È passato molto, troppo tempo tra la tragedia delle foibe e la sua piena integrazione, per dir così, nella memoria condivisa. Migliaia di esseri umani morti due volte: nelle fosse infernali prima, nell’oblio poi. O, più di recente, relegati in qualche nota a margine dei libri di storia.
Occorre saperne sempre di più e rendere partecipi tutte e tutti, in particolare i più giovani, di quel dramma. Ma perché a esso si è aggiunto il dramma del silenzio? Sarebbero da interpellare innanzitutto gli storici. Non sono fra essi. Da cittadino forse meno smemorato di altri, tuttavia, propongo qualche considerazione.
Non si può essere così manichei da attribuire l’omissione solo all’ “egemonia culturale” della sinistra, soprattutto del Pci. In realtà, così come gli eventi sono spesso il risultato del convergere di istanze, interessi, spinte dissimili e sovente lontane tra loro, anche per la cronaca e per la storiografia accade qualcosa del genere.
Il Maresciallo Tito, con i suoi partigiani, riuscì a respingere i nazisti senza attendere l’arrivo dei sovietici. Cito dal manuale di storia di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto: “In Jugoslavia in particolare – il paese in cui il movimento di resistenza assunse più che altrove le dimensioni di una guerra di popolo – l’esercito popolare guidato dal comunista Josip Broz (più noto col nome di battaglia di Tito) prevalse nettamente sui gruppi nazionalistici e monarchici”. Oltre a tale “merito originario” – insanguinato dalla barbarie delle foibe, e non solo – alcune pagine dopo il volume condensa con straordinaria efficacia ciò che condizionò un po’ tutti almeno fino al crollo del Muro di Berlino, nel 1989.
Ascoltiamo: “L’unico fra i regimi dell’Est europeo che cercò, con successo, di sottrarsi all’egemonia sovietica fu quello jugoslavo. La rottura si consumò nel 1948: in seguito alle resistenze di Tito ai piani staliniani di ‘divisione del lavoro’ all’interno del blocco orientale, l’Urss sospese dapprima ogni collaborazione economica, quindi, in giugno, condannò ufficialmente i comunisti jugoslavi, accusandoli di ‘deviazionismo’ e di collusione con l’imperialismo ed escludendoli dal Cominform” (la rinata internazionale comunista). “Completamente isolata dal mondo comunista (che si schierò compatto con Stalin)” anche in Occidente, “la dirigenza jugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull’equidistanza fra i due blocchi”, fino a divenire uno dei principali animatori del movimento dei Paesi non allineati (il “terzo mondo”, che non si sentiva “neutrale”, bensì, appunto, “non allineato”), “e un nuovo originale corso in politica interna, volto alla ricerca di un equilibrio fra statalizzazione ed economia di mercato.
In realtà, sul piano dell’organizzazione politica, il modello jugoslavo non si differenziava da quello delle altre democrazie popolari, basato com’era sulla ferrea dittatura del Partito comunista” – la Lega dei comunisti – “(l’unica differenza stava nel fatto che, a partire dal ’48, vittime della repressione furono i cosiddetti ‘cominformisti’, fedeli a Stalin). Sul piano economico, il sistema basato sull’autogestione delle imprese da parte delle direzioni aziendali e dei consigli di fabbrica avrebbe preso corpo, fra molte difficoltà, solo negli anni ’60, senza peraltro consentire lo sviluppo di una vera economia di mercato” (resta celebre il fallimento del tentativo di produrre un marchio automobilistico proprio).
“Eppure l’esperienza jugoslava suscitò notevole interesse in Occidente, sia perché rappresentò in quegli anni l’unica seria dissidenza all’interno del mondo comunista, sia perché il regime di Tito, riproponendo la formula della Federazione fra serbi, croati e sloveni, riuscì per molto tempo a bloccare i conflitti etnici che avevano a lungo insanguinato il paese (e che si sarebbero drammaticamente riproposti alla fine del ’900)”. “Serbia debole, Jugoslavia forte”, così il Maresciallo riassumeva la sua linea (e, dopo la caduta del regime, tutti ricordiamo gli “stupri etnici” e gli altri orrori legati agli scontri tra le etnie).
Ancora ho memoria, ad esempio, di quando, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, non pochi socialisti elogiavano il modello dell’autogestione (vocabolo ancora adesso in voga fra gli studenti durante le occupazioni delle scuole).
E, più in generale, vi è stata una convergenza tra le principali forze dell’“arco costituzionale” volta a mantenere con Belgrado rapporti di buon vicinato. In alcuni prevaleva l’istanza della pace e della coesistenza, in altri la simpatia per un “esperimento politico” diverso da quello sovietico; un po’ tutti provavano a guardare all’oggi e al futuro, accantonando gli orrori, considerati forse “naturali” e “inevitabili”, della guerra. Di ciò la storiografia ha sicuramente risentito.