del loro maestro.
Il futuro del cristianesimo, almeno del mondo occidentale, sarà costituito da una galassia di piccole oasi-comunità di cristiani che avranno come patrimonio condiviso la Bibbia e il credo adottato dal rito del battesimo, perché quello niceno-costantinopolitano è troppo intellettuale. E, come nucleo etico, le Beatitudini, il Padre nostro e gli aforismi del Signore “ma io vi dico”, che non sono cosa da poco.
Il popolo che attorniava Gesù in Palestina aveva piantato su questo terreno fertile le sue tende e ha fatto crescere – come una galassia di stelle – sia comunità piccole e di poco conto sia comunità grandi e vigorose. Un albero con rami rigogliosi ma anche con ramoscelli viventi grazie allo Spirito di Gesù che fluiva nel possente tronco che è lo Spirito del Gesù risorto.
Poi – dopo aver quasi dimenticato il detto «Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo e il servitore di tutti» – è entrato il tarlo dell’“autorità e del potere”. A questo vanno aggiunte le discussioni intellettualistiche le quali, con le loro divergenze, hanno minato il terreno del cristianesimo.
Tutto ciò, tuttavia, non impedisce né affievolisce l’attuazione della radicalità evangelica, che va totalmente conservata, e non vanifica il cuore del messaggio cristiano. Il problema nasce quando si deve passare dalla radicalità dei valori-principi alle scelte particolari e alla loro applicazione. Qui cresce l’incertezza e si accentua il relativismo, mentre – come insegna papa Francesco – occorre tenere vivo l’annuncio della misericordia divina che rinnova l’uomo dal di dentro, spingendolo a fare della propria esistenza un cammino di conversione.
Una preghiera “eretica”?
Dall’anno 1968, dal 18 al 25 gennaio la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani si celebra sulla base di un tema generale, approfondendo un passo biblico appositamente scelto con l’ausilio di un sussidio elaborato congiuntamente dalla commissione Fede e Costituzione, dal CEC (protestanti e ortodossi) e dal “Segretariato per l’unione dei cristiani” voluto da Giovanni XXIII (cattolici). Sono otto giorni di preghiere per implorare l’unità dei cristiani. Quest’anno, al centro della preghiera per l’unità dei cristiani c’era il tema «Ama il Signore Dio tuo… e ama il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). I testi di commento, le preghiere e le indicazioni su come vivere questo momento sono stati preparati da un Gruppo ecumenico del Burkina Faso, coordinato dalla Comunità locale di Chemin Neuf.
Con una carrellata su Google, si nota facilmente l’abbondanza dei commenti in proposito, le foto di archivio riproposte per l’occasione, dove si vedono tanti arazzi variopinti che indicano tante Chiese, confessioni, congregazioni, raggruppamenti… che condividono il comune denominatore cristiano.
Si trovano tante preghiere appropriate, tanti discorsi dove i pii desideri abbondano, si usa ormai un vocabolario standard. I baci e gli abbracci di pace alla fine non sono d’obbligo… Può darsi che molta gente tra il popolo orante si emozioni sino alle lacrime.
Alla fine. ci si dà l’appuntamento per l’anno successivo o per il prossimo incontro, sperando che ci si metta d’accordo, anche, se nel frattempo, nessuno cambia idea.
Nel medesimo tempo, si organizzano incontri piccoli e grandi, a volte anche spettacolari, di dialogo multilaterale e gli specialisti pubblicano una serie di testi che sono – purtroppo! – ad usum nostrorum tantum.
Prima di tutto, mi si permetta una piccola osservazione per spiegare in quale contesto cade questo appuntamento ecumenico, perché non esiste la medesima sensibilità a est e a ovest del Mediterraneo. Basta richiamare alcuni testi.
Il 45° canone dei Santi Apostoli precisa: «Qualsiasi vescovo, prete o diacono che prega con gli eretici sia sospeso, e, se si è loro permesso di compiere delle azioni, in quanto membri del clero, sia deposto». (La stessa disposizione si trova nel 46° e nel 65° canone Apostolico, e anche nel 33° canone del Sinodo di Laodicea).
Questo sacro canone apostolico non specifica esattamente quale preghiera o ufficio è proibito, ma vieta ogni preghiera comune con gli eretici, sia anche quella privata («συνευξάμενος» [«pregare in comune»]). Ma non succede forse molto più di questo nelle preghiere comuni ecumeniche?
Il 32° canone di Laodicea precisa: «Non si devono ricevere benedizioni dagli eretici, le quali sono più cose insensate che benedizioni». Ma non succede forse questo negli incontri ecumenici, nelle preghiere comuni, dove a benedire sono gli “eretici” romano-cattolici, vescovi e sacerdoti, pastori protestanti e anche delle donne? (!).
Questi canoni, e tutti quelli che riguardano i santi Apostoli e i santi Padri, valgono non solo per l’epoca antica, ma continuano ad avere assoluto vigore ancora oggi, per tutti i moderni cristiani ortodossi. Sono tuttora validi nei confronti dei romano-cattolici e dei protestanti. Ecco quanto si legge nel libro Conosci la grandezza dell’Ortodossia (Tessalonica 2007. Tradotto a cura di Tradizione Cristiana, maggio 2009): «Il cattolicesimo-romano è una molteplice eresia; e cosa dire del protestantesimo? Meglio non parlarne». Questo, tanto per citare un testo ritracciabile anche in italiano.
La mentalità dominante all’est, bene o male, è tuttora questa. In internet si può trovare la sua più recente ed eclatante applicazione. Siamo nel maggio del 2001 e papa Giovanni Paolo II viene in Grecia sulle orme di san Paolo – cosi si diceva – e in vista della fratellanza e del miglioramento delle relazioni tra le due Chiese. Solo a sentire l’annuncio di tale visita in Grecia è successo il finimondo. La più semplice obiezione era: come mai l’eretico per antonomasia può venire a calpestare il sacro suolo della Patria Ortodossa Greca?
Il papa è venuto e, tra le iniziative ricche di spirito ecumenico, vi è stato un incontro organizzato all’Areopago dove avrebbe predicato san Paolo. Ci si sarebbe aspettata una solenne cerimonia religiosa. Invece, è stata una sceneggiata “laica-culturale”, dove anche i canti e gli “inni sacri” delle due parti sono stati eseguiti a mo’ di musicale tradizionale e i brani degli Atti degli Apostoli sono stati letti come un racconto epico che inneggiava alle gesta di un uomo famoso e alle imprese da lui compiute con tanto vigore.
Nella vita quotidiana della gente comune cos’è rimasto di quell’evento? Uno spettacolo stupendo. Ben presto dimenticato, però, perché sopraffatto dalla ricerca del pane quotidiano. Non ne è rimasta traccia nelle pratiche religiose quotidiane.
Ma uno strascico molto poco “cristiano”, quella visita l’ha lasciato. Sino a quel momento, i sacerdoti ortodossi, quando frequentavano i nostri riti religiosi (cattolici) per ragioni sociali o per le feste patronali, accendevano la loro candela come è loro abitudine. Poi recitavano insieme con noi il Pater noster. Durante la consacrazione, si toglievano per rispetto il copricapo (calimafki).
Dalla venuta del papa, le visite sono sempre più rare e, quando vengono per varie ragioni sociali, i sacerdoti ortodossi tengono la bocca chiusa e il copricapo ben saldo in testa. E tutto ciò per non dare l’impressione ed essere accusati di preghiera comune («συνευξάμενος» [«pregare in comune»]). Di certo, i nostri fedeli si scandalizzano, e non credo che anche i loro non ne vadano fieri…
Ancora un piccolo episodio che può dare l’impressione di un pettegolezzo, ma non credo che lo sia. Lo scorso 23 novembre è volato al cielo il vescovo emerito della nostra diocesi, Francesco Papamanolis. Alla cerimonia funebre ha partecipato il metropolita ortodosso dell’isola con tutto il suo clero. In vita erano amicissimi. Prima della sepoltura, nel discordo d’addio pronunziato dal metropolita – un discorso veramente commovente dal quale traspariva tutta la loro l’amicizia –, molte volte lo ha chiamato «carissima o amatissima eccellenza», mai però con il suo ministero e ufficio ecclesiastico, cioè «vescovo»: che sia stato un caso?
I matrimoni misti
C’è una questione che, per noi, rappresenta un problema pastorale pressante e pesante, e credo che lo stesso succeda anche per la Chiesa ortodossa. Sono i matrimoni misti. Nelle nostre isole ormai calcoliamo in circa l’80% i matrimoni misti.
Come gli ortodossi affrontino questo problema, non lo so. Sarebbe stato auspicabile un dialogo fra le parti, non per risolvere il problema, ma per tenere una linea pastorale il più possibile comune. Attualmente non si può pensare nemmeno ad una conversazione amichevole seduti davanti a una tazza di caffè.
La questione comporta un ventaglio di problemi. Nella maggioranza dei casi, i coniugi affrontano la situazione con noncuranza, con indifferenza, spesso con una benevola accondiscendenza: «Va bene così come stiamo, non c’è problema, adoriamo tutti lo stesso Dio». Ritengono verità quello che loro sanno e pensano. Non vogliono essere ulteriormente disturbati. La loro religiosità si limita a fare il segno di croce passando davanti ad una chiesa o ad entrare in qualche chiesa ogni tanto e accendere una candela, oppure nell’esprimere un voto e recitare qualche preghiera di intercessione, specialmente quando la malattia ha bussato alla loro porta.
L’educazione religiosa dei figli, siano essi cattolici o ortodossi, nella maggioranza dei casi, è affidata alla madre. Oppure, in modo più o meno consapevole, lasciano questo compito alla buona volontà delle nonne che cercano di salvare il salvabile. Certo esistono anche delle eccezioni.
Poi c’è l’eventualità del divorzio. La Chiesa cattolica lo esclude e, semmai, si parla dell’eventualità di un annullamento. La Chiesa ortodossa, pur reputando il matrimonio indissolubile, per l’economia della salvezza e per diverse altre giustificazioni, accetta due divorzi e tre matrimoni. Certo, dal secondo matrimonio in poi, non si parla di sacramento, ma si poterebbe dire, nel linguaggio della teologia latina, di sacramentale. Tutto questo scritto con caratteri molto piccoli e quasi illeggibili.
La procedura per arrivare al divorzio viene lasciata allo Stato. La decisione viene accettata dal metropolita locale che, con la sua firma, la rende solennemente valida e religiosamente legittima ed esecutiva.
Ovviamente, mai il tribunale civile nega un divorzio, anzi fa di tutto per dichiararlo il più presto possibile. Per lo sposo/a ortodosso tutto è risolto e può risposarsi in chiesa, quando vuole e quando gli piace.
Il problema si pone per la parte cattolica. Se il cattolico vuole risposarsi in chiesa, deve compiere il percorso di annullamento del proprio “matrimonio”. Nel caso la persona che si vuole sposare fosse uno/una ortodosso/a divorziatο/a, deve anch’egli ricorrere al tribunale cattolico (!) per ottenere l’annullamento del suo matrimonio ortodosso.
Queste sono le regole, che pochi capiscono e ancor meno seguono. Quasi tutti si rifugiano nella Chiesa ortodossa, se uno dei due è ortodosso, e celebrano un bel matrimonio religioso. Ovvio che rimane anche la soluzione del matrimonio civile.
Esiste poi anche la possibilità, più sbrigativa, del “contratto di convivenza”, dove tutto viaggia in maniera più spedita. Quest’ultima possibilità diventa sempre più diffusa, anche tra coloro che non avrebbero nessun impedimento per celebrare un matrimonio tradizionale.
Molti cattolici divorziati – nel caso volessero risposarsi in chiesa con un partner ortodosso – optano per la Chiesa ortodossa, che non ha problemi di sposarli, anche se uno o tutti e due sono divorziati. Nel migliore dei casi, al cattolico, visto che c’è il divorzio civile, chiedono di portare un certificato di battesimo. Sin qui, più o meno, tutto va bene.
Il problema nasce quando il cattolico “si ricorda” del sacramento dell’eucaristia celebrato nella sua Chiesa, a cui prima a mala pena si accostava, magari a Pasqua o a Natale, ovviamente bypassando il sacramento della confessione.
Coloro (pochissimi) che si pongono il problema di coscienza vengono a consultare un prete, poi però non accettano il “no” finale. Allora cominciano le imprecazioni e si accampano le più variopinte accuse-scuse. Di certo, ormai la maggioranza si accosta motu proprio al sacramento senza problemi. (Del resto, anche i cattolici fanno lo stesso, ignorando il sacramento della confessione).
Allora il povero celebrante cattolico che fa? Penso che i lettori più devoti diranno che il celebrante dovrebbe rifiutare il sacramento. Qualche mio confratello ha osato negarlo, ed è successo il finimondo in chiesa, sia da parte dell’interessato/a sia da parte degli altri partecipanti alla messa, schierati pro o contro. Il caso, per mesi, è diventato un’ottima materia di discussioni nei bar e nei caffè.
Personalmente, sin dalle mie prime esperienze da parroco avevo optato per offrire la comunione, con buona pace di tutti, anche perché, in una delle tante orazioni nella messa, diciamo, rivolti al Signore, che lui ci ha dato l’eucaristia «come medicina per la vita eterna». E, alla fine, mi domandavo: «chi sono io per giudicare?». Quando ho sentito pronunciare queste stesse parole da papa Francesco, sia pure per un argomento diverso, ho lodato e ringraziato Dio di non essere il solo.
L’educazione religiosa
Collegato al problema dei matrimoni misti è quello dei bambini, nati da questi matrimoni, per ciò che concerne la loro educazione religiosa. Per il momento, non affrontiamo l’intera problematica del catechismo di primo ascolto.
Di solito, nel nostro paese, dove lo spirito “patriarcale” si manifesta soprattutto in certi momenti, uno dei campi privilegiati è la religione strettamente legata allo spirito della “grecità”. Per consuetudine – qui si parla piuttosto di tradizione (ci piace molto questo temine tanto che lo usiamo dappertutto) –, i bambini devono seguire la religione del padre. L’educazione religiosa, invece, spetta alla madre, sia che siano madri ortodosse con bambini battezzati cattolici, sia che siano cattoliche con bambini battezzati ortodossi.
Di solito, non se ne fa una questione di principio. In famiglia, al riguardo, regna una benevola ignoranza o un certo pressapochismo. Si fa ciò che si può e, alla fine, tutto è affidato alla buona volontà dei nonni paterni o materni e, nel migliore dei casi, ai corsi di catechismo della parrocchia cattolica. Quando, però, il bambino è arrivato a ricevere il sacramento della confermazione – cioè alla 3ª o alla 4ª elementare –, si dice “adesso basta, è più che sufficiente”. A essere sinceri, lo stesso avviene anche per la maggioranza delle famiglie cattoliche.
Quanto alla frequenza alla messa domenicale, non se ne parla proprio, perché, di solito, il padre non se ne interessa e demanda tutto alla madre. Ma ambedue o sono indaffarati o dedicano la domenica al riposo. Normalmente, sia i cattolici sia gli ortodossi, nel migliore dei casi, si fanno vivi a Natale e Pasqua. Con una differenza: i cattolici scelgono il Natale perché più pittoresco, gli ortodossi la Pasqua. Si fanno vivi anche per qualche festa patronale o per la prima comunione o confessione, e in occasione di qualche matrimonio o battesimo di amici.
Infine, esiste pure la “saggia” decisione di lasciare al bambino, quando – con l’aiuto di Dio – crescerà, la facoltà di scegliere secondo coscienza. Questa mentalità comincia a farsi strada anche per molti bambini nati da matrimoni non misti.
In conclusione, ci troviamo di fronte a una generazione religiosamente pressoché indifferente o con le idee confuse o pressapochiste o, al massimo, a una nuova religione che potremmo definire “sincretista”. Fa pena vedere dei bambini che frequentano i corsi di catechismo incertissimi su come fare il segno della croce. La maggioranza di loro, verso la fine dell’anno, forse deciderà di farlo in modo cattolico. Quando poi andranno a scuola o si troveranno in pubblico, sceglieranno il modo ortodosso.
Questi sono i frutti di un certo modo di praticare l’ecumenismo. Ciò che il semplice fedele ha capito lo esprime così: “tanto, adoriamo lo stesso Dio; il resto sono affari dei grandi a cui interessa solo non perdere il potere”.
Vivere da buoni vicini
Ho parlato solo del mio paese. Tra ortodossi e cattolici, nelle isole dove siamo conosciuti, finalmente viviamo in santa pace.
Altrove, ancora a causa dell’ignoranza, della paura della diversità e dello sconosciuto, o delle vecchie scorie del passato non tanto lontano, la cattiva educazione genera il sospetto.
Nel semplice popolo fedele, alcuni ci tengono alle loro differenze, altri, senza difficoltà, alternano le usanze religiose degli uni e degli altri.
Fra i nostri anziani c’è sempre un po’ di lamentela e di nostalgia; dicono che diventiamo sempre più ortodossi. Credo che il cattolicesimo greco, sia quello nato in loco, sia quello di importazione (che era di lingua latina), presto o tardi, nella sua maggioranza, sarà assorbito pacificamente dall’ortodossia, se non altro per i matrimoni misti.
Ciò è successo innumerevoli volte in passato, a cominciare dai commercianti che viaggiavano e che, per ragioni di lavoro, prendevano la residenza nei territori greci; così è accaduto con i “famigerati” latini delle Crociate. Ai nostri giorni capita che studenti greci o lavoratori all’estero si innamorino e si sposino e poi risiedano in Grecia in luoghi dove la Chiesa cattolica è assente. Costoro passano tranquillamente alla Chiesa sorella.
La “separazione” tra le Chiese non è stata causata da un unico atto, tradizionalmente datato il 16 luglio 1054, quando il cardinale Umberto Da Silva Candida depositò la nota scomunica sul Santo Altare di Santa Sofia, provocando la stessa risposta da parte del patriarca Michele Cerulario, gesto che ha portato alla rottura tra le due Chiese. C’è stata anche una progressiva separazione dei due mondi dove erano radicate le due Chiese, dovuta principalmente a differenze politiche e culturali, che poi si sono trasformate in differenze e in conflittualità religiose.
Più o meno, lo stesso succederà più tardi in occidente dove una necessaria e pressante richiesta di riforma farà nascere più Chiese particolari.
La preistoria è molto lunga. Nel Nuovo Testamento si notano già i primi attriti tra gli ellenisti e i giudaizzanti. Si arriva poi alle grandi dispute sulla natura di Gesù di Nazareth, utilizzando, nelle discussioni teofilosofiche, la terminologia della grande cultura greco-romana. In seguito, registriamo l’ingresso di nuove culture “barbariche” che penetravano nei territori dell’impero romano. L’epoca di missionari varca i confini con i primi tentativi di inculturazione, secondo il detto di Paolo ai Corinzi «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno».
Inizialmente, tutto questo portò un grande beneficio, ma poi si cadde nel grave errore di legarsi al carro del potere romano ormai in decadenza. L’unità dello Stato si sfaldava e cercava un salvagente nell’unità della Chiesa che, a sua volta, per paura delle novità, cercava dei protettori. Così Stato e Chiesa cominciarono a coalizzarsi.
Le grandi dispute teologiche – anche conciliari – avevano portato allo scoperto gli eretici che, nella maggior parte dei casi, erano la manifestazione di un nazionalismo nascente oppure il simbolo del conflitto tra centro e periferia. Una volta sconfitte, alcune fazioni erano spinte fuori dai confini. Da non dimenticare che, con il crollo dell’impero occidentale, l’ingresso di nuovi popoli, portatori di nuovi costumi e di nuovi modi di vivere e di pensare, ha modificato l’assetto culturale-politico-religioso.
Qualcosa di analogo è succeduto anche in Oriente. Sin dai tempi di Costantino comincia a fare i suoi primi passi, con Eusebio di Cesarea e altri i teologi di corte, la teologia politica. Inoltre, la sostituzione, in Occidente, della lingua greca, più o meno ufficiale nella Chiesa, con quella popolare latina ha reso difficile la comprensione comune.
Tutto questo ha fatto sì che i due grandi mondi, con le enclave nazionali nascenti, lentamente si distanziassero fino a compromettere una reciproca intesa.
La difficoltà, o l’impossibilità, di comprendere la lingua ha giocato un ruolo importante. L’imperatore Michele III, nell’864, riferendosi alla lingua latina, la definì «barbarica», cioè incapace di esprimere la profondità della teologia nel modo in cui la esprimeva la lingua greca. Da lì, le accuse grandi o piccole si sono moltiplicate e non ci volle molto per farle diventare delle autentiche occasioni di litigio dove ognuno arrogava a sé la verità e il potere. Gli storici calcolano che, sino alla data fatidica (1054), erano sorte (e ricomposte) almeno sei scissioni.
Si è trattato, dunque, di una progressiva estraneazione, di un allontanamento psicologico che andava approfondendosi con le relative polemiche tutt’altro che “fraterne”, creando una reciproca diffidenza di base con tante ripercussioni psicologiche. Si è venuta consolidando in tal modo una mentalità che ha prevalso da almeno quattro secoli.
In questi ultimi tempi, grazie al movimento ecumenico, al Vaticano II, ad altri eventi eccezionali e alla buona volontà di tutti, era nata una forte speranza che la distanza tra cattolici e ortodossi potesse essere superata e si potesse raggiungere un accordo di fondo. Dopo quell’iniziale entusiasmo, tutto è tornato come prima, salvo qualche sporadica debole fiammata tanto per ricordarci che qualcosa si deve fare. C’è comunque da registrare che l’epoca della grande litigiosità e della contrapposizione pare essersi ormai chiusa nello scrigno della storia.
Sono stati proposti anche dei modelli di una possibile unità.
Il principale è quello di tornare allo spirito del primo millennio cristiano. Ma i tempi sono totalmente differenti da quelli di allora e sono irreversibili. Il mondo è molto cambiato. Oggi viviamo in un mondo pluricentrico, pluriculturale, plurireligioso, insofferente dei dogmatismi, dominato dalla finanza, con ideologie e giochi di potere ad alto tasso di litigiosità. Si tenta di vivere più o meno pacificamente. La massima aspirazione sembra quella di essere buoni vicini e, se possibile, di rispettare i diritti umani di base.
Dentro questo mondo siamo chiamati a vivere e a dare una buona testimonianza su più fronti, offrendo il nostro contributo con la pratica radicale del messaggio evangelico di cui siamo portatori.
È arrivato il momento di dimenticare “la mitica Roma”, anche se c’è chi parla ancora di prima, seconda e terza Roma, tanto da dare l’impressione che, nella Chiesa, sia ancora vivo il sogno di governare e non di pascere, del potere e dell’autorità e non dell’umiltà e del servizio.
È tempo di favorire un rapporto di buon vicinato, senza aspirare a grandi cose ma coltivando ciò che è piccolo, bello e umano.